Il 7 aprile è apparso in libreria Il mondo in sintesi, per l’editore Egea, volume che completa la trilogia di Cosimo Accoto sulla filosofia del digitale, comprendente Il mondo dato (ovvero “programmabile e programmato”) e Il mondo ex machina (ovvero “automatizzabile e automato”). Quest’ultimo saggio affronta il mondo “simulabile e simulato”.
Il libro, giustamente accolto con grande entusiasmo, è stato celebrato sui più importanti mass media nazionali, così come in molti luoghi della Rete dedicati all’innovazione, attraverso recensioni lusinghiere e interviste appassionanti all’Autore (che ho avuto l’opportunità di avere come ospite su questo blog in diverse occasioni, durante le quali ha anticipato alcune questioni presentate poi nei suoi libri: si vedano ad esempio le Conversazioni Platformication del febbraio 2016 e Se il libro è filtrato del novembre 2020).
Nel tentativo di offrire un personale contributo al dibattito in corso, tenterò di abbozzare un’analisi di alcune idee presenti nel testo utilizzando gli strumenti tipici dello Humanistic Management: l’approccio metadisciplinare e le esperienze maturate in ormai tre decenni.
La simulazione computazionale
Accoto esordisce chiarendo che il saggio è incentrato sul tema della “simulazione computazionale”: ovvero il processo iterativo con cui i calcolatori, usando dati, algoritmi e modelli, duplicano e riproducono digitalmente, anche in 3D, il mondo. Non caso la prima lunga citazione che si concede è tratta dal libro del 1981 Simulacri e Simulazione, scritto dal filosofo francese Jean Baudrillard, dove si affronta un tema che è al cuore della fantascienza (“fantascienza” è il primo sostantivo che incontriamo leggendo Il mondo in sintesi) di Philip K. Dick.
Gran parte della produzione dickiana, a partire da Mondo fuor di sesto (il titolo è una citazione dell’Amleto e dal libro è stato tratto il film The Truman Show) fino a I simulacri, passando per Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, pone al centro la domanda “Cosa è reale?” e offre risposte (mai definitive: quelle di P.K. Dick sono sempre “penultime verità”) che attualizzano le opzioni già offerte in precedenza da Lewis Carroll, William Shakespeare e Platone.
Grazie a queste opere, nonché ai film (e serie tv) ad esse ispirati (Blade Runner, Minority Report, Total Recall, The man in the high castle…) Dick è diventato un autore cult. Di fatto è anche il padre nobile del filone cyberpunk di cui William Gibson è l’esponente più rilevante e a cui fa capo tutta la filmografia di genere, americana, europea e soprattutto giapponese, a partire da Matrix. Pellicola che peraltro Baudrillard non amava, per ragioni simili a quelle che portano Accoto a citarla solo di sfuggita in un passaggio secondario: “O i personaggi sono nella Matrice, cioè nella digitalizzazione delle cose, o sono radicalmente al di fuori, cioè a Zion, la città di coloro che resistono”, scrive il filosofo francese in Cyberfilosofia, Mimesis, 2010. Per concludere: “in effetti, sarebbe interessante mostrare ciò che accade nel punto di giuntura dei due mondi. Ma quello che è soprattutto imbarazzante in questo film, è che il nuovo problema posto dalla simulazione qui è confuso con quello, molto classico, dell’illusione, che si trovava già in Platone. Il vero equivoco è qui. Il mondo visto come illusione radicale è un problema che si è posto a tutte le grandi culture e che da esse è stato risolto con l’arte e la simbolizzazione”.
Accoto rinforza il concetto: “Simulare, in effetti, porta con sé più comunemente un’idea di verosimiglianza o falsificazione della realtà e di imbroglio in ultima analisi. Ma siamo proprio sicuri e sicure che questa della contraffazione sia l’interpretazione più feconda che possiamo dare di questa nuova età della simulazione? O piuttosto dobbiamo immaginare che sia necessario rileggere la nostra lista iniziale di nuovi simulacri con lenti ermeneutiche differenti? Che sia urgente e opportuno, dunque, ragionare intorno a una rinnovata filosofia delle forme sintetiche?”.
La nuova “terraformazione”
Ecco così che Accoto si propone di investigare cosa succede nel “punto di giuntura fra i due mondi”, quello reale e quello simulato, generando una realtà sintesi di umano e artificiale, fisico e virtuale, analogico e digitale; o meglio, cosa accade quando il primo “collassa” nel secondo, provocando una nuova “terraformazione”. Come ha dichiarato al quotidiano Avvenire, “terraformare è ricreare le condizioni di abitabilità della Terra su altri pianeti. Ma non ci accorgiamo che, in realtà, ogni civiltà che storicamente si succede sul nostro pianeta deve anch’essa ricreare le condizioni della sua abitabilità. Ora sta accadendo nuovamente con la civiltà digitale, artificiale e sintetica che stiamo costruendo. Le simulazioni computazionali sono l’ultima delle nostre terraformazioni qui sulla Terra. Così, paradossalmente la futura realtà immersiva non è nuova fuga dal mondo, ma una sorta di nuovo sbarco dell’umano nel nostro mondo. È un nuovo modo di abitare il pianeta tra promettenti opportunità e reali vulnerabilità”.
Il nostro filosofico Marlowe (o, meglio, Deckard), da bravo detective nella sua indagine percorre diverse piste, partendo dal “realismo dei volti nel passaggio dalla tecnica pittorica alla tecnica fotografica”, che genera la domanda «Che cos’è, allora, oggi “volto”» e che arriva ad investire “sempre più anche interi ambienti, luoghi e spazi ricreati o aumentati in virtù dei media immersivi e sintetici (synthetic media). Da ultimo, a luglio 2021, l’annuncio di Mark Zuckerberg di voler trasformare Facebook da «Rete» a «Metaverso» va esattamente in questa direzione. Intende così spingere – dice – sull’immersività e la saturazione degli ambienti digitali per costruire una socialità (metamates) e un’economia (metanomics) nuove. Anche incorporando tecnologie come la blockchain per creare e scambiare valori digitali fungibili e non fungibili… E che dire dell’ingegneria del «gemellaggio digitale» (digital twinning) che immagina di creare e poi effettivamente produce copie computazionali di oggetti, macchinari, ambienti, persone?”.
Una tecnologia, quest’ultima, in grado di generare universi non dissimili dal Tlön di Borges. Ricordo che il racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (contenuto nella raccolta Finzioni, pubblicata nel 1940 e contenente diverse altre storie ispirate all’idealismo berkeleyano, quindi in ultimi istanza, platonico) prende le mosse da un articolo fantasma dell’Enciclopedia Britannica relativo a un misterioso paese di nome Uqbar, primo indizio dell’esistenza di Orbis Tertius, grande cospirazione di intellettuali per immaginare (e poi creare) un nuovo mondo, Tlön. L’epilogo, ambientato nel 1947, racconta di come la Terra stia diventando Tlön: le connessioni con il romanzo dickiano L’uomo nell’alto castello e con il film Matrix sono abbastanza evidenti, anche se Accoto preferisce a questo punto citare Zachary Horton, secondo cui “siamo nelle stesse condizioni di Alice nel Paese delle Meraviglie. «Alice curiosa cade nella tana del coniglio. Rotolata giù in un mondo non più familiare, è costretta rapidamente ad adattarsi alla sua logica aliena. Ingerire certe sostanze – così scopre – le causa una variazione di dimensioni. Questa rivelazione è insieme una sfida e un’opportunità. Ogni cambio di scala altera la sua prospettiva e la sua relazione col Paese delle Meraviglie, complicando di molto il suo tentativo di mappare quel mondo e la sua logica. E tuttavia ognuno di questi mutamenti scalari in verità espande le sue possibilità di comprensione e interazione con le strane caratteristiche di quell’ambiente». Scivolati anche noi giù nella tana del coniglio rimaniamo frastornati e sorpresi da queste nuove, strane nature. Precipitati dentro un mondo disegnato con logiche inconsuete facciamo fatica a leggere la nuova realtà senza mappe interpretative aggiornate. «Che cosa è carne, che cosa è volto, che cosa è spazio, che cosa è vita, che cosa è mondo?», torniamo a domandarci nuovamente”.
Una prospettiva che non solo, consapevolmente o meno, richiama in causa ancora Matrix, Dick e Shakespeare, ma che è ben nota a chi ha seguito il progetto Alice postmoderna, da me iniziato nel 2011 e che ancora oggi continua in un ecosistema digitale (Metaverso: ma su questo punto torniamo più avanti) che si snoda tra blog, social media, video making e teatro.
Quattro versioni del Metaverso
Febo Leondini ha postato su LinkedIn un interessantissimo documento dal titolo HoReCa e Metaverso: De te fabula narratur, “che vuole essere un primo tentativo di attribuzione di senso all’esperienza del, e nel, Metaverso nel contesto del mondo dell’HoReCa”, dove nomina Accoto fra le fonti.
Anche a prescindere dal contesto verticale cui applica i suoi ragionamenti Leondini, resta valida la modalizzazione della customer experience nella contemporanea “società delle mangrovie”, dove si è sempre al tempo stesso online e offline, “resa possibile” scrive citando esplicitamente Accoto “dal passaggio di Internet dall’essere una cablatura reticolare del mondo ad una saturazione volumetrica” e che può concretizzarsi “in quattro diverse modalità, anche sovrapposte:
- D\D: tutta digitale, con acquisto di NFT nel Metaverso;
- F\D: partendo dal fisico per approdare al digitale sul modello di LevelUp di McDonald’s;
- D\F: con inizio nel Metaverso e conclusione nel fisico, sull’esempio di Silver Beer di Heineken, o, ancora più integrata, attraverso l’acquisto 10 di NFT di metabirre nel metaverso e la consegna di lì a qualche minuto delle birre fisiche a casa;
- F\F: interamente nel fisico, alla vecchia maniera, per così dire”.
Personalmente ritengo che la seconda e la terza opzione vadano considerate come un “tutto unico”: costruire Metaversi significa principalmente (anche se non esclusivamente: Accoto insiste ad esempio molto sulla possibilità di evocare mondi simulati “impossibili” o che consentano di verificare scenari alternativi a seconda dell’attualizzarsi di condizioni diverse. Esercizio per inciso molto “dickiano”) creare ecosistemi in equilibrio (variabile) fra fisico e digitale. Facendo riferimento alle esperienze maturate nel percorso trentennale dello Humanistic Management, potrei citare come esempi di progettualità metaversale “ante litteram” non solo il già citato Alice Postmoderna, ma anche tutta l’esperienza de Le Aziende In-Visibili, nata dal “romanzo a colori”, poiché impreziosito dalle illustrazioni di Luigi Serafini, scritto da un centinaio di personalità dell’economia e della cultura “made in Italy” (2008).
Da qui nacque l’idea di realizzare Le Aziende In-visibili: la Web-Opera: nel biennio 2009-2010, un quindicina di cortometraggi sono stati realizzati con le tecniche più diverse sia da professionisti del settore (come Adelchi Battista e Luca Lisci), sia da studenti universitari (dell’Università de L’Aquila), sia da semplici appassionati. Dal racconto Test attitudinale è nato soprattutto il cortometraggio DreamCorp, realizzato nella realtà virtuale madre di tutti i mondi virtuali oggi più in voga, da Decentraland in giù: Second life.
E anche questo blog è una costola di quel progetto. Qui negli ultimi anni ho messo a punto un long format conversazionale teso a creare un ecosistema di connessioni a rimandi non solo all’interno della singola Conversazione, ma nell’ambito sia della serie di Conversazioni su un tema specifico, sia con tutto quanto prodotto in Rete durante lo sviluppo delle diverse progettualità prodotte dall’applicazione dai principi dello Humanistic Management. In questo quadro poi, tutto il percorso sviluppato nella serie di Conversazioni intitolata Librare tende a mostrare l’evoluzione che porta Dal Libro analogico agli ecosistemi digitali (Minghetti, AIE, 2020). Come lo stesso Accoto ha spiegato in questo blog, “la metafora dell’ecosistema è sempre più adoperata per interpretare fenomeni economici ad alta inter-connessione e iper-modularità come, appunto, i business a piattaforma, i mercati a più versanti, le reti decentralizzate, i criptosistemi. E, sicuramente, quella ecosistemica è una lettura che offre significativi elementi analitici ed esplicativi”.
Tornando a Leondini, sempre in linea con le idee espresse nel Mondo in sintesi, è interessante anche la proposta epistemologica “di indagare il metaverso attraverso la polarizzazione di due assi: la contestualità e il gioco. Relativamente il primo asse, quello della contestualità, si fa riferimento ad una delle caratteristiche proprie della meccanica quantistica secondo cui ogni valore assunto in modo indipendente da un’osservabile di un sistema influenza i valori di tutte le altre. Nel nostro caso l’ipotesi è definire il livello di interconnessione tra sottosistema fisico e sottosistema digitale, il Metaverso. Per quanto riguarda il secondo asse, quello riferito al gioco, l’idea è quella di definire il livello di coinvolgimento garantito dai due sottosistemi”.
Ne scaturisce una matrice ancora una volta a quattro quadranti, di cui il più significativo è quello che nasce dall’incrocio fra “alto coinvolgimento in un gioco controllato da regole vincolanti e la totale contestualità tra i due sottosistemi, quello fisico e quello digitale, che permettono di realizzare un Metaverso continuo che è alla base dell’idea di creazione di un mondo nuovo (la “terraformazione”, nel linguaggio accotiano mutuato dal filosofo Benjamin Bratton, che ricordavamo sopra). È in questo quadrante che, più di tutti, si sta realizzando quella modificazione del nostro modo di vedere e percepire la realtà che ci circonda al centro del Mondo in sintesi. “Oggi progettiamo sedie, molecole, oggetti, facce, organi, ambienti che, prima di essere reali, sono creati e simulati dentro una macchina. Forse, allora, non viviamo dentro una simulazione ma viviamo grazie alle molte simulazioni che gli ingegneri stanno predisponendo. Nel bene e nel male. Se costruite malignamente, tipo deep fake (per esempio, immagini di persone generate attraverso il computer che sembrano reali), le simulazioni erodono la fiducia e la verità nel mondo, ma se pensate benignamente possono intrattenere, curare (vedi su questo il post La realtà virtuale: dalla ricerca scientifica alle applicazioni terapeutiche, N.d.R.) ed educare”.
Le reti antagoniste generative
Fra i tanti, il tema del volto, in particolare, risulta rilevante, tanto che Accoto vi dedica un intero capitolo, intitolato 01, nessuno e centomila volti… Esplorare deep fake, digital twin, synthetic data, virtual asset.
Un tema che è oggetto di riflessione anche del mio romanzo in progress Ariminum Circus, di cui riporto un passaggio della Quinta stagione: “Il viso è la nostra identità pubblica: dichiara al mondo chi siamo, o vorremmo essere, si disse. Ma il ritratto (scultoreo, pittorico o fotografico) non riproduce la nostra vera faccia: è piuttosto un’inter-faccia fra l’io interno e il mondo esterno. Con questa non-faccia, nella digitalizzata epoca attuale, tendiamo a identificarci. La svincoliamo dal corpo di cui fa parte invitando gli spettatori a comunicare con quella e non con il nostro volto reale, le cui sbandierate intenzioni possono confliggere con lo stato delle membra cui è attaccato. Io e il JubJub, volatili dal volto umano; un individuo che ne ha uno alternativamente vuoto o con l’abissale pienezza di un buco nero come il Capitano; la Tabaccaia con gli occhi da lupa e dal corpo poderoso ma instabile; il Pirata golfista Eugenie, cyborg dai lineamenti mascelluti alla Brad Pitt e un uncino al posto della mano destra; l’ambiguo Pescivendolo, che nasconde il corpo sotto un abito ingannevole, trasformato senza sosta dai pensieri segreti, chiusi nella cassaforte di un’espressività ambigua; il Custode deforme più del Gobbo di Notre Dame e i suoi differenti volti – sette come le vite di un gatto o i nani di Biancaneve; il Maestro, con “lo sguardo assoluto” di Nicolò Cusano sul viso asimmetrico, dalla forma ellittica e con un occhio più grande dell’altro alla sommità di un corpaccione vestito di bianco; lo scheletrico Cercatore d’Oro, dal cui teschio corroso scivolano come vermi litanie di parole sconnesse: tutti ci connettiamo al World Wide Show per giocare il nostro ruolo nel teatro della vita reale senza poter prescindere dalla faccia attaccata al corpo che Dio o chi per Lui ci ha assegnato. Possiamo cambiare le carte in tavola solo nei mondi virtuali aperti da Internet, dove ci rifugiamo sempre più spesso. Per vivere attraverso le tracce digitali dei visi e dei corpi, nostri e degli altri – filmati, fotografati, fotoshoppati, manipolati, truccati, avatarizzati, taroccati – come i soggetti affetti dalla prosopagnosia di cui soffriva anche Oliver Sacks: possiedono un’ottima memoria, ma un semplice incontro con un conoscente fuori contesto determina forti incomprensioni. Sono condannati a muoversi in un mondo abitato da sconosciuti, poiché non riescono a cogliere i volti dai caratteri fisiognomici.
Almeno fino a quando, aveva previsto il Piccolo Ed, non saranno a disposizione di tutti le reti antagoniste generative (GAN): algoritmi concepiti per addestrare forme avanzate di Intelligenza Artificiale a combinare le caratteristiche iniziali di un volto (umano o finto) con quelle di un altro. Ognuno di noi avrà in tal modo decine di facce tanto ben elaborate da sembrare vere. Diverranno allora matrici per creare, grazie alle stampanti 3D, maschere in similpelle che ciascuno potrà indossare, come fa Tom Cruise nella serie Mission Impossible. Maschere che, ben presto, saranno le nostre vere facce. Attaccate a corpi robotici, artificiali, transumani.
Divini, forse” .
Esagerazioni romanzesche? Non tanto, stando a quanto dichiarato da Daniele Bigi nella Conversazione Se il libro diventa uno schermo: “software che fanno uso del linguaggio ML sono già diffusissimi. Google Photo, ad esempio, ricerca automaticamente oggetti, animali, persone all’interno di qualsiasi immagine, senza bisogno che questa sia classificata dall’utente in alcun modo. Tale software, frutto di ricerche svolte dal team Google Brain, di fatto riconosce pattern con la stessa precisione di un essere umano.
Software basati su GAN (Generative Adversarial Network), una specifica tipologia di ML, creano un set di dati nuovi con caratteristiche simili ai dati di partenza. `Si possono ad esempio ottenere immagini fotorealistiche di volti umani fittizi. Guardate ad esempio Thispersondoesnotexist.
L’azienda Modulate.ai commercializza un software che modula alla perfezione il timbro della voce. Poco tempo fa sono riusciti a ingannare milioni di persone pubblicando un video di Obama in cui era stato completamente stravolto il suo discorso. La voce creata digitalmente risultava indistinguibile da quella originale.
MuseNet, lanciato dalla OpenAI, produce in pochi istanti musica inedita di generi diversi.
Il Disney Research lab, con cui noi di ILM abbiamo collaborato durante la lavorazione del film Disney Aladdin, ricostruendo in 3D il viso di Will Smith, ha recentemente presentato un algoritmo che consente di cambiare in automatico il volto di un essere umano in qualsiasi video“.
Da parte sua, Accoto ad esempio scrive: “Si chiama Metaphysic. È la società nata dalla estemporanea produzione di un deep fake di Tom Cruise divenuto virale. Un video con il volto e la voce del famoso attore americano falsificati. Ai nostri occhi un concetto di matrice filosofica così impegnativo è in qualche modo rivelatore. «Abbiamo scelto il nome Metafisica – scrivono sul sito – perché parla dell’interazione fondamentale tra illusione e realtà. La metafisica è una branca della filosofia che si occupa della natura ultima del mondo che ci circonda e di che cosa significa che qualcosa esista. È un concetto che ha catturato l’immaginazione umana per millenni. Oggi i media sintetici ci sfidano a considerare un concetto di realtà più flessibile o la possibilità di realtà alternative che si mappano perfettamente l’una sull’altra e svaniscono in un istante». Propongono in tal senso «strumenti e software di intelligenza artificiale per creare media sintetici iperrealistici in scala». Così recita la loro missione. Dunque: scalare industrialmente i media sintetici iperrealistici per produrre immagini e video e, da ultimo, per popolare Metaversi e mondi virtuali, non solo di facce e corpi ma anche con animali, piante e oggetti molteplici e anzi infiniti”.
Conclude Bigi: “Quanto tempo occorrerà prima che la convergenza di simili invenzioni, come è successo in passato per il cinematografo, porti alla realizzazione di software in grado di “leggere” un libro e di creare un film con un clic? Quando questo avverrà, molto probabilmente le aziende possederanno algoritmi che determinano lo stile registico, l’aspetto degli attori e il loro modo di recitare, e anche i libri emergeranno da un software basato su ML. Quando tutto ciò diventerà realtà, forse all’uomo non resterà altro che essere spettatore”.
L’Umanesimo pianetacentrico
Questo esempio mostra l’importanza di una attenta valutazione delle conseguenze paradossali (“questa è l’epoca dei «dilemmi» o dei paradossi, che è una delle parole chiave della nostra contemporaneità”: un’altra affermazione di Accoto perfettamente in linea con il mio pensiero, dato che nel lontano 1997 fondavo la rivista Hamlet che portava come sottotitolo: “Bimestrale di riflessione sui paradossi del nostro tempo” ed era destinata a divenire la culla del nascituro Humanistic Management), scaturenti dalla nuova “terraformazione” prodotta dalla simulazione computazionale. Accoto avanza la proposta di un “Umanesimo pianetacentrico”, di stampo, oserei dire, heideggeriano. A conclusione delle riflessioni sparse fin qui proposte, provo ad argomentare brevemente questa affermazione.
“Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla Terra. Non so se Lei è spaventato, io in ogni caso lo sono stato appena ho visto le fotografie della Terra scattate dalla Luna. Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui l’uomo oggi vive”. (M. HEIDEGGER, Ormai solo un Dio ci può salvare, 1966).
Credo possa essere interessante iniziare il confronto fra il filosofo del Novecento e il Nostro partendo da questa citazione (che Galimberti utilizza in esergo del suo recente ed eccellente lavoro dedicato al pensatore tedesco), per diversi motivi. Il primo è che Accoto inizia il suo percorso proprio da una foto della Terra: la famosa Blue Marble, scattata dall’equipaggio dell’Apollo, per concluderlo richiamando l’annuncio della futura simulazione computazionale di Earth-2. “Questo passaggio”, scrive Accoto, “credo possa evocare, metaforicamente e materialmente, tutto il distacco epocale e la distanza che si sta producendo tra vecchio e nuovo mondo. Non è solo uno scatto d’epoca, ma uno scarto d’epoca. Uno scostamento del presente che è uno smottamento culturale e di civilizzazione. Una deviazione che prefigura già una nuova terraformazione (ma per chi?) del nostro pianeta. Il gemello digitale di una città la renderà finalmente più vivibile, inclusiva e sostenibile? Un organismo bioingegnerizzato ci potrà aiutare a contrastare l’inquinamento? Una simulazione quantistica saprà migliorare il consumo energetico di logistica e trasporti? Il design sintetico di nuove medicine riuscirà a curare più efficacemente malattie e disfunzioni? Gli avatar nel Metaverso serviranno ad aumentare le nostre creatività ed esperienze? Sapremo costruire organizzazioni più aperte, democratiche e decentralizzate con l’immaginazione crittografica?”.
Forse non sorprendentemente la risposta a queste domande trova il suo radicamento di senso nella “provocatoria” proposta di sostituire una visione antropocentrica che sta portando il pianeta al collasso, ad una appunto “pianetocentrica” dove il bene dell’umanità è considerato tale solo nella misura in cui il suo perseguimento consente l’abitabilità stessa della Terra nel quadro di una visione sistemica della sostenibilità: “l’orizzonte a cui guardiamo non può essere allora quello solo «antropo-centrico» o «umano-centrico» classico come si sente ancora dire. Un centrismo dell’umano che è tra le cause dello stato di rovina e rischio in cui siamo precipitati. Abbiamo bisogno di sguardi più ampi che tengano in conto e che diano voce ai bisogni delle varie ecologie che animano il mondo, umane e non umane, naturali e artificiali, singole e collettive. Con una provocazione allora direi che abbiamo bisogno di uno sguardo «planeto-centrico», non «umano-centrico»”.
Ebbene, non siamo forse nei pressi del cuore stesso del pensiero heideggeriano? Scrive Galimberti: “con l’età moderna la centralità dell’uomo, il suo sostituirsi all’essere nel tentativo di assicurarsi il possesso sicuro e incondizionato dell’ente, avviene a carte scoperte, e prende avvio quello che Heidegger chiama “umanismo”, che non è l’umanesimo, perché il riferimento è a quella centralità antropologica che troverà la sua massima espressione nell’Ego cogito, inaugurato da Cartesio, che caratterizza il soggettivismo moderno che è alla base della scienza e della tecnica”. Ovvero nello sradicamento dalla Terra dell’uomo che utilizza il “pensiero calcolante” e che, per dominarla, la riduce a un mero “utilizzabile”, spingendone lo sfruttamento ad un punto tale da renderla, paradossalmente, del tutto inutilizzabile e provocandone la fine.
Accoto ritiene che il pensiero della fine debba catalizzare la riflessione filosofica sulle conseguenze della nuova “terraformazione”, causata dall’imporsi della simulazione computazionale, in maniera ancor più radicale di quanto è accaduto fino ad oggi nella tradizione occidentale, focalizzata sull’idea di un’Apocalissi o Armageddon (idea su cui gioco nel mio poemetto Armageddon Cyberjazz): “Storicamente, il pensiero della fine della specie umana ha attraversato la storia delle civiltà umane. Di volta in volta individuando nuove potenziali cause e nel tempo accumulando vulnerabilità e rischi. Catastrofi geologiche, virulenze pandemiche, superintelligenze autonome, minacce atomiche, manipolazioni genetiche, cambiamenti climatici e così via. Un tempo era connotata apocalitticamente, ora è più angosciata dall’estinzione. L’idea vera e propria di estinzione è però recente ed è diversa dall’idea storica di apocalisse. «In breve, dove l’apocalisse fissa il senso della fine, l’estinzione anticipa la fine del senso. Una è conciliante, l’altra inconsolabile”.
Per questo motivo propone un articolato modello etico basato sull’idea che “la sostenibilità digitale non è solo questione di applicazione tecnologica di soluzioni sociotecniche più eque, inclusive e green. Richiede piuttosto un cambio culturale e per l’economia anche nuovi modelli di business che andranno opportunamente guidati, incentivati, regolati e orientati al bene comune e planetario. E, finanche, tornare a discutere criticamente del capitalismo e della sua contraddittoria essenza”.
Sono temi che ho sviluppato in varie occasioni (vedi ad esempio il post Etica e tecnologie emergenti). Senza ambire alla complessità filosofica del pensiero accotiano mi limito più modestamente in chiusura a rinnovare un paio di semplici proposte utili ad orientare i nostri comportamenti quotidiani:
1) Non fidarsi troppo degli algoritmi, che rispecchiano i pregiudizi e/o gli interessi di chi li ha creati. Come scrive Accoto: “per parafrasare l’economista Thomas Piketty, non c’è niente di sbagliato nei potenti algoritmi basati sui dati, il punto piuttosto è che questi dati e algoritmi sono in troppe poche mani. Oggi i dati e gli algoritmi sono troppo spesso usati da istituzioni potenti a fini commerciali e per persuadere e controllare i cittadini, anziché per fornire ai cittadini stessi strumenti che possano aiutarli ad accedere e controllare i rispettivi dati, permettendo loro una capacità di azione sulla propria identità, andata perduta”. Il che significa però anche che, se fatti bene, gli algoritmi sono strumenti che danno informazioni in più sulla realtà. Il modo migliore di usarli è metterli al servizio di un progetto che consenta all’identità riscritta sul computer di perdere la propria fissità e permanenza, per esprimere la sua molteplicità: perché non vi sia più un’identità singola, ma un’identità plurima; non più una persona sola, ma più persone che identificano il medesimo soggetto. Come accade ad Alice che è, di volta in volta, grande, piccola, un fiore, un “mostro favoloso”, una pedina, l’amica Mabel e, comunque, in ogni momento, se stessa; così la frammentazione identitaria messa in atto attraverso Internet non determina un sé alienato, ma un sé fluido e multiplo – un “Sé proteiforme”, è stato ben detto: capace, come il Dio greco Proteo, di mutare forma a piacere, di giocare trasformazioni fluide, rimanendo però saldo nella sua coerenza.
2. Promuovere quell’intelligenza collaborativa e conversazionale già anticipata dal Cluetrain Manifesto nel 1999, che si trasforma a sua volta in cultura partecipativa, co-creativa, arrivando fino al codesign in tutti i settori produttivi. Certo, la retorica dei prosumer può sostenere la pratica occulta di una nuova forma di totalitarismo, fondata su tracciamento e controllo, su cui non si deve abbassare la guardia. Tuttavia non si può eludere il fatto che la Rete globale porta il canale della connessione dentro la collettività e, nello stesso tempo, dentro l’individuo. Consentendo a ognuno di partecipare alla Rete e di riceverne i benefici dell’Intelligenza: la quale, individuale, connettiva o collaborativa che sia, naturale o Artificiale, è sempre un “mashup” multi-contenuto, multiforme e multi-fonti.