Pensi di avere una visione strategica Pop?
Dopo il Quiz dedicato all’Esteta in Prolegomeni 117, ne propongo oggi uno dedicato al profilo Visionario/Visionaria, su cui ci si può esercitare cliccando su questo link e rispondendo alle 10 domande previste.
Ricordo che:
- Ognuna delle 10 domande ha una sola risposta corretta con un punteggio associato.
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Attenzione: ci sono domande che valgono 1 punto, ma altre che ne valgono 2, 3 o 4!
- Cliccando sui titoli dei box che le contengono, otterrai un contenuto extra per contestualizzarle meglio.
Il Neo di Matrix
Come icona Pop maschile del test ho scelto il Neo di Matrix, che condivide con il profilo del Visionario Pop molteplici connessioni simboliche, filosofiche e narrative:
- Visione oltre l’apparenza. Neo è colui che “vede oltre” la realtà simulata della Matrix, riconoscendo l’illusione e accedendo a una verità più profonda. Il Visionario Pop fa lo stesso nel contesto organizzativo e culturale: decodifica le narrazioni dominanti, coglie le interconnessioni invisibili e costruisce nuovi orizzonti di senso. Come Neo, rompe la superficie per accedere a una comprensione sistemica e trasformativa.
- Il potere del “sensemaking”. Neo non è solo un combattente: è un decifratore di codici, un interprete del mondo digitale. Il Visionario Pop è un sensemaker: trasforma segnali deboli, dati e cultura in significato condiviso. Come Neo, legge il “codice” della realtà per generare consapevolezza e orientamento.
- Leadership ispiratrice e trasformativa. Neo non impone, ma convoca: guida attraverso l’esempio, l’intuizione e la visione. È un leader riluttante ma profondamente etico. Il Visionario Pop esercita una leadership di convocazione, che unisce le persone attorno a una visione comune, ispirando fiducia e senso di appartenenza.
- Cultura Pop come linguaggio di liberazione. Matrix è un’opera profondamente pop, che mescola filosofia, cyberpunk, arti marziali e mitologia. Neo è un eroe pop postmoderno, figlio del remix culturale. Il Visionario Pop utilizza la Cultura Pop come codice universale per creare connessioni autentiche, proprio come Matrix parla a diversi livelli culturali e generazionali.
- Etica e responsabilità. Neo sceglie la pillola rossa: un atto di responsabilità etica verso la verità, anche se dolorosa. Il Visionario Pop fonda la sua visione su valori etici, sulla “cura” e sulla consapevolezza, rifiutando scorciatoie e narrazioni manipolative.
- Remix e innovazione. Matrix è un remix culturale: filosofia platonica, buddhismo, cyberpunk, anime giapponesi. Il Visionario Pop interpreta l’innovazione come remix creativo, capace di reinterpretare il passato per costruire futuri alternativi.
In sintesi: Neo incarna il passaggio da una realtà imposta a una realtà co-costruita. Come il Visionario Pop, è un narratore di nuovi mondi, un curatore di senso, un architetto di possibilità. Entrambi operano in contesti dove la realtà è fluida, e dove la visione è l’unico vero strumento di liberazione.
Coco Chanel
Ho scelto quindi Coco Chanel come controparte femminile di Neo perché, come lui, ha incarnato una rottura radicale con l’ordine esistente, trasformando non solo la moda, ma l’immaginario culturale del suo tempo. Ecco perché è perfettamente coerente con il profilo della Visionaria Pop:
- Visione oltre i codici imposti. Chanel ha decostruito i codici rigidi della femminilità borghese, liberando il corpo e lo stile delle donne. Come la Visionaria Pop, ha visto oltre le convenzioni, immaginando un nuovo modo di essere, di apparire, di esistere.
- Innovazione come atto di libertà. Ha trasformato il guardaroba femminile in un manifesto di autonomia: il tailleur, il jersey, il nero come colore elegante. La Visionaria Pop, come Chanel, non segue la moda: la crea, reinterpretando il passato per costruire futuri alternativi.
- Leadership trasformativa. Chanel ha costruito un impero partendo da una visione personale e radicale, guidando con carisma e determinazione. La Visionaria Pop non comanda, ispira: come Chanel, guida con stile, coerenza e visione.
- Cultura Pop come linguaggio universale. Chanel è diventata un’icona globale, un simbolo che attraversa generazioni, media e culture. La Visionaria Pop usa la cultura pop come codice condiviso, capace di parlare a tutti, ovunque.
- Etica dell’essenziale. “La moda passa, lo stile resta”: Chanel ha promosso un’estetica della semplicità, dell’autenticità, della verità. La Visionaria Pop cerca l’essenza, non l’apparenza. Come Chanel, sceglie la pillola rossa della coerenza e della profondità.
In sintesi: Coco Chanel è la Visionaria Pop per eccellenza. Ha riscritto le regole, ha creato nuovi significati, ha trasformato la realtà. Come Neo, ha liberato il possibile.
Il pensiero di Cosimo Accoto
Questa volta il test si sviluppa lungo la falsariga delle riflessioni svolte con Cosimo Accoto, il celebre filosofo della tecnologia, in questi ultimi dieci anni, almeno da La #Digital Dispruption in 5 parole chiave, 2015.
Significativa la proposta, pienamente coerente con la visione del Pop Management come paradigma epistemologico e culturale, che facemmo già allora, nell’ambito della curatela di uno speciale HBR che poi uscì con il titolo The Platfirm Age: cinque neologismi per descrivere altrettanti fenomeni emergenti che stanno ridefinendo il modo in cui pensiamo l’impresa, la leadership e l’organizzazione.
- PLATFIRM
Sintesi tra platform e firm, il termine indica l’evoluzione dell’impresa in piattaforma relazionale e operativa. «Non solo le big tech, ma anche aziende tradizionali come Nike, osservavamo 10 anni fa, si stanno trasformando in reti di piattaforme per la co-creazione di valore». La Platfirm è il Social & Digital Workplace che integra comunicazione, collaborazione, conoscenza e processi in un unico ambiente digitale. - HUMANWARE
Superando la retorica del “customer/employee-centric”, Humanware sottolinea la necessità di abilitare attori umani e non umani in ecosistemi di apprendimento e innovazione. Gli spazi fisici diventano ambienti di social learning e engagement, dove la conoscenza si costruisce in modo collaborativo e informale. - MARKETHING
Neologismo che fonde marketing e thing, per descrivere l’incontro tra marketing e Internet of Things. Gli oggetti diventano media, i prodotti piattaforme, e la comunicazione si sposta da canali a ecosistemi sensoriali e connessi. Rachel Botsman individua cinque principi per una strategia di Markething efficace, tra cui la trasparenza, la valorizzazione delle capacità inutilizzate e la costruzione di comunità distribuite. - ALGORHYTM
Unisce algorithm e rhythm, per indicare il ruolo dei dati e degli algoritmi nel dare ritmo e senso alle decisioni. I dati diventano l’interfaccia principale con il mondo, e la capacità di progettare processi analitici e predittivi è cruciale per generare valore e orientare l’azione. - LEADERSHIFT
Evidenzia il passaggio da modelli di leadership tradizionali a forme di guida più fluide, distribuite e partecipative. In un mondo di disruption continua, la leadership diventa curatela di ecosistemi, attivazione di community e gestione della latenza. È la leadership Pop: estetica, simbolica, relazionale.
Successivamente Cosimo divenne autore di una trilogia — Il mondo dato, Il mondo ex machina, Il mondo in sintesi — a cui si è recentemente aggiunto Il Pianeta latente. Questi testi non sono semplici saggi, ma veri e propri dispositivi concettuali che ci aiutano a comprendere come stia cambiando la nostra idea di realtà, di soggettività e, di conseguenza, di organizzazione.
Analogamente, nel mio lavoro sul Pop Management, ho cercato di esplorare come le imprese possano evolvere da strutture gerarchiche e razionali a organismi culturali e simbolici, capaci di dialogare con la complessità del mondo contemporaneo. In questo senso, il Pop Management non è solo una strategia comunicativa o una moda estetica: è un paradigma epistemologico che riconosce la centralità della cultura pop, dei media, della narrazione e della tecnologia nella costruzione del valore organizzativo, sulla scorta della lezione “popsofica” di Deleuze.
Come ho scritto nel primo Prolegomeno al Manifesto del Pop Management, «la Popsophia non si limita a semplificare gli interrogativi sempiterni della filosofia rendendoli comprensibili a un pubblico di massa, ma produce nuovi paradigmi che articolano la complessità del mondo contemporaneo»
E uno di questi paradigmi è proprio il Pop Management, che si nutre di contaminazioni, estetiche ibride e linguaggi transmediali.
Accoto, da parte sua, ci invita a ripensare radicalmente cosa intendiamo per “umano” e per “realtà”. In Il mondo in sintesi, ad esempio, ci mostra come la simulazione non sia più solo uno strumento tecnico, ma un orizzonte ontologico: viviamo in un mondo sintetico, dove il reale è sempre più costruito, modellato, predetto. In Il Pianeta latente, questa visione si espande ulteriormente: il pianeta stesso diventa un sistema latente, un ambiente computazionale in cui ogni cosa — dati, corpi, emozioni — è potenzialmente traducibile in codice, in pattern, in modello.
È qui che il Pop Management incontra pienamente il pensiero di Accoto. Se il mondo è codice, allora anche l’impresa è codice. Se l’identità è simulazione, allora anche la leadership è una forma narrativa, una performance. Se il pianeta è latente, allora il management deve diventare curatela di latenza: capacità di leggere, interpretare e attivare ciò che è potenziale, invisibile, ancora in formazione.
Soprattutto, riprendendo il lavoro seminale del 2015, nei Prolegomeni ho parlato di Organizzazione Pop come Hypermedia Platfirm: «un ambiente ibrido, fluido, interattivo, dove si co-crea valore attraverso la partecipazione, la narrazione e l’intelligenza collettiva».
L’Hypermedia Platfirm è il punto di arrivo di un lungo percorso di trasformazione digitale e culturale, in cui l’impresa si fa piattaforma, media, spazio di relazione. Una Popfirm.
La Popfirm è l’evoluzione della Platfirm in chiave estetica, simbolica e partecipativa. È un’impresa che non solo si comporta come una piattaforma, ma vive come un media culturale, capace di generare senso, emozione e appartenenza. È un’impresa che parla il linguaggio della contemporaneità, che si muove tra TikTok e Shakespeare, tra metaverso e teatro, tra dati e sogni. Come è scritto in Prolegomeni 116: «Per farlo è necessario usare tutti gli strumenti della cultura Pop, parlare alle nuove generazioni con il loro linguaggio, adattarsi al cambiamento per generare un impatto positivo sulla società».
In definitiva, la Popfirm è il luogo in cui il pensiero di Accoto e il mio si incontrano pienamente: un’impresa che non solo gestisce, ma immagina. Che non solo produce, ma simula. Che non solo compete, ma crea cultura. Ma vediamo qualche punto di convergenza più approfonditamente.
Dallo Humanistic al Pop Management
A vent’anni dalla redazione del Manifesto dello Humanistic Management, il Pop Management nasce dall’urgenza di riconnettere l’impresa con il mondo contemporaneo, superando modelli chiusi e autoreferenziali.
Questo processo trasformativo si fonda su trasparenza, condivisione e dialogo aperto con tutti gli stakeholder, valorizzando opinioni, esperienze e saperi diffusi.
Per essere davvero contemporanea, l’impresa deve adottare linguaggi e format in sintonia con la cultura pop, capaci di attivare partecipazione, senso e comunità.
Il pensiero di Cosimo Accoto, come emerge dai suoi scritti e interventi, si colloca all’incrocio tra filosofia, tecnologia e cultura organizzativa. Nei suoi lavori — in particolare nella trilogia Il mondo dato, Il mondo ex machina e Il mondo in sintesi — Accoto esplora la trasformazione dell’umano in un’epoca dominata da dati, algoritmi e automazione
In questo contesto, il passaggio dallo Humanistic al Pop Management può essere letto come un’estensione naturale della sua riflessione: non si tratta più di umanizzare la tecnologia, ma di riconoscere che l’umano stesso è un costrutto in continua ridefinizione, plasmato da media, codici e infrastrutture digitali.
Il Pop Management, in linea con questa visione, non si limita a integrare l’umano nel management, ma assume che l’umano sia già ibridato con il simbolico, il computazionale e il mediatico. L’impresa, allora, diventa un laboratorio di sperimentazione culturale e tecnologica, dove si ridefiniscono continuamente identità, ruoli e significati. Accoto invita a pensare l’organizzazione non come un’entità stabile, ma come un “sistema operativo” in evoluzione, capace di apprendere, adattarsi e generare senso in un mondo sempre più complesso e interconnesso.
Un punto centrale del pensiero accotiano, dicevamo, è l’idea del “mondo come codice”, sviluppata in particolare in Il mondo ex machina. Qui Accoto descrive come la realtà contemporanea sia sempre più costruita, interpretata e trasformata attraverso infrastrutture computazionali, algoritmi e modelli sintetici.
Nel Pop Management, questa visione si traduce in una nuova postura organizzativa: l’impresa non è più solo un luogo di produzione economica, ma un ambiente computazionale e culturale che genera senso attraverso dati, narrazioni e interfacce. Il manager, in questo contesto, non è più solo un decisore razionale o un leader empatico, ma un curatore di sistemi simbolici e tecnologici, capace di orchestrare linguaggi, estetiche e intelligenze artificiali per creare valore.
Accoto ci invita a superare l’idea di un “umano” stabile e centrale, per abbracciare una visione post-antropocentrica, dove l’umano è uno dei tanti attori in un ecosistema distribuito. Il Pop Management, in linea con questa prospettiva, diventa un management delle forme e dei format, dove l’identità organizzativa si costruisce attraverso media, storytelling, design e codici digitali.
La Co-creazione
Il valore Pop più necessario per creare una community narrativa in azienda (anzi: per costituire la stessa azienda come comunità narrativa) è la capacità di co-creare senso in ambienti ibridi, dove persone, tecnologie e linguaggi si intrecciano in un ecosistema narrativo fluido e partecipativo (Prolegomeni 41).
In un post dal titolo Dormire, sognare, simulare, forse, ricordo che Cosimo Accoto nel suo saggio Il mondo in sintesi (Egea, 2022) scrive: «Viviamo in un mondo sintetico, dove il reale è sempre più costruito, simulato, programmato. Non si tratta più solo di rappresentare il mondo, ma di sintetizzarlo, di generarlo.»
In questo scenario, l’impresa, repetita iuvant, non è più un insieme statico di ruoli, ma un organismo che si evolve attraverso forme e format capaci di attivare immaginari condivisi. È una “Platfirm” (o Popfirm): un’azienda che funziona come una piattaforma narrativa, dove ogni interazione è un atto di storytelling e ogni spazio (fisico o digitale) è un touchpoint di senso (Prolegomeni 43).
«La customer experience nell’era delle platfirm è un’esperienza narrativa, immersiva, transmediale. L’azienda non è più solo un luogo di produzione, ma un ambiente di significazione», scrivevo già nel 2017 in La customer experience nell’era delle platfirm.
In questo contesto, la capacità di generare senso condiviso in un mondo sintetico e iperconnesso è essenziale. Si tratta di attivare ambienti narrativi che siano:
- Accessibili: parlano il linguaggio della cultura popolare contemporanea (reel, podcast, meme, serie TV).
- Interattivi: coinvolgono le persone come co-autori, non solo come spettatori.
- Simbolici: trasformano lo spazio e il tempo del lavoro in esperienze di senso.
La piattaforma insomma non è solo un’infrastruttura tecnica, ma una macchina retorica. Una grammatica del possibile (Platformication, 2016).
Nostalgie analogiche
In questo senso, è utile confrontarsi con le riflessioni di Tiziano Bonini nel saggio Le nostalgie analogiche di Nicholas Carr pubblicato su Doppiozero.
Bonini critica la visione tecnofobica e nostalgica di Carr, che tende a idealizzare il passato analogico e a demonizzare le piattaforme digitali come fonti di alienazione e superficialità. Secondo Bonini, questa narrazione è viziata da un determinismo culturale che ignora la complessità delle pratiche digitali contemporanee. Carr, nel suo libro Superbloom, attribuisce alle tecnologie digitali la responsabilità di fenomeni come il tribalismo, l’ansia e il narcisismo, ma Bonini sottolinea come tali effetti non siano intrinseci alle piattaforme, bensì derivino dal modo in cui vengono progettate e utilizzate.
Il Pop Management, in questo contesto, si propone come risposta generativa e non regressiva: non si tratta di tornare a un passato idealizzato, ma di progettare piattaforme come ambienti narrativi consapevoli, capaci di attivare immaginari condivisi e di restituire profondità all’esperienza digitale. La sfida non è resistere al digitale, ma abitarlo con senso, trasformando ogni touchpoint in un’occasione di storytelling e co-creazione.
Community e storytelling
Nel paradigma del Pop Management, una community aziendale non è semplicemente un gruppo di persone che lavorano insieme, ma un ecosistema narrativo e relazionale in cui si co-generano significati, valore e identità. È un ambiente in cui la collaborazione non è solo un mezzo per raggiungere obiettivi, ma una forma di espressione culturale (Prolegomeni 12).
«Le community aziendali sono il cuore pulsante della Platfirm: non solo spazi di interazione, ma ambienti di co-creazione, dove la cultura organizzativa si manifesta attraverso format pop, storytelling condiviso e pratiche collaborative.» (La customer experience nell’era delle platfirm)
In questo senso, la community aziendale è una piattaforma culturale che funziona secondo logiche transmediali e partecipative, dove ogni membro è co-autore del racconto collettivo. «A tutti e tutte noi – sostiene Accoto – è assegnata la missione di costruire un mondo programmabile, automabile e simulabile che sia anche aperto, inclusivo, equo e prospero nel presente e per le future generazioni.» (Il mondo in sintesi, 2022).
Portando alle estreme conseguenze il discorso, Cosimo arriva a chiedersi:«possiamo considerare, per esempio, gli attacchi informatici alle forme della scrittura della nostra contemporaneità (la programmazione) un’innovativa forma contemporanea di decostruzione filosofica? In che misura possiamo considerare gli attacchi informatici la versione presente di quello che la filosofia ha chiamato e chiama decostruzione? Credo sia interessante e opportuno, allora, esplorare questa idea della decostruzione filosofica delle testualità codificate (ispirata dal filosofo decostruttivista Jacques Derrida e rilanciata di recente dal filosofo della guerra informatica Justin Joque) incarnata dall’attacco cibernetico, in cyberguerra tanto quanto in cyberpace. Decostruire è avviare un confronto serrato con la pretesa struttura unitaria e chiusa dei testi (ma poi di ogni artefatto culturale, direi) con l’obiettivo di scardinarne e smontarne i presupposti nascosti, i pregiudizi impliciti, le falle e gli scarti marginali, le contraddizioni latenti disvelando la natura di quella di quella costruzione del reale che abitiamo spesso senza consapevolezza. Semplificando il discorso, se consideriamo la programmazione, il codice e i programmi software la forma particolare di scrittura del nostro presente, allora l’attacco informatico (anche nella forma estrema di guerra informatica), nelle sue varie declinazioni, può rappresentare una sorta di contemporanea filosofia decostruttiva operata con altri mezzi. Come per i processi decostruttivi filosofici, l’attacco informatico replica una specifica logica: attacca una testualità, quella della programmazione. Dunque, se consideriamo le linee di codice che istituiscono la nostra società come testualità, allora un’intrusione dentro quella scrittura è un atto di forza decostruttiva. Non è un attacco al testo-libro come è accaduto finora, ma un attacco diretto al testo-codice (che sappiamo, peraltro, essere ontologicamente insicuro per fallibilità, degradabilità, vulnerabilità). L’atto informatico decostruttivo (e anche proprio distruttivo in molti casi) produce materialmente e concettualmente aperture, fessure e crepe dentro la nuova trama testuale del nostro nuovo reale …» (Accoto 2025). Neo sarebbe certamente d’accordo!
Tornando a noi, la community, allora, non è solo un luogo di appartenenza, ma un modello operativo che riflette la trasformazione dell’impresa in sistema narrativo e computazionale. È un ambiente che filtra, seleziona, amplifica e trasforma le interazioni in esperienze di senso. Ovvero, un ambiente narrativo e relazionale che funziona come una platfirm culturale: un luogo dove le persone non solo lavorano, ma generano significato, innovazione e identità condivisa. È il cuore pulsante di un’impresa che non comunica più solo per trasmettere, ma per coinvolgere, convocare e trasformare.
Le narrazioni dominanti
In questo quadro, credo sia utile riprendere quanto sostenuto da Guido Bosticco nell’articolo Le narrazioni dominanti, pubblicato su La lettura del 21 giugno 2025. Qui analizza il potere pervasivo dello storytelling nella società contemporanea, sostenendo che oggi «conta il racconto, non la realtà». A partire dal celebre acronimo TINA (There Is No Alternative), coniato da Margaret Thatcher per legittimare il neoliberismo come unico modello possibile, l’autore mostra come le narrazioni dominanti abbiano progressivamente sostituito la realtà dei fatti con costruzioni discorsive persuasive, capaci di orientare l’opinione pubblica, le scelte politiche e i comportamenti collettivi.
«Sono discorsi pubblici potenti, in termini di persuasione e diffusione, in grado di costruire una serie di rappresentazioni che attribuiscono senso alle informazioni, organizzano il sapere, indirizzano il modo di raccontare e di interpretare i fatti» (Bosticco).
Queste narrazioni, secondo Bosticco, non sono neutre né innocue: sono strumenti di potere, spesso funzionali a interessi economici, politici o ideologici. L’autore denuncia il rischio di epistemicidio, ovvero la cancellazione di saperi alternativi e la riduzione della complessità a un pensiero unico, come teorizzato da Boaventura de Sousa Santos.
«Il trionfo stesso dello storytelling è frutto di una narrativa dominante, cioè dell’idea che il racconto sia più potente delle cose, della realtà dei fatti».
Bosticco mette in guardia contro l’uso manipolativo dello storytelling, che da strumento di senso si è trasformato in tecnica di marketing, utile a vendere qualsiasi cosa: «un modello di scarpe, un modello politico, una visione del mondo, un oggetto tecnologico, un prodotto bancario, un’azienda, pardon un brand…».
L’articolo si chiude con un invito alla consapevolezza critica: occorre imparare a riconoscere le narrazioni dominanti, a “vedere l’acqua” in cui nuotiamo, per non esserne inconsapevolmente travolti. Come scrive citando David Foster Wallace: «Siamo in mezzo a queste narrazioni e non le cogliamo, nuotando fra informazione e disinformazione con la stessa consapevolezza».
Se riprendiamo la lezione di Piero Trupia ricordata in Prolegomeni 117, secondo cui “i fatti” sono sempre “arte-fatti”, possiamo dire che Bosticco ha ragione quando afferma: «conta il racconto, non la realtà». Tuttavia, Bosticco parte da questa idea solo per elaborare una pars destruens della sua analisi sociologica, ovvero per denunciare i pericoli di uno storytelling ad uso esclusivo dell’establishment.
Bosticco sottolinea il potere pervasivo delle narrazioni dominanti, che «attribuiscono senso alle informazioni, organizzano il sapere, indirizzano il modo di raccontare e di interpretare i fatti» e che, spesso, si trasformano in strumenti di manipolazione e controllo.
Secondo l’autore, lo storytelling contemporaneo ha soppiantato i grandi racconti fondativi delle civiltà (in questo senso dando ragione a Lyotard che vedeva nel postmoderno la fine appunto “delle grandi narrazioni”, ovvero delle ideologie), riducendosi a «una tecnica che serve per vendere qualsiasi prodotto: un modello di scarpe, un modello politico, una visione del mondo». E anche su questo punto ha ragione: il Pensiero Unico Dominante (sia woke o manga poco importa) è il grande serial killer delle nostre menti.
Ma il Pop Management completa il ragionamento baconianamente assumendosi la responsabilità di proporre una pars costruens, che consiste in una visione alternativa dello storytelling, fondata su una narrazione etica, collaborativa e trasformativa. Il Pop Management non si limita a costruire storytelling accattivanti, ma mira a generare senso condiviso, a partire da esperienze autentiche e plurali, restituendo centralità alla persona e alla sua capacità di agire nel mondo organizzativo in modo consapevole e creativo. Come ho spesso sottolineato, la narrazione pop è un dispositivo di senso che consente di connettere l’esperienza individuale con quella collettiva, in un processo di co-creazione che valorizza la pluralità dei punti di vista.
La community, allora, non è solo un luogo di appartenenza, ma un modello operativo che riflette la trasformazione dell’impresa in sistema narrativo e computazionale. È un ambiente che filtra, seleziona, amplifica e trasforma le interazioni in esperienze di senso. Ovvero, un ambiente narrativo e relazionale che funziona come una platfirm culturale: un luogo dove le persone non solo lavorano, ma generano significato, innovazione e identità condivisa. È il cuore pulsante di un’impresa che non comunica più solo per trasmettere, ma per coinvolgere, convocare e trasformare.
Organizzazione Pop
L’Organizzazione Pop connota un’impresa che ha compreso un fenomeno essenziale: nel mondo contemporaneo, il valore non si genera più solo attraverso processi lineari e strutture gerarchiche, ma attraverso ecosistemi narrativi, relazionali e computazionali. È un’organizzazione che si comporta come una platfirm, una piattaforma culturale e tecnologica che orchestra interazioni, produce senso e attiva comunità Prolegomeni 43.
La total experience nell’era delle platfirm è un’esperienza narrativa, immersiva, transmediale. L’azienda non è più solo un luogo di produzione, ma un ambiente di significazione.
In questo contesto, l’Organizzazione Pop è fluida, adattiva, connessa. Non si limita a comunicare: convoca. Non si limita a gestire: cura. Non si limita a produrre: racconta.
Ma c’è di più. «Non viviamo più solo nel mondo, ma anche nei modelli del mondo. E questi modelli sono computabili, sintetizzabili, generabili.» L’Organizzazione Pop è quindi un modello generativo, che integra cultura, tecnologia e filosofia per progettare ambienti di senso. È un’impresa che si muove tra simulazione e realtà, tra esperienza e algoritmo, tra storytelling e dati.
E, come emerso anche nella conversazione Se il libro è filtrato, la cultura aziendale oggi si costruisce come un ambiente dove il sapere non si trasmette più in modo verticale, ma si co-costruisce attraverso community, format e linguaggi pop.
L’Organizzazione Pop connota dunque un’impresa che pensa come una piattaforma, agisce come una community e comunica come una narrazione. È un sistema aperto, capace di generare valore culturale, relazionale e simbolico, in sintonia con la complessità del mondo contemporaneo.
Metadisciplinarietà
Affrontare la riflessione strategica in chiave metadisciplinare significa riconoscere che, nell’epoca delle platfirm e dei mondi sintetici, la complessità non può più essere gestita con strumenti lineari o specialistici. Serve un pensiero che sappia connettere saperi, linguaggi e visioni, generando nuove forme di comprensione e azione (Prolegomeni 101).
«La metadisciplinarietà è la capacità di fare riferimento, direttamente o indirettamente, a competenze diverse da quelle che si possiedono pienamente. È uno sguardo che nasce da una visione ampia del mondo, delle sue premesse, dei suoi modi di essere, dei suoi fini.» (Platformication, 2016)
L’apertura è il valore fondativo della Pop Leadership (Prolegomeni 7) In questo senso, la riflessione strategica non è solo analisi, ma anche immaginazione culturale. È la capacità di leggere i segnali deboli, di interpretare i dati come narrazioni emergenti, di integrare filosofia, tecnologia, arte e business in un’unica visione trasformativa.
La metadisciplinarietà, allora, è la competenza strategica del nostro tempo: ci permette di navigare tra modelli, simulazioni, algoritmi e simboli, costruendo strategie che siano al tempo stesso analitiche e poetiche, razionali e speculative.
Una citazione particolarmente significativa di Cosimo Accoto, tratta da Se il libro è filtrato, che si collega perfettamente al tema della metadisciplinarietà e della riflessione strategica è la seguente: «Per capire in profondità la rilevanza crescente e allargata dell’orizzonte concettuale del ‘filtro’, credo sia utile iniziare a collocarla all’interno di quella che i mediologi hanno cominciato a chiamare ‘nuova era inflazionaria dei media’.»
Questa riflessione di Accoto ci invita a considerare che, in un contesto in cui la conoscenza è sovrabbondante, la vera competenza strategica non è solo sapere, ma saper filtrare, connettere e integrare. È qui che la metadisciplinarietà diventa essenziale: non come somma di saperi, ma come capacità di orientarsi in un ecosistema cognitivo complesso, dove ogni disciplina è un punto di vista, e il valore nasce dalla loro interazione critica e creativa.
La Cura
Nel mio percorso di elaborazione del Pop Management, la cura non è mai stata un gesto accessorio, ma una pratica fondativa. In questo, mi sento in profonda sintonia con la visione di Martin Heidegger, che in Essere e Tempo definisce la cura (Sorge) come la struttura ontologica dell’esserci: «La struttura ontologica dell’esserci è la cura». L’essere umano, per Heidegger, non è un soggetto distaccato che osserva il mondo, ma un essere-nel-mondo, un esser-ci, sempre già coinvolto, impegnato, preoccupato. La cura è la modalità originaria con cui abitiamo il mondo.
Applicando questa visione al Pop Management, possiamo dire che la cura è la condizione originaria dell’abitare umano: non si tratta solo di “prendersi cura” dei dipendenti, ma di progettare ambienti, relazioni e processi che generano benessere, senso e coesione (Prolegomeni 86).
È una forma di “essere-nel-mondo” organizzativo, in cui il management non si limita a gestire risorse, ma si assume la responsabilità di costruire mondi condivisi.
Perciò la cura è vista come la responsabilità primaria del management, che deve andare oltre la semplice gestione delle risorse per abbracciare una visione più ampia e delle relazioni interpersonali e del benessere collettivo. Anche ispirandosi ai Pokemon, se necessario (Prolegomeni 83).
In questa prospettiva, la cura è anche cura del linguaggio, dei simboli, dei format. Il manager non è più solo un leader, ma un curatore di ambienti narrativi e cognitivi. Il suo stile di ingaggio consiste nel progettare esperienze trasformative, dove ogni collaboratore è chiamato a evolvere — proprio come un Pokémon — attraverso sfide, feedback, riconoscimento e crescita progressiva. È la capacità di costruire esperienze narrative e sensoriali che parlino alle persone, non solo come lavoratori, ma come esseri umani. È un atto di design culturale.
In altre parole, l’Organizzazione Pop non è una macchina produttiva, ma un ecosistema relazionale e culturale, dove il management non si limita a gestire risorse, ma si assume la responsabilità di costruire mondi condivisi. Come si sottolinea in Prolegomeni 30 «la cura è ciò che trasforma l’organizzazione da macchina produttiva a ecosistema relazionale e culturale».
Cosimo Accoto, nel suo percorso filosofico, porta questa intuizione in una nuova dimensione: quella computazionale e sintetica. In un mondo dove tutto è potenzialmente codificabile, simulabile, latente, la cura non può più limitarsi al piano umano tradizionale. Deve diventare cura del codice, del linguaggio, dei simboli, dei format. In Il Pianeta latente, Accoto ci invita a pensare la realtà come un sistema in attesa di attivazione, di interpretazione, di progettazione. Ecco allora che la cura diventa curatela: un atto di design culturale e cognitivo.
Nel Pop Management, il manager non è più solo un leader, ma un curatore di ambienti narrativi e cognitivi. Come ho scritto in Prolegomeni 32, la leadership «è la capacità di costruire esperienze narrative e sensoriali che parlino alle persone, non solo come lavoratori, ma come esseri umani». È un approccio che si ispira anche alla cultura pop, fino a includere, ricordavo sopra, metafore come quella dei Pokémon: ogni collaboratore è chiamato a evolvere attraverso sfide, feedback, riconoscimento e crescita progressiva (Prolegomeni 83).
In questo senso, la cura è anche cura della latenza: la capacità di vedere ciò che ancora non è, ma può essere. Di attivare potenziali, di generare senso, di progettare futuri. È qui che il pensiero di Accoto e il mio si incontrano: nella convinzione che il management del futuro non sarà solo gestione, ma cura radicale — dell’umano, del simbolico, del digitale.
E proprio da questa visione nasce il passaggio dalla Platfirm alla Popfirm. Se la Platfirm è l’impresa come piattaforma relazionale e mediale, la Popfirm è la sua evoluzione estetica e narrativa: un’impresa che cura mondi, che progetta esperienze, che attiva latenze. Un’impresa che, come un’opera d’arte, non si limita a funzionare, ma fa sentire.
Fine del desiderio?
Per chiarire ancora meglio il concetto, credo possa essere utile fare riferimento ad un altro pezzo pubblicato sullo stesso numero de La lettura citato sopra, un’intervista a David Le Breton, che con la sua analisi antropologica ci offre un affresco potente e malinconico della contemporaneità: un’umanità ipnotizzata dallo smartphone, alienata, in fuga da sé stessa, immersa in un “biancore” esistenziale. Il suo sguardo è lucido, ma anche profondamente elegiaco. Tuttavia, se osserviamo questa diagnosi attraverso la lente del Pop Management, e in particolare del concetto di cura come curatela narrativa e cognitiva, emergono alcune tensioni critiche e possibilità alternative.
- Dal biancore alla latenza: il desiderio non è morto, è latente
Le Breton parla di “scomparsa del desiderio”, ma forse ciò che osserva non è una fine, bensì una trasformazione di stato. Il Pop Management, ispirato anche dal pensiero di Cosimo Accoto, ci invita, dicevo prima, a leggere la realtà come sistema latente: ciò che non si manifesta non è necessariamente assente, ma in attesa di attivazione. Il desiderio, allora, non è morto: è sospeso, rimodulato, sintetizzato in nuove forme di espressione e appartenenza.
- La cura come design esperienziale, non solo come nostalgia
Le Breton rimpiange la conversazione, la lentezza, la corporeità. Ma la cura Pop non si limita a un ritorno nostalgico: è progettazione attiva di ambienti narrativi e sensoriali che parlano alle persone nel loro linguaggio contemporaneo. Non si tratta di spegnere gli schermi, ma di abitare il digitale con consapevolezza, trasformando le piattaforme in spazi di senso e relazione.
- Dallo sciopero dell’esistenza alla co-creazione del senso
L’“esilio interiore” di cui parla Le Breton può essere letto, in chiave Pop, come un fallimento di narrazione. Quando le persone non trovano storie in cui riconoscersi, si ritirano. Il Pop Management risponde con una proposta radicale: co-creare narrazioni plurali, aperte alle diversità, trasformative. La cura, in questo senso, è cura del racconto: ogni collaboratore è un protagonista, ogni organizzazione è una saga collettiva.
- Il digitale come spazio di cura, non solo di alienazione
Le Breton vede nello smartphone un “killer del desiderio”. Ma il Pop Management lo vede anche come strumento di cura aumentata: attraverso reel, podcast, meme, playlist, possiamo generare connessioni emotive, attivare immaginari, costruire comunità. Il problema non è il mezzo, ma l’intenzionalità narrativa con cui lo si usa.
- Dalla diagnosi alla progettazione: la cura come atto creativo
Infine, la differenza più profonda: Le Breton descrive, il Pop Management progetta. Dove l’antropologo vede un mondo in declino, il Pop Manager vede un mondo in attesa di essere riscritto. La cura non è solo attenzione, ma design culturale. È la capacità di attivare ciò che è latente, di trasformare il biancore in colore, la fuga in partecipazione.
In conclusione, la critica Pop a La fine del desiderio non nega la profondità dell’analisi di Le Breton, ma la completa con una visione generativa. Dove lui vede un’umanità in sciopero, il Pop Management vede un’umanità in attesa di nuove narrazioni. La cura, allora, non è solo prendersi cura, ma curare come un artista cura una mostra: selezionare, connettere, dare senso. In un mondo sintetico, la cura è curatela della latenza.
Dall’Antropocentrismo al Pianetacentrismo
Credo possa essere interessante proseguire il confronto fra il filosofo del Novecento e il Nostro (Cosimo) per diversi motivi. Il primo si riferisce alla riflessione di Accoto su una foto della Terra: la famosa Blue Marble, scattata dall’equipaggio dell’Apollo, per concluderlo richiamando l’annuncio della futura simulazione computazionale di Earth-2. «Questo passaggio», scrive Accoto, «credo possa evocare, metaforicamente e materialmente, tutto il distacco epocale e la distanza che si sta producendo tra vecchio e nuovo mondo. Non è solo uno scatto d’epoca, ma uno scarto d’epoca. Uno scostamento del presente che è uno smottamento culturale e di civilizzazione. Una deviazione che prefigura già una nuova terraformazione (ma per chi?) del nostro pianeta. Il gemello digitale di una città la renderà finalmente più vivibile, inclusiva e sostenibile? Un organismo bioingegnerizzato ci potrà aiutare a contrastare l’inquinamento? Una simulazione quantistica saprà migliorare il consumo energetico di logistica e trasporti? Il design sintetico di nuove medicine riuscirà a curare più efficacemente malattie e disfunzioni? Gli avatar nel Metaverso serviranno ad aumentare le nostre creatività ed esperienze? Sapremo costruire organizzazioni più aperte, democratiche e decentralizzate con l’immaginazione crittografica?»
Forse non sorprendentemente la risposta a queste domande trova il suo radicamento di senso nella “provocatoria” proposta di sostituire una visione antropocentrica che sta portando il pianeta al collasso, ad una appunto “pianetocentrica” dove il bene dell’umanità è considerato tale solo nella misura in cui il suo perseguimento consente l’abitabilità stessa della Terra nel quadro di una visione sistemica della sostenibilità: “l’orizzonte a cui guardiamo non può essere allora quello solo «antropo-centrico» o «umano-centrico» classico come si sente ancora dire. Un centrismo dell’umano che è tra le cause dello stato di rovina e rischio in cui siamo precipitati. Abbiamo bisogno di sguardi più ampi che tengano in conto e che diano voce ai bisogni delle varie ecologie che animano il mondo, umane e non umane, naturali e artificiali, singole e collettive. Con una provocazione allora direi che abbiamo bisogno di uno sguardo «planeto-centrico», non «umano-centrico»”.
Prometeo e l’Intelligenza Artificiale
Accoto ne Il pianeta latente sviluppa ulteriormente questo concetto, ponendosi la domanda cruciale del ruolo umano in questo design. Ad esempio, quando sottolinea che oggi siamo di fronte al passaggio dall’immagine come supporto rappresentazionale all’immagine come dispositivo operazionale (p. 64). Immagini fatte da macchine per macchine. «Immagini che fanno cose (senza l’umano di un tempo e senza il loop)» (p. 67). Seguono domande davvero ostiche. Del tipo: «saranno le macchine (ovvero, i nuovi intrecci umano-macchinici cognitivi e decisionali all’opera) a discriminare il vero dal falso e non più, in prima istanza, il nostre sensorium, il nostro apparato di sensi e pensieri?» (p. 76).
Una possibile risposta a tali domanda la offre nel suo Odissea (Salani, 2025), Stephen Fry, che reinterpreta il mito di Prometeo come una potente allegoria del nostro rapporto con l’Intelligenza Artificiale: come il Titano che sfidò Zeus donando il fuoco all’umanità — simbolo di immaginazione, consapevolezza e potere creativo — oggi ci interroghiamo se “dare il fuoco” anche alle macchine.
In una recente intervista Frye ha dichiarato: «È come se vivessimo di nuovo il mito della creazione di Prometeo. Nel XIX secolo si ritrovava in diversi autori, penso a Shelley ma anche a Ludwig van Beethoven. Ed è significativo che Mary Shelley abbia scritto Frankenstein con il sottotitolo Il moderno Prometeo. Nel mito, Zeus dice a Prometeo: puoi creare l’essere umano ma non devi dargli mai il fuoco, inteso in senso letterale, come lo strumento per costruire strumenti, attrezzi per lavorare la ceramica e i metalli, ma anche il fuoco divino della consapevolezza della creazione e dell’immaginazione. Naturalmente Prometeo disubbidisce a Zeus e dà il fuoco all’essere umano. Zeus sapeva che se l’uomo avesse avuto il fuoco gli dei avrebbero finito per scomparire e l’umanità se la sarebbe vista da sola, senza gli dei. Oggi vediamo che alcuni sono come Zeus e dicono: va bene, creiamo l’Intelligenza artificiale ma non dobbiamo dare ad essa il fuoco. Altri sono come Prometeo e vogliono vedere cosa accade a questa IA se le diamo anche il fuoco, l’impulso, il desiderio. Sicuramente c’è un rischio in questo perché l’IA potrebbe sfuggirci di mano. Una scintilla e anche gli esseri umani potrebbero sparire. I miti greci ci insegnano molto al riguardo».
È interessante osservare che queste riflessioni si iscrivano nell’opera più complessiva dell’attore e scrittore Stephen Fry, maestro nell’arte del retelling, che alla narrazione di miti, storie e leggende del passato ha dedicato una serie di volumi. A dimostrazione che il retelling non è solo riscrittura, ma atto di cura culturale: come affermo in Prolegomeni 91, «la riscrittura di celebri romanzi in accordo con i tempi e le sensibilità mutate è ormai un genere pienamente affermato a riprova della vitalità della narrativa».
Il Pop Management valorizza il retelling come pratica di innovazione narrativa e strategica, capace di riattivare il desiderio attraverso storie che parlano al presente. Prometeo, dunque, non è solo un mito antico, ma un archetipo operativo: ci ricorda che ogni atto di creazione — umano o artificiale — è anche un atto di responsabilità. E che, come scrivo in Prolegomeni 2, «la cura è ciò che trasforma l’organizzazione da macchina produttiva a ecosistema relazionale e culturale». In questo senso, il retelling è il fuoco che può riaccendere il desiderio, restituendo senso all’umano nell’epoca degli algoritmi. Un modo per rispondere al quesito sulla necessità effettiva dello Human in the loop posto da Cosimo Accoto, se le macchine possano ormai discriminare il vero dal falso senza il nostro intervento. In altre parole, il retelling diventa anche un modo per rimettere l’umano nel circuito del senso, per rispondere — narrativamente e culturalmente — alla domanda «è ancora necessario lo Human in the loop?» con un forte sì.
Perché, come scrive lo stesso Cosimo parlando di cybersicurezza, «a rischio non è la rete dei dispositivi connessi, come si dice ingenuamente: a rischio è il mondo intero nel suo divenire programmabile. A rischio è il mondo nel suo esser-C, direbbero i programmatori. A rischio, è il mondo e il nostro esser-ci, direbbero i filosofi» (p.78).
Il Profilo
Alla luce di quanto sopra hai fatto il test? Se hai totalizzato 10 punti o più rispondi al profilo, che ti connota come una persona capace di pensiero strategico nell’era dell’algoritmo e della cultura remix. Sei una guida che parte da una visione chiara e prospettica per generare significato condiviso all’interno dell’organizzazione e per i suoi stakeholder.
Il tuo pensiero si nutre di connessioni transdisciplinari, dove filosofia, arte, tecnologia e cultura pop si intrecciano per generare visioni capaci di orientare l’azione collettiva.
Interpreti il management come un sistema operativo culturale, dove la visione non è solo strategia, ma anche immaginazione speculativa e design del possibile.
Come Neo, vedi oltre la superficie, decodifichi la realtà e guidi con etica e intuizione.
Come Coco Chanel, rompi i codici dominanti, trasformi l’identità in stile, e fai della visione un atto di libertà e innovazione.
Cosa ti distingue
- Pop come codice culturale
Per te, la cultura pop non è intrattenimento superficiale, ma un linguaggio universale che permette di costruire immaginari condivisi. Come Chanel ha fatto della moda un manifesto di emancipazione, tu trasformi la cultura in leva strategica. - Visione come algoritmo culturale
La tua capacità di visione si traduce in pattern recognition e sensemaking aumentato, dove l’AI, i dati e le tecnologie emergenti diventano strumenti per leggere il presente e prefigurare futuri alternativi. - Leadership come curatela
Non sei solo un leader, ma un curatore di significati. Come Chanel ha selezionato e reinventato simboli estetici, tu interpreti e rielabori segnali deboli per costruire narrazioni identitarie e coinvolgenti. - Etica come infrastruttura
In un mondo dove gli algoritmi decidono sempre più, la tua visione è guidata da una etica della responsabilità aumentata, che considera la tecnologia non neutra, ma da orientare verso il bene comune.
Tratti distintivi
- Pensiero speculativo e sistemico
Sai muoverti tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, esplorando futuri possibili con spirito critico e immaginazione. - Cultura come leva strategica
Vedi la cultura (pop, digitale, filosofica) come capitale simbolico e leva per l’innovazione organizzativa. - Remix e innovazione narrativa
Interpreti l’innovazione come un atto di remix culturale, dove il passato viene riletto alla luce di nuove visioni (in linea con il concetto di remix culture di Accoto). - Tecnologia come alleata del senso
Non subisci la tecnologia, ma la integri come protesi cognitiva per amplificare la capacità di visione e connessione.
Punti di forza
- Generi visioni che ispirano e orientano
Le tue narrazioni non sono solo ispiratrici, ma anche operative, capaci di guidare l’azione. - Crei ecosistemi narrativi
L’organizzazione diventa un ambiente narrante, dove ogni touchpoint è un’occasione per rafforzare l’identità e il senso condiviso. - Abiti l’incertezza con fiducia
In un mondo liquido e algoritmico, sai abitare l’incertezza con spirito esplorativo, trasformandola in opportunità di apprendimento e crescita.
Attenzione a…
- Tradurre la visione in design esperienziale
Evita che la visione resti astratta; rendila tangibile attraverso esperienze, rituali e simboli concreti. - Non perdere il contatto con il quotidiano
La visione deve dialogare con la realtà operativa, altrimenti rischia di diventare un esercizio estetico.
119 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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