Se il libro diventa uno schermo, una conversazione con Daniele Bigi, Mauro Carbone,Vanni Codeluppi, Alice Di Stefano e Martino Ferro.

“Nel regno digitale immateriale”, scrive Kevin Kelly, “dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche il libro diventa un librare, evolvendo da cartaceo a digitale, confrontandosi con altri sistemi di comunicazione e apprendimento”. Se il libro diventa un “librare”: questo il titolo/quesito/ipotesi che ci conduce in un viaggio su cosa è stato, cos’è oggi e cosa sarà domani il libro, attraverso Dieci Conversazioni con scrittori, editori, esperti. Come guida per orientarci in questo cammino abbiamo scelto la rilettura di tre testi visionari: uno del passato, Alice nel Paese delle meraviglie, il classico di Lewis Carroll, riprendendo alcune riflessioni sviluppate nell’ambito del progetto Alice Postmoderna; uno del presente, L’inevitabile, scritto dal cofondatore di Wired Kevin Kelly; uno del futuro, il romanzo online in corso di scrittura Ariminum Circus, di Federico D. Fellini, disponibile in versione multimediale anche su Wattpad.

Oggi ci focalizziamo su questa domanda: al termine del suo “librare” nella contemporaneità digitale, il Libro atterra “inevitabilmente” in uno Schermo? Sì, no, in che misura? Ne parliamo con Daniele Bigi, Visual Effects Supervisor di Industrial Light & Magic, il filosofo Mauro Carbone, il sociologo Vanni CodeluppiAlice Di Stefano, Direttrice Editoriale di Fazi Editore, Martino Ferro, sceneggiatore e vincitore del Premio Italo Calvino.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Visualizzare: questo è il quarto verbo proposto da Kelly per leggere la realtà contemporanea. La sua analisi prende le mosse dal fatto che gli schermi di qualunque dimensione continueranno a moltiplicarsi e rappresenteranno il diaframma verso l’informazione e la comunicazione. Questa evoluzione determina una dicotomia progressiva fra quelli che il guru americano chiama il Popolo del Libro e il Popolo dello Schermo.

Oggi siamo diventati, sostiene, per la maggior parte, Popolo dello Schermo; una cultura che tende a ignorare la logica classica dei libri o la venerazione delle copie, preferendo al suo posto un flusso dinamico di pixel. Gravitiamo verso gli schermi: del cinema, della televisione, del computer, dell’iPhone, degli occhiali a realtà virtuale, dei tablet; nel prossimo futuro graviteremo verso schermi di megapixel brillanti che ricopriranno ogni superficie. La cultura dello schermo è un mondo di flussi costanti, di infiniti assaggi musicali, di tagli frettolosi e di idee incomplete; è un fluire di tweet, titoli, instagram, messaggi informali e prime impressioni fluttuanti.

Le nozioni non sono indipendenti ma altamente interconnesse a tutto il resto; la verità non è trasmessa dagli autori o dalle autorità ma viene assemblata in tempo reale, pezzo per pezzo, dallo stesso pubblico. Il Popolo dello Schermo produce i propri contenuti e costruisce le proprie certezze, le copie immobili non sono rilevanti quanto lo è invece un accesso fluido. È una cultura veloce, come il trailer da trenta secondi di un film, liquida e indeterminata quanto una pagina di Wikipedia. Su uno schermo, le parole sono in movimento, si fondono in immagini, cambiano colore e forse perfino significato; a volte le parole non ci sono proprio, ma solo figure o diagrammi che potrebbero essere decifrati in significati diversi. Questa liquidità è terribilmente inquietante per qualunque civiltà basata sulla logica del testo.

In questo mondo, il codice in rapido movimento (inteso come codice di programmazione informatico in continuo aggiornamento) è più importante della legge, che è fissa. Il codice che si vede su uno schermo è perennemente ridefinibile dagli utenti, mentre la legge stampata sui libri non lo è. Eppure, il codice può plasmare il comportamento tanto quanto la legge, se non di più: se si vuole modificare il comportamento in Rete delle persone, basta semplicemente alterare sullo schermo gli algoritmi che lo governano, che di fatto regolano il comportamento collettivo o spingono le persone in una direzione preferenziale. Il Popolo del Libro preferisce le soluzioni fornite dalla legge, mentre quello dello Schermo individua la tecnologia come soluzione di tutti i problemi. La verità, conclude Kelly, è che siamo in una fase di transizione, e lo scontro tra queste due culture (i neoluddisti e i tecnoentusiasti che spesso si scontrano in Ariminum Circus, in episodi quali I Nottambuli o Come Si Gioca a Golf) si svolgerà in mezzo a noi, intesi anche come individui. Le persone moderne e istruite vivono il conflitto tra queste due modalità, e tale tensione diventerà la nuova normalità. Visualizziamo su ogni scala e dimensione, dall’IMAX all’Apple Watch.

Alice Di Stefano

Alice Di Stefano

È chiaro ormai che l’immagine, intesa in senso lato, già da tempo ha sostituito, o perlomeno affiancato, la parola scritta che, da sola, sembra non riuscire quasi più a sostenere il peso che per secoli ha sostenuto senza apparenti difficoltà. In realtà, anche in passato, il testo scritto ha spesso usufruito di un supporto paratestuale per meglio veicolare il suo messaggio: le miniature con cui venivano decorati i manoscritti e i libri antichi costituiscono esempi più che eloquenti di quella che è stata la semplice evoluzione di un bisogno naturale nato nell’antichità. Le incisioni rupestri, il sistema dei geroglifici e più in generale il disegno artistico nelle sue diverse declinazioni, hanno sempre accompagnato la parola scritta che di per sé necessita di una preparazione culturale superiore da parte del ricevente rispetto a quella di un semplice fruitore di immagini. Non a caso, le élite per secoli hanno considerato l’istruzione, e quindi i libri, come il bene rifugio per eccellenza in cui depositare un sapere prezioso (spesso considerato per pochi o per pochi di necessità) da tramandare oculatamente di generazione in generazione.

Con l’invenzione della stampa, e la diffusione delle alte tirature, l’accompagnamento di immagini nel testo ha potuto assolvere ad altre funzioni e il messaggio originario essere veicolato più facilmente arrivando a una fetta di popolazione prima altrimenti inaccessibile che il cinema poi ha allargato ulteriormente. L’editoria popolare, la pubblicità, la propaganda veicolata su giornali e riviste anche attraverso l’utilizzo di vignette e illustrazioni, ha portato ad allargare la base dei lettori e fruitori di messaggi in genere, che hanno avuto un ruolo importante e nuovo, anche politico, prima e durante le due guerre mondiali.

Alla società cosiddetta di massa, del resto, appartengono i libri illustrati (non solo per ragazzi) quanto le figurine vendute in edicola, le cartoline pubblicitarie e tutta una serie di trovate editoriali capaci di influenzare l’opinione pubblica al pari di cinegiornali, proiezioni di film nelle sale e simili.

Con questo excursus totalmente superficiale e sommario vorrei solo dire che il ricorso alle immagini, nella loro manifestazione statica oppure animata su uno schermo (che è solo evoluzione tecnica) non è cosa recente e che la sua altissima diffusione in questo momento non dovrebbe stupire visto che già negli anni Trenta si teorizzava sull’argomento. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, il celebre saggio di Walter Benjamin, fu scritto non a caso in un momento delicato della nostra Storia in cui la riflessione sulla propaganda a fini politici si intrecciava a nuove forme d’arte.

L’esigenza di visualizzare il pensiero è propria dell’uomo ed è sempre esistita.

Nella cultura di massa, quindi, l’immagine che ora si è fatta schermo, Imax, Iphone, Ipad, ecc. è semplicemente una modalità più semplice, più accessibile a livello popolare, meno mediata e più diretta per far arrivare un messaggio. Una modalità di fruizione del vero che nella società odierna ha prevedibilmente preso il sopravvento anche grazie all’innovazione della tecnica che ha reso possibile, e anche divertente, l’interazione con le macchine.

Il Popolo dello Schermo di cui parla Kelly esiste da diversi decenni in modalità passiva, almeno da quando i video musicali o canali tv come MTV venivano lanciati e tenuti accesi tutto il giorno come sottofondo sonoro e insieme visivo per una interferenza continua rispetto a quello che accadeva intorno e ancor prima da quando la tv regnava sovrana nei salotti assolvendo non solo a una funzione educativa ma anche di mero intrattenimento (molto significativo oggi il ricorso ai social per “far parlare” il pubblico televisivo con quello dei giovanissimi).

La tecnologia insomma ha solo accelerato e perfezionato desideri atavici che sono sempre stati presenti nell’uomo. La necessità di visualizzare stati d’animo e aspirazioni, del resto, pare sia una delle fasi cognitive tipiche del sistema psicologico umano. È anche vero, tuttavia, che la velocità con la quale si è evoluta la tecnologia negli ultimi anni ha iniziato a non combaciare più con i tempi di reazione delle persone che si stanno pian piano adattando alle macchine e non viceversa, come dovrebbe essere o almeno come ci si aspettava che dovesse essere. Fino a pochi anni fa c’era l’illusione che le macchine potessero stare al servizio dell’uomo, poi velocemente c’è stato una specie di sorpasso e ora è l’uomo che si trova costretto ad adattarsi alla macchina. Del resto, la specie umana è unica nella sua capacità di adattamento e sicuramente nel giro di qualche generazione ci saranno mutamenti anche fisici che testimonieranno di questo passaggio.

Mauro Carbone

Mauro Carbone

Provo a spostare l’analisi dal piano storico a quello filosofico. Scegliere il verbo visualizzare per marcare la distinzione tra i cosiddetti Popolo del Libro e Popolo dello Schermo è corretto solo a patto di sottolineare che anche la scrittura e la lettura di un libro cartaceo, ovviamente, significano visualizzare. Precisando che non possiede smartphone e non usa computer, lo testimonia proprio in questi giorni lo scrittore Don DeLillo al New York Times Magazine: “Questo è sempre stato un elemento importante nel mio modo di lavorare: semplicemente l’apparire di parole in una pagina, di lettere nella parola, di parole nella frase. Se posso andare avanti per un minuto, penso che sia iniziato con I nomi, che ho scritto all’inizio degli anni ’80: ricordo di aver visto chiaramente la connessione visiva [“visual”] tra le lettere, tra le lettere in una parola, le parole in una frase. Quando ho iniziato a lavorare su I nomi ho deciso di limitare ogni pagina a un paragrafo, un paragrafo per pagina, il che mi ha aiutato visivamente [“in a visual sense”] a concentrarmi più profondamente, e da allora lo faccio più o meno costantemente”.

Anche la lettura – persino quella che uno scrittore fa della sua stessa scrittura per ispirarsene e svilupparla – è dunque un’attività di visualizzazione. Come tale, può storicamente modificarsi per molteplici motivi, fra cui l’uso del medium o del supporto su cui essa prevalentemente avviene in una certa epoca. Ciò promette di fare del discrimine tra i cosiddetti Popolo del Libro e Popolo dello Schermo una linea che la nostra epoca provvederà a rendere sempre più tratteggiata, piuttosto che “una dicotomia progressiva”. Da un Popolo all’altro, infatti, inevitabilmente sono e saranno sempre di più quelli che già nel 2001 Mark Prensky battezzava “migranti digitali”.

Kelly, invece, sceglie visualizzare come uno dei verbi che definirebbero la realtà contemporanea, in tal modo proponendo di quest’ultima un’interpretazione parziale che, all’incirca trent’anni dopo l’inizio della diffusione dell’uso di Internet, rischia ormai di divenire fuorviante.

A ben guardare, questo è tipico di molta “cultura visuale”, soprattutto d’ispirazione o d’influenza americana, la quale non mi sembra abbia saputo adeguatamente cogliere e mettere in risalto che, nel corso della rivoluzione elettronica e poi di quella digitale, certo gli schermi sono via via diventati le principali interfacce visuali della nostra comunicazione, ma nel frattempo essa si è andata sviluppando in senso multimodale, variamente abbinando cioè svariati ambiti sensoriali. E sempre più si andrà sviluppando in questa direzione. Basti pensare – ed è già molto significativo – al crescente successo di prodotti culturali appositamente concepiti per essere ascoltati tramite dispositivi connessi e dotati di schermo, come audiolibri, podcast o video ASMR. Ma si pensi anche ad altri dispositivi, per ora utilizzati soprattutto nell’ambito dei video-giochi o in quello della riabilitazione fisica tramite VR, che riproducono sollecitazioni tattili od olfattive come quelli offerti da  feelreal.com.

Insomma, è vero che l’era digitale ha comportato la proliferazione d’immagini e di parole scritte di cui ha parlato Alice Di Stefano e che era stata profetizzata da un’altra Alice, quella carrolliana: una proliferazione che ha messo in crisi il tradizionale rapporto moderno delle prime come “illustrazioni” delle seconde. Ma attenzione: come ho cercato di esemplificare, l’era digitale non comporta soltanto visualizzazione, sia essa d’immagini o di parole scritte. D’altra parte, non soltanto l’era digitale comporta visualizzazione.

Questo naturalmente non diminuisce ma semmai aumenta l’impressione inquietante del fluidificarsi senza più argini della nostra cultura. Nel 1924 il teorico ungherese Béla Balázs, pubblicando L’uomo visibile (“o la cultura cinematografica”, recitava la seconda parte del titolo originale) sottolineava come, alla metà del XV secolo, l’invenzione della stampa a caratteri mobili, già ricordata da Alice, avesse consentito di saldare il libro e il concetto in una cultura che avrebbe consentito all’Occidente di dominare per secoli le altre. Siamo consapevoli che l’era digitale sta minando entrambe le componenti di quella cultura che, nel bene e nel male, ha forgiato la nostra identità collettiva? Se devo guardare agli sforzi fatti per porsi all’altezza del rinnovamento radicale che questa sfida impone, la risposta non può che essere negativa.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Certo, dai tempi del Polyster di John Waters, il famigerato film in “Odorama”, di strada ne è stata fatta. E più ancora da quando Socrate, nel Simposio, fantasticava: «Non sarebbe meraviglioso, Agatone, se le idee si potessero impartire semplicemente per contatto?». Come scrive Pablo Maurette, non è un segreto che Platone e i suoi seguaci preferissero tra tutti i sensi il più schermico di tutti, quello della vista, ritenendolo il più affine all’intelligenza e quindi il più favorevole alla contemplazione. Nel suo racconto sull’origine del genere umano nel Timeo, Platone parla solo di vista e di udito, ignorando completamente ogni altro senso, e nel celebre inizio del libro Settimo della Repubblica è nella dialettica tra la vista e la luce che si articola l’allegoria della caverna, che nel tempo è stata attualizzata divenendo di volta in volta sala cinematografica, caminetto televisivo, Iperuranio di Internet.

Di applicazione della VR in ambito medico ne ho parlato ad esempio qui: La realtà virtuale: dalla ricerca scientifica alle applicazioni terapeutiche. Il che, come molto acutamente Mauro ricorda citando DeLillo, rimanda ad una riflessione ontologica sul rapporto esistente fra gli oggetti, da una parte, i nomi e le immagini che li definiscono, dall’altra: non a caso, uno dei temi chiave di Ariminum Circus, affrontati in Episodi come  La Spiaggia Iperurania In Silenzio.

Tuttavia, difficile dare torto a Kelly quando afferma che nel prossimo futuro non saremo mai molto lontani da uno schermo di qualche tipo, a cui guarderemo per cercare risposte, amici, notizie, significati, e perfino il nostro senso di appartenenza, chi siamo e chi vogliamo essere: : «Ehi Google, qual’è il senso della vita?» finiremo forse per chiedere a uno schermo, insieme a mille altre cose, come capita in Interludio. Malevič gioca a Tetris con Josef Albers – un’Odissea. E chissà se aveva ragione il Douglas Adams di Guida Galattica per Autostoppisti (un gran libro divenuto un buon film) immaginando che la risposta sarà “Quarantadue”.

Alice Di Stefano

Alice Di Stefano

Dicono che ormai, a forza di seguire più input contemporaneamente, di passare visivamente da un social all’altro, di ricevere in continuazione notizie in tempo reale senza neanche avere modo di assimilarle, la nostra attenzione sia pari a quella di un pesce rosso. D’altra parte, la risposta immediata alla sollecitazione è quasi d’obbligo, in un mondo in cui la partecipazione diffusa serve al sapere collettivo e l’individuo, paradossalmente (abbiamo da poco lasciato la società cosiddetta individualistica per dividerci in tante unità più piccole), si perde in una miriade di informazioni che vanno poi ad accumularsi sul web.

A livello di percezione, a volte questa confusione ci fa cercare su Internet ciò che ci manca come se si potesse addirittura interrogare uno schermo sul senso della vita, sul nostro futuro prossimo o sul passato. A volte, io stessa vado sul web in cerca delle persone scomparse e mi vengono i brividi a pensare che fra poco tutta una vita potrebbe essere contenuta in un file, dopo essere stata filmata 24 ore su 24 magari, per sperimentazioni al limite del voyeurismo.

I nativi digitali, se non ancora nel corpo, hanno sviluppato cambiamenti evidenti nei tempi di reazione e nella capacità di riuscire a fare più cose contemporaneamente (come vuole il multitasking).

Marco Minghetti

Marco Minghetti

In parallelo a questi cambiamenti fisici e psichici, per tornare ai nostri libri, l’intreccio di diverse forme di narrazione, il loro metamorfosarsi l’una nell’altra, è una tendenza irreversibile. Basta dare un’occhiata alla fantastica versione dei Simpson in modalità Wes Anderson per rendersene conto. Ma c’è di più: oggi guardiamo al mondo esterno con gli occhi di artisti del Novecento che hanno influenzato e continuano a influenzare romanzieri, sceneggiatori di serie TV, scrittori di videogiochi, fumettisti e registi cinematografici. Determinando quindi l’immaginario di tutti noi. Un immaginario che si confonde sempre di più con il “reale” (vedi su questo l’ottimo Il gesto e il respiro di Gregorio Botta, in uscita per Einaudi Stile libero, ma ancor più il volume di Eric R. Kandel, neurologo, psichiatra statunitense, tra i maggiori neuroscienziati del ventesimo secolo, pubblicato nel 2017, Arte e neuroscienze: le due culture a confronto, nel quale esplora vividamente la relazione tra la creatività dell’arte e il funzionamento del nostro sistema nervoso. N.d.R.).

È un tema chiave di Ariminum Circus, sulla cui Spiaggia Iperurania si muovono, insieme a Pollock e Rothko, i due maestri dell’astrattismo raccontati da Botta, Mondrian e Van Gogh, Picasso, e Dalì, Malevič e Josef Albers con Walt Disney ed Eiichirō Oda, Hermann Melville e Jules Verne, Steve Jobs e Bill Gates: Artisti Dannati intenti nella “creazione di campi per la distorsione della realtà… strutture cellulari invisibili anche ai tomografi più potenti, che crescevano nel sistema nervoso centrale, colpendo quindi l’insieme di encefalo, midollo allungato e cervelletto. Incidendo sulle componenti chimiche dei cervelli, portavano gli individui a inquadrare i fenomeni esterni entro schemi precostituiti. Le persone vi rimanevano bloccate, come le puntine dei vecchi giradischi nei solchi dei vinili; e non ne uscivano fino a che un altro Artista Dannato erigeva un nuovo campo di distorsione che sostituiva o integrava i precedenti” (In Between. Episodio 1 della Seconda Stagione).

Già nel 2008, anticipando queste intuizioni, ho realizzato in Second Life e con altre modalità la versione video di alcuni Episodi de Le Aziende In-Visibili romanzo collaborativo a colori con 190 illustrazioni di Luigi Serafini, cui hanno contribuito anche alcuni partecipanti a queste conversazioni come Francesco Varanini (con cui, fra le varie cose, ho scritto il Manifesto dello Humanistic Management) e Francesco Morace (presente anche in Nulla due volte, un libro che mette insieme fotografia, poesia e management).

Cosa ne pensa Martino Ferro, Autore che si divide fra scrittura di romanzi per il Popolo del Libro e di sceneggiature per i film fruiti dal Popolo dello Schermo?

Martino Ferro

Martino Ferro

Devo ammettere che la divisione proposta da Kelly tra Popolo del Libro e Popolo dello Schermo non mi convince pienamente. È vero, sì, che esistono molte persone poco o per niente interessate ai libri, ma non lo vedo come un fenomeno della contemporaneità: esse sono sempre esistite, anzi credo che nella storia umana non vi sia stato un altro momento così ricco di “lettori di libri” (anche solo in percentuale rispetto alla popolazione) com’è quello attuale. Ha ragione Alice, il libro è sempre stato d’interesse per una parte elitaria e ristretta della comunità umana, e oggi lo è soltanto un po’ meno che in passato.

D’altra parte, non conosco nessuno (questo forse per mia ignoranza) tra le persone più o meno colte e comunque appassionate di libri e di lettura che ho attorno, che non frequenti gli schermi di smartphone, computer e televisioni in modo frequente e quotidiano, me compreso. Una dicotomia così netta tra Libro e Schermo per me non sussiste in questa configurazione, anche se è reale e operante nella relazione tra Narrazione e Visione, un rapporto a volte contiguo e reciprocamente fertile, a volte promiscuo e ibrido, a volte conflittuale: ma anche in questo caso non si tratta di una novità storica, avendo attraversato in lungo e largo tutta la nostra cultura, nella divisione di Arti visive e figurative e Arti narrative e della parola.

Vanni Codeluppi

Vanni Codeluppi

Diciamolo ancor più nettamente: non esiste un Popolo del Libro che possa essere direttamente contrapposto a un Popolo dello Schermo. C’è soltanto un unico Popolo dello Schermo. Il libro, come noi lo conosciamo, è comparso in Europa fra il IV e il V secolo dell’era cristiana, ma il formato schermico esisteva da molto tempo. Perché gli esseri umani per esprimersi hanno sempre fatto ricorso al formato schermico, rettangolare e di dimensioni tali da consentirne una facile manovrabilità da parte del corpo. Nel corso del tempo, le tecnologie si sono radicalmente modificate, ma noi esseri umani ci troviamo da sempre a fare ricorso all’universo dello schermo per comunicare. Cambiano i supporti e le superfici, ma il formato schermico è rimasto sostanzialmente invariato.

Naturalmente, con un livello di possibilità espressiva che cresce a seconda delle tecnologie via via disponibili. Nelle antiche civiltà, si utilizzavano dei supporti che erano fissi e consentivano la permanenza nel tempo della scrittura e del linguaggio. Tutto però si svolgeva sulla superficie di tali supporti e i messaggi erano strettamente legati al materiale (come la pietra o il legno) che veniva di volta in volta impiegato per realizzarli. Con l’arrivo della stampa, naturalmente, si sono fatti dei notevoli progressi dal punto di vista della leggerezza e della trasportabilità, ma la rigidità del legame tra il messaggio e il suo supporto è rimasta invariata. E così è successo anche con l’arrivo della fotografia e del cinema, capaci solamente di fissare degli eventi già accaduti e di renderli disponibili per visioni ripetute. Gli schermi elettronici di oggi permettono invece di accedere a qualcosa che scompare rapidamente e produce un processo di costante mutazione. Con essi, infatti, il messaggio non è più costretto ad aderire completamente alla superficie del supporto che lo contiene e diventa estremamente libero, sebbene, nel contempo, perda in parte la capacità tipica dei supporti fissi del passato di conservare la memoria nel tempo.

Ma ciò che è importante oggi è soprattutto la capacità degli schermi elettronici di fare circolare il flusso della comunicazione e da questo punto di vista tali tipi di schermi rappresentano lo strumento ideale. I tanti supporti differenti dei vari mezzi (libri, dischi, film, giornali, ecc.) si unificano tra loro e gli schermi tendono a operare come dei semplici canali di passaggio che consentono la fusione di linguaggi di varia natura e quella progressiva convergenza tra media differenti che è l’aspetto maggiormente caratterizzante lo scenario mediatico contemporaneo (vedi su questo tema L’Impresa nell’era della convergenzaMultimedialità, crossmedialità, transmedialità – Alice annotata 30, N.d.R.).

Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile, come accadeva con le forme precedenti di schermo, come ad esempio quella del tubo catodico della televisione. Ha così la sensazione di essere sempre in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere. Dunque, l’idea di potersi collegare attraverso uno schermo al mondo intero si presenta come estremamente seducente e coinvolgente per gli individui contemporanei. Ciò è rafforzato dal fatto che gli schermi tattili contenuti in molti degli odierni strumenti di comunicazione sono in grado di dare vita a una sensazione di fusione tra tali strumenti e il corpo dell’utente.

Va considerato del resto che per molti secoli gli esseri umani hanno letto grazie alla luce riflessa, che dalla candela o dalla lampadina andava verso la pagina e da lì rimbalzava verso l’occhio, mentre oggi la luce viene solitamente proiettata dagli schermi elettronici direttamente verso l’occhio di chi guarda. E, data l’enorme quantità di tempo giornaliero che le persone passano davanti agli schermi, nei loro occhi viene irradiata luce per buona parte della giornata, determinando innanzitutto delle conseguenze sul piano fisico. La luce, infatti, viene irraggiata nelle pupille e così la frequenza dei battiti delle ciglia tende a calare e i bulbi oculari si seccano progressivamente. Si può però anche sostenere che con lo schermo digitale si presentano soprattutto delle conseguenze culturali e sociali e che ci troviamo davanti a un processo di fusione progressiva tra lo schermo e il corpo del suo fruitore.

Alice Di Stefano

Alice Di Stefano

Oggi si vive soprattutto la differenza tra Popolo di ieri, che è rimasto indietro, ha ritmi più lenti, una concentrazione ancora ben focalizzata e un’inevitabile ritardo rispetto al mondo circostante (penso, ad esempio, alle persone over 65 che non hanno troppa consuetudine con i computer o che ce l’hanno molto limitata non conoscendo tutte le funzioni delle varie app o le infinite possibilità di comunicazione attuali) e Popolo di oggi, che si aggiorna di continuo ma che inevitabilmente corre il rischio di scivolare sempre più in basso per quel che riguarda il livello di approfondimento culturale. Anche chi non legge libri oggi legge molto lo stesso (come ha notato Martino e mi sembra dica anche Peresson nella Terza Conversazione e nel discorso sulla “liquidità della lettura” oltre che della scrittura): giornali on line, post sui social network, fanzine e blog hanno pagine e pagine di testo miste a immagini, video, informazioni pubblicitarie e banner.

La cultura (spesso mediata attraverso schermi di computer e device, tv, ipad, iphone, monitor all’interno di negozi, librerie e persino centri commerciali) si sta frammentando e diluendo ma inevitabilmente sta abbassando il suo livello qualitativo, visto che il rischio della disinformazione e della contaminazione con le fake news è sempre molto alto. Oggi la persona mediamente colta o anche molto colta è assai meno preparata rispetto all’equivalente di mezzo secolo fa quando chi aveva studiato (anche se il patrimonio culturale, specie scientifico, era limitato alle conoscenze di allora e i mezzi tecnologici per diffonderlo non erano sviluppati quanto lo sono ora) era in grado di spaziare tra i vari campi del sapere con grande competenza e abilità per la capacità, appresa fin dai primi anni di scuola, di assimilare i dati, memorizzarli in maniera granitica e poi riutilizzare quell’apprendimento in maniera plastica in un’ottica che riusciva ad abbracciare gli argomenti più diversi. Era proprio il metodo di base il punto forte, che metteva la persona in grado di “cavarsela” in ogni situazione trovando la soluzione ai problemi in ogni contesto con relativa facilità e disinvoltura. Già Umberto Eco, comparando le capacità dei nostri neolaureati con quelli di altri paesi, sosteneva che gli italiani fossero mediamente più preparati e anche più intraprendenti degli altri  relativamente alla capacità di fare ricerche complesse o anche semplicemente di orientarsi negli studi superiori: chi si era formato in Italia, per la maggior consuetudine con archivi cartacei e indici a schede magari scritti ancora a mano, aveva un vantaggio in più rispetto a chi era abituato a frequentare biblioteche o università in cui la catalogazione e la computerizzazione già avevano sostituito l’iniziativa individuale e facilitato la ricerca.

Del resto, l’interesse diffuso per il particolare anziché per il quadro generale rispecchia appieno quello che accade oggi in editoria (oltre che al cinema o in tv) in cui a prevalere è la narrazione di realtà o addirittura iperrealistica su quella di finzione (o, all’opposto, quella in cui c’è un salto logico totale con il conseguente approdo nel fantasy) per evadere da un mondo paradossalmente sempre più piccolo, perché alla fine sempre uguale, che invece di allargarsi si richiude in se, osservato sempre più nel dettaglio nella vana speranza di trovare un senso che non c’è. Anche il grande successo di gialli, thriller e noir si deve secondo me all’attenzione quasi morbosa nei confronti della realtà che viene analizzata, sezionata e guardata al microscopio anche nei suoi lati più misteriosi e nascosti.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

A questo proposito, vi leggo l’incipit de L’era dello schermo, scritto da Vanni per Franco Angeli, da cui partivo per considerazioni sul tema anche in Alice attraverso lo schermo (parte prima) – Alice annotata 46 e Alice attraverso lo schermo (parte seconda) – Alice annotata 47:

“In un celebre spot pubblicitario che l’azienda ha fatto realizzare nel 1984 per il lancio del suo nuovo computer Macintosh una vasta platea di persone guardava passivamente un enorme schermo nel quale spiccava il primo piano di un Grande Fratello che parlava in continuazione. Si trattava di una chiara citazione del romanzo apocalittico 1984 di George Orwell. Ad un certo punto però una ragazza entrava in scena e distruggeva il grande schermo lanciandovi contro un martello. La ragazza rappresentava la giovane azienda Apple che voleva rompere le regole vigenti e imporre un’informatica a dimensione umana, mentre lo schermo era chiaramente il simbolo dell’IBM, la grande impresa multinazionale che all’epoca dominava il mercato dei computer. Da allora non sono passati moltissimi anni, ma la finzione sembra essersi già avverata: il grande schermo si è frammentato in tanti piccoli schermi davanti ai quali le persone passano realmente molte ore della loro giornata. La cosa curiosa è che tali schermi molto spesso sono di un iPhone o un iPad venduti proprio da Apple.

Dunque, come spesso succede, la piccola azienda alternativa ha preso il posto del suo potente avversario. Ma ciò che è interessante soprattutto osservare è che noi viviamo in un’epoca caratterizzata dalla presenza di una grande quantità di schermi. Piccoli o grandi che siano, ci accompagnano tutti i giorni nei nostri spostamenti e li incontriamo in ogni luogo nel quale ci rechiamo: uffici, negozi, strade, piazze, stazioni, ecc. Durante la nostra giornata, dunque, non facciamo che stabilire continuamente delle relazioni con qualche schermo. Persino gli eventi pubblici oggi hanno l’obbligo di essere ripresi e amplificati da schermi di grandi dimensioni. Ciò vale per i concerti musicali, per i comizi politici e persino per i festival culturali, i quali non possono fare a meno di ricorrere agli schermi, che spesso diventano i veri protagonisti degli eventi. Se, come pensava Marshall McLuhan (Powers, 1992), lo schermo è solo apparentemente una specie di specchio sul quale i singoli individui e l’intera umanità possono vedere riflessa la propria immagine, mentre in realtà non è altro che un passaggio verso qualcosa (come ben sa la Alice che abbiamo commentato in conversazioni precedenti “A che serve un libro senza immagini e conversazioni?”), allora è il caso di chiedersi dove questo passaggio ci stia portando. Dove cioè stiamo andando a forza di entrare continuamente all’interno degli schermi. Ad esempio, interagendo con i personaggi dei videogiochi o dialogando con degli avatar virtuali”.

Alice Di Stefano

Alice Di Stefano

Direi che Vanni ha centrato il punto. La grande novità degli ultimi anni è proprio questa partecipazione attiva e non più passiva nei confronti degli schermi. E ciò avviene non solo con i videogiochi e simili ma anche con i social che ci inducono a interagire con altre persone sia pure indirettamente o nascosti dietro un nickname. La creatività legata alla tecnologia e la tecnologia stessa, tuttavia, nonostante le notevoli invenzioni degli ultimi anni, non ha cambiato di fatto la nostra quotidianità, che per ora è stata solo facilitata e forse ravvivata in qualche aspetto pratico o anche ludico.

Per quel che riguarda il testo scritto, ad esempio, il cambiamento non ha impattato più di tanto e soprattutto il risultato, per ora, non è stato dirompente. Lo schermo, inteso stavolta come video promozionale, booktrailer, messaggio con immagini in movimento sui social (gif, Boomerang, Tik Tok, Stories su Instagram, ecc.) può anzi contribuire a veicolare un libro, a dargli più visibilità perché l’oggetto in sé per ora è salvo, ancora immutato nella sua forma e sostanza e, nonostante tutto, molto saldo sul mercato. Che le trame dei libri sempre più spesso diventino soggetto per film, come nel caso delle serie televisive (tanto seguite e addirittura elette a nuova forma d’arte), è un fenomeno interessante e di cui prendere atto ma, anche qui, niente di nuovo sotto il sole: al centro rimangono le storie e la capacità di saperle raccontare.

Del resto, la ricaduta a livello popolare di invenzioni testuali è sempre passata attraverso forme più dirette di espressione, dalla rappresentazione teatrale al racconto orale, fino all’arte figurativa e al cinema, e la serialità, come forma di riconoscibilità, è stata sempre molto apprezzata in narrativa facendo presa soprattutto sul lettore medio. L’interazione e lo scambio tra cinema e letteratura, tra realizzazioni video e testo scritto, così come avviene oggi, può essere semmai un volano in più per i libri (quanti libri da cui vengono tratti film o serie televisive vendono tantissimo? e perché? qual è il fenomeno psicologico alla base di questo meccanismo?). Il buon segno è che forse lo schermo non basta e la rappresentazione filmata di una storia non esaurisce la curiosità intellettuale su un determinato argomento. C’è ancora un rapporto di scambio con il libro, un rapporto virtuoso, che alla base ha sempre il racconto, d’invenzione o meno, e il desiderio di conoscenza.

Per quanto riguarda l’IBM, conservo un ricordo personale visto che quando ero piccola mio padre lavorava proprio in quell’azienda. La società allora era considerata un colosso, intoccabile, fino a quando l’avvento dei personal computer non rivoluzionò le cose e le proporzioni cambiarono completamente. I grandi calcolatori al tempo servivano alla stabilità di banche, compagnie aeree, servizi dello Stato e l’uso personale di una macchina a fini ludici non era contemplato né tantomeno immaginabile, vista anche la difficoltà nell’uso degli antenati dell’MS-DOS e di quei calcolatori mastodontici.

In breve tempo, insomma, è cambiato tutto e l’uomo è diventato il protagonista: o la vittima?

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Interessante osservare che, già in un report dell’agosto 2012, Google affermava che il 90% di tutte le interazioni multimediali avveniva attraverso schermi, soprattutto di smartphone, laptop, tablet e TV.

Saltando ad oggi, secondo i dati di Digital 2020 il tempo speso sugli schermi dagli utenti di Internet nel corso del 2020 è cresciuto significativamente. Il tempo medio speso online si avvicina fortemente alle 7 ore, un incremento di quasi un quarto d’ora rispetto a solo tre mesi fa.

social media contribuiscono a questa figura per circa 2 ore e 30 minuti, vale a dire oltre un terzo del tempo totale speso su Internet. Un dato che porta acqua al mulino dei neoluddisti?

Alice Di Stefano

Alice Di Stefano

Mi sento chiamata in causa, ricordando anche un passaggio nella Prima Conversazione dove Cristina Marconi cita Kobek, con il libro edito da Fazi e il discorso sui social “cattivi” che in più abbasserebbero il livello culturale (ma anche il post di Marco Internet uccide la letteratura). Io adoro i social: mi incuriosiscono, mi divertono e mi appassionano proprio perché fanno leva, come diceva anche Formenton citando il libro di Lanier, su sentimenti e pulsioni molto elementari antichi come l’uomo. Come si dice spesso, non sono i social il problema ma l’uso che se ne fa: su Facebook vedo molte brutture, specie nell’ultimo periodo – come se si fosse incredibilmente abbassato lo standard delle conversazioni e alzato il livello di conflittualità, per via delle bolle di consenso piò o meno potenziate – ma per fortuna vedo anche molti studiosi di letteratura che scrivono post interessantissimi usando foto, spezzoni di video rari, ecc. per comunicare con altre persone incuriosite da quegli argomenti.

Aggiungo che sono molto in sintonia con quanto dice, nella Conversazione Se il libro si fluidifica, Sonia Lombardo, di cui ho apprezzato molto il discorso sugli spin off e le fanfiction, popolarissime su Internet, che rappresentano nuove forme d’espressione moltiplicatrici di creatività. Anche qui, in questi che per noi oggi sono generi d’importazione, ci si rifà ad antiche consuetudini proprie della tradizione orale e del racconto tipo “mille e una notte”: il racconto che passa di penna in penna fa parte della narrativa popolare e anche della cosiddetta letteratura d’appendice o di consumo che riempiva le pagine dei giornali prima ancora di essere etichettata in maniera dispregiativa salvo poi essere rivalutata. Le modalità odierne e la tecnologia applicata a questo gioco appassionante che è diventato il narrare collettivo hanno qualcosa di spettacolare: Wattpad è stato una vera e propria rivoluzione e molti autori nuovi, anche non di genere, sono venuti da lì.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

La nostra fame di intrattenimento in questo periodo segato da Covid e lockdown è stata saziata anche dalla televisione, per circa 3 ore e 30 minuti al giorno, che stanno sbilanciandosi via via verso la fruizione di contenuti in streaming, allontanandosi dalla tv lineare. Quasi tutte le principali piattaforme social hanno “beneficiato” di questo periodo registrando numeri in forte crescita. In particolare, Instagram ha visto la crescita più importante tra Luglio e Settembre, registrando più nuovi utenti anche di Facebook. Mantenendo questo tasso di crescita, è possibile che Instagram, la piattaforma “schermica” per eccellenza, superi WeChat e diventi la quinta piattaforma al mondo per audience complessiva nel 2021 (dati Digital 2020 di Ottobre).

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Da società di “multitaskers”, evocata prima da Alice, siamo passati a una composta da “multiscreeners”, concludeva già a suo tempo Brian Solis.

Come impatta tutto questo sulla natura del libro, sulla sua fruizione e anche sulla sua vendita?

Mauro Carbone

Mauro Carbone

L’impatto può essere molto stimolante. Ne sono esempio certi volumi di saggistica corredati di QR codes che vengono letti da apps scaricabili sul proprio smartphone, consentendo la connessione con documenti multimediali messi a disposizione dalle case editrici e relativi agli argomenti trattati nei volumi in questione. Lo sviluppo dell’editoria scolastica va in questo senso come ha ben descritto Aaron Buttarelli nella Seconda Conversazione. Di solito si tratta di documenti audiovisivi, ma eventualmente un dispositivo come feelreal.com, da me citato in precedenza, potrebbe aggiungersi per assicurare all’utente anche la percezione di altri ambiti sensoriali, tra cui quella di un “completo ambiente olfattivo”.

Come ho scritto molto di recente (Da corpi con protesi a corpi come ‘quasi-protesi’?, Ágalma, n. 40, numero monografico su “Ripensare l’inorganico”, pubblicazione prevista ottobre 2020), con l’affermarsi delle wearable technologies, saranno sempre più il nostro corpo e in particolare certi suoi organi a venire temporaneamente impiegati quali schermi connessi a dispositivi digitali, ossia quali “quasi-protesi” di questi ultimi.

Procedendo in questa direzione si potrebbe immaginare la realizzazione di tecnologie indossabili che consentano di ascoltare la voce che ci legge un testo nel contempo visualizzando le immagini sulla nostra retina utilizzata quale “quasi-protesi”, nonché percependo i suoni, le sensazioni tattili, olfattive e gustative evocate da quel testo, senza però isolarci dalla realtà fisica come fanno invece i caschi per la realtà virtuale. Ma ovviamente tutto ciò non vorrà più dire leggere un libro.

Alice Di Stefano

Alice Di Stefano

Ne L’Inevitabile, Kelly parte dal presupposto che la tecnologia è l’accelerante dell’umanità: per una volta sono d’accordo con lui, almeno in linea generale, perché la rivoluzione tecnologica è stata quella che ha impattato maggiormente sulla vita quotidiana e sul modo di percepire la realtà da parte dell’uomo anche se concordo con Luca Formenton quando dice che il libro di carta è un’invenzione che regge ancora molto bene di fronte al passare del tempo. Qualche anno fa, proprio nel momento in cui si stavano diffondendo i primi ebook, girava in rete un video molto carino sul “libro”, invenzione del millennio, in cui un uomo faceva vedere in cosa fondamentalmente poteva consistere questo oggetto magico che non aveva bisogno di essere ricaricato, che si leggeva anche sotto il sole, che era particolarmente maneggevole e che aveva anche un buon odore. Un oggetto prezioso, insomma, duraturo e difficile da soppiantare, almeno così, da un giorno all’altro. Al 2020, scongiurata la paura dell’ebook e nonostante le tante innovazioni e i timori legati al futuro del libro, questo video secondo me è ancora valido.

D’altro canto, sono rimasta colpita anche dalle parole di Paolo Del Brocco, sempre nella Prima Conversazione, sulla potenza del cinema. Spesso accade che non si riescano a dimenticare le immagini create nella testa durante la lettura di un romanzo che, trasposto al cinema, magari poi delude proprio perché lo spettatore non vi ritrova quel mondo immaginato in precedenza. Questo fenomeno è molto curioso e sta a indicare quanto in realtà la scrittura sia potente, al di là delle forme espressive o i mezzi di comunicazione che la veicolano e la potenziano.

Credo in ultima analisi che questo succeda perché il vero scrittore è colui che oltre a saper narrare una storia sa anche creare letteratura e quindi affabulare e convincere anche stilisticamente il lettore (innovando i generi e i linguaggi verso forme sempre nuove e sorprendenti) lasciandogli la sensazione di aver ricreato un mondo intero che per un po’ di tempo lo ha distolto dalla realtà portandolo in un’altra dimensione. Il vero scrittore, per intenderci, riesce con il solo testo a renderci anche il sonoro e il flusso visivo di un racconto contestualizzando una situazione presa in considerazione ed eletta a paradigma come storia.

Martino Ferro

Martino Ferro

Che il nostro tempo sia più un tempo di Visione che di Narrazione mi pare un dato piuttosto acquisito (anche se ci sarebbe da discuterne a lungo, per esempio sul ruolo egemone della Narrazione nel cinema e in molta parte dei videogame). Ma il contrasto Libro/Schermo non sussiste perché, lo ha spiegato bene Vanni, il Libro è già uno Schermo. Certo esiste una differenza tecnica tra un libro e un ebook. Ma non si tratta di una differenza essenziale, è già stato detto anche nelle Conversazioni precedenti. Il vero punto di rottura, la vera dicotomia riguarda per me la differenza tra (per parafrasare Kelly) il Popolo della Memoria e il Popolo del Libro, tra la cultura antica di Socrate o Epitteto, per cui il libro era solo un “deposito esterno” di sapere, mentre il sapere si trovava all’interno dell’uomo, nella Memoria, e la cultura del Libro che si è imposta nella nostra civiltà con il Cristianesimo.

Una volta stabilito che il sapere non si trova più “nell’uomo”, ma in un oggetto esterno, non fa più così tanta differenza che si tratti di un oggetto digitale o cartaceo. Ovvero: una differenza c’è, ed enorme, ma non riguarda l’oggetto in sé, riguarda piuttosto le modalità di possesso e di accesso a questo oggetto esterno. Mentre il “libro cartaceo” è qualcosa che si può possedere e consultare a nostro piacimento, con il semplice utilizzo delle mani e della vista (benché non sia privo di una sua deperibilità), il “libro digitale” (come ogni altro oggetto digitale) necessita di una tecnologia raffinata e in continuo mutamento per essere consultato e posseduto, una tecnologia che noi non controlliamo e da cui dipendiamo in maniera quasi del tutto passiva. Ciò induce un senso di ansia, di precarietà, ed un atteggiamento di sudditanza e schiavitù rispetto a quella tecnologia che può concederci o negarci l’accesso alla nostra propria Memoria, sempre più spesso contenuta in un Cloud di cui soltanto vagamente concepiamo la meccanica e il funzionamento, e che potrebbe esserci sottratto da un momento all’altro.

Quindi, per me, la questione in seno alla sconvolgente, epocale trasformazione antropologica che stiamo vivendo proprio in questi anni, sarebbe: c’è un modo perché questa trasformazione, questo Uomo Nuovo (ibrido di antica umanità, ancor più antica animalità e nuova tecnologia digitale) possa essere padrone dei propri mezzi, dei propri strumenti e in definitiva (attraverso la Memoria) della propria identità? Un modo per evitare che non sia schiavo di chi davvero possiede e gestisce questi strumenti sempre più innestati nel corpo stesso dell’individuo? Per fare due esempi pratici: c’è un modo perché un ebook mi appartenga e sia consultabile da me per sempre e in ogni condizione, senza dipendere dall’accesso ad una rete, dal mio abbonamento telefonico, o dal progresso/obsolescenza della tecnologia che lo contiene? C’è un modo per cui quel Libro/Diario della mia esistenza che è il social network – uno dei primi e più importanti non a caso è un (Face)Book, come aveva già visto Alice – appartenga a me, e non sia di proprietà di un privato che può sospendermene o negarmene l’accesso in ogni momento?

Questa penso che sia una delle questioni fondamentali, che riguarda quindi intimamente anche il rapporto con il libro. Personalmente, penso che se avessimo qualche secolo a disposizione per confrontarci con questi epocali cambiamenti (come al tempo dell’invenzione della scrittura) un modo di convivere con la tecnologia e di costruire un Uomo Nuovo che non sia schiavo di chi possiede le “chiavi del web” potremmo trovarlo. Il problema, a mio avviso, è che il tempo di questa mutazione non è più dato dall’Uomo, ma dalla Macchina.

Vanni Codeluppi

Vanni Codeluppi

Vorrei sviluppare il ragionamento di Martino. Il fenomeno più significativo nella nostra esperienza di relazione con gli schermi è il passaggio a una condizione “multischermica”, afferma giustamente Brian Solis. Gli schermi infatti si frantumano e si moltiplicano, articolando progressivamente le loro dimensioni. Ciò avvicina in misura crescente gli schermi al corpo umano. Anzi, si può dire che lo schermo produce un effetto di fusione con il corpo dello spettatore, sebbene sembri essere a prima vista uno strumento di distacco e separazione dal mondo. Sembra cioè rafforzare notevolmente la sensazione di poter disporre di un elevato potere nei confronti del mondo sociale circostante. Si presenta infatti come un mezzo per controllare la realtà, in quanto questa è ridotta e semplificata alle dimensioni di qualcosa che può essere tenuto in mano, toccato e manipolato con estrema facilità. In realtà, quello che succede è che siamo irresistibilmente attratti all’interno dello schermo, il quale non opera come una scena spettacolare, ma come il suo esatto contrario. Tende infatti ad annullare la distanza esistente tra lo spettacolo che rappresenta al suo interno e il soggetto che guarda.

Ne deriva che l’intenso impiego odierno degli schermi non può che generare delle intense conseguenze sulla cultura sociale e sul modo di pensare degli individui. Ciò tocca molto da vicino il libro e il rapporto che gli esseri umani stabiliscono con esso. Perché il libro stampato è uno schermo, probabilmente uno dei più significativi nella storia, ma l’arrivo del processo di digitalizzazione l’ha profondamente modificato, soprattutto dal punto di vista del rapporto di fruizione che gli esseri umani instaurano con i suoi contenuti. Il libro digitale, infatti, pur essendo veicolato da un supporto fisico, da uno schermo, è immateriale. Ha una natura instabile, che lo porta a cambiare costantemente. Si potrebbe dire che assume le sembianze di un vero e proprio “libro-flusso”. Un libro cioè che non tende a fissarsi in un’identità precisa e sembra presentarsi invece come una specie di presenza fantasmatica e spettrale. Certo, si legge come un libro tradizionale, riga per riga, pagina per pagina, ma il rapporto che gli individui stabiliscono con i suoi contenuti è profondamente indebolito dalla natura instabile che possiede, sia sul piano cognitivo che su quello della memorizzazione. D’altronde, forse non è un caso che i contenuti dei libri digitali non siano di proprietà dei loro acquirenti. Dal punto di vista legale, infatti, sono soltanto delle aziende che li hanno venduti, le quali li concedono semplicemente in uso ai lettori per un lungo periodo di tempo.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Le considerazioni che abbiamo svolto fin qui ci hanno portato a ripercorrere una strada che ci conduce oggi “attraverso lo schermo”: ma inizia agli albori della società occidentale, con l’invenzione della scrittura prima e soprattutto del teatro, poi. Infatti, osserva Vanni nel suo testo citando De Kerckhove, “il teatro, invenzione greca di poco successiva a quella dell’alfabeto, è il modello più evidente dell’effetto della scrittura che ha sostituito il pensiero all’ascolto. Il teatro ci ha insegnato a vedere invece di udire gli insiemi simbolici, ci ha educato al punto di vista… Lo spettatore del teatro, pertanto, ha imparato a vedere in qualità di osservatore esterno le esperienze dei personaggi rappresentati e ad adottare mentalmente il punto di vista di tali personaggi”. Probabilmente però, sostiene Vanni, è solo a partire dalla fine del Seicento che l’idea di poter costruire attraverso le capacità proprie della mente e della fantasia umane una realtà artificiale dotata di una tale forza da potersi contrapporre alla “vera realtà” è diventata realmente importante nelle società occidentali.

Condivido a pieno questa idea, ben espressa anche nel Manifesto dello Humanistic Management: “è l’approccio dicotomico ad essere centrale nella costruzione e nel consolidamento del concetto di modernità. Per l’esperienza organizzativa le dicotomie più importanti sono quelle tra pianificazione strategica e azione, tra razionalità ed emozione, tra realtà e possibilità. Ma il moderno è, più in generale, il tempo della separazione, diretta conseguenza delle divisioni innestate dalla scienza nel ‘500 e che riconosce nella meditazione cartesiana il riferimento non solo simbolico. Su questa base, tutto viene sottoposto al vaglio di razionalità autoreferenti che non sono per definizione contenute nell’ordine ereditato dalla storia. Il mondo moderno deve essere ricostruito razionalmente: dunque, le gerarchie precedenti vanno messe alla prova, decostruite, costrette a giustificarsi. Tuttavia, la modernità non è il regno della fluidità perché propone proprie rigidità e propri criteri di ordinamento: oltre la separazione delle sfere, la costruzione di ordinamenti sociali razionali (e dunque rigidi) in ciascuna di esse, la delega ad automatismi, la riduzione della complessità che in precedenza alimentava il mondo della vita.

Paradossalmente, però, la modernità è segnata dal progressivo emergere di una crisi nella certezza della dicotomia fondamentale: quella fra “realtà” e immaginazione. Sotto questo profilo, potremmo dire che il meccanismo schiacciasassi della modernità, macchina per la produttività che deresponsabilizza gli attori e depotenzia la politica, nasce già con delle crepe, invisibili alla superficie, che minano irreparabilmente le fondamenta di quello Scientific Management che di essa è una delle espressioni estreme”.

In particolare, Vanni sottolinea l’importanza fondamentale della nascita del romanzo moderno e del ruolo svolto dal teatro elisabettiano: “Il ruolo giocato dal teatro è stato fondamentale. Infatti in Inghilterra, prima del Cinquecento, il mondo della rappresentazione teatrale e quello della realtà tendevano a confondersi. Ciò spiega perché i ruoli degli attori venissero attribuiti a delle persone che nella realtà facevano lo stesso mestiere o qualcosa di simile. Ma progressivamente il mondo teatrale si è reso autonomo. Anzi, ha cominciato ad essere percepito come tanto più vero quanto più si rendeva indipendente dalla realtà che rappresentava, cioè quanto più si trasformava in finzione”. Non a caso, è stato proprio Shakespeare il riferimento su cui si è svolta tutta l’esperienza sviluppata intorno alla rivista Hamlet, sintetizzata poi nel volume L’Impresa shakesperiana (un progetto a base di conversazioni e immagini, in questo caso realizzate da Milo Manara).

Analogamente nella Seconda Variazione del Manifesto dello Humanistic Management ricordo che il dubbio circa la struttura e la stessa consistenza ontologica del reale è al centro delle rappresentazioni teatrali che Shakespeare crea in Inghilterra sul finire del sedicesimo secolo e nei primissimi anni del diciassettesimo; caratterizza in Spagna la nascita del romanzo con il Don Chisciotte, apparso pochi mesi prima del Re Lear, nel 1605; induce Galileo a leggere il linguaggio matematico in cui è scritto il “grandissimo libro” della natura, confutando, nel Dialogo sui massimi sistemi, che è del 1632, la concezione aristotelica del mondo sia pure, cautamente, come “pura ipotesi”, mentre il poeta Calderon della Barca proclama, senza mezzi termini, che “la vita è sogno” nel 1635; provoca la fondazione del nuovo metodo filosofico del francese Cartesio, che pubblica il proprio Discorso nel 1637.

Si capisce dunque come mai questo periodo vede la straordinaria fortuna di concezioni politiche basate sul confronto con il “non luogo” introdotto da Tommaso Moro sul modello della Repubblica platonica un secolo prima, con intuizione anticipatrice, ma che solo adesso è visitato da molti illustri viaggiatori: basti citare la Città del Sole di Campanella, del 1623 o la Nuova Atlandide di Bacone, pubblicata postuma nel 1627. Per inciso, anche i due protagonisti Jay e Daisy accennano a tutto questo in uno scambio di battute che appare in uno degli Episodi della Prima Stagione di Ariminum Circus (Chi È Quella Ragazza?).

In questo quadro, qual è la vostra utopia per il libro perfetto del prossimo futuro? Hanno ragione Luca Formenton e Francesco Morace a sostenere (vedi la Prima Conversazione) che non ci sono ulteriori possibili miglioramenti? O invece, come ha sostenuto Aaron Buttarelli nella Seconda Conversazione e diversi partecipanti alla Terza, il libro sta divenendo sempre più “cognitivizzato”, integrato se non sostituito da supporti multimediali dei più diversi generi? E quali possibilità ha di realizzarla il sistema editoriale italiano, che pare incapace di capire e quindi gestire l’innovazione che viene dal rapporto fra scrittura e immagine, scaturito dalla conflagrazione in atto fra diversi sistemi massmediali?

Alice Di Stefano

Alice Di Stefano

Per quel che riguarda il libro, da anni ho in mente un modello che prende le mosse dall’ebook, ebook che si sta finalmente diffondendo nell’uso quotidiano ma che oltre una certa soglia non riesce ad andare forse per motivi di scarso appealing, soprattutto grafico. Tentativi di rendere gli ebook più appetibili nel tempo ci sono stati ma il vero ebook interattivo (a parte quelli che finora sono stati dei goffi tentativi molto macchinosi e ben poco attraenti dal punto di vista visivo e anche immaginativo) ancora non è stato realizzato. L’ideazione e la creazione di un tale modello, e quindi il suo successo sul mercato, molto avrà a che fare secondo me con il supporto fisico su cui verrà realizzato: fin quando l’ebook sarà un semplice file e non ci sarà la possibilità di vendere anche fisicamente l’oggetto (proprio a dare la sensazione di un manufatto, di qualcosa di tangibile e unico) quello che diventerà il libro del futuro non potrà avere, paradossalmente, una grande circolazione.

Sotto questo aspetto, mi ha colpito l’osservazione di Francesco Morace nella Prima Conversazione a proposito della lentezza come valore e la capacità di libri e librai di creare comunità. Strano e anche bellissimo questo fenomeno di ritorno del libro come mezzo di socialità: circoli di lettura, librerie, biblioteche, proprio nell’era digitale, promuovono la lettura come veicolo di socializzazione dal vivo e riflessione su temi universali o d’attualità. Le presentazioni di libri nelle biblioteche sono esperienza tra le più stimolanti per gli scrittori proprio per il dialogo e lo scambio che si crea tra l’autore di un libro e le persone che lo hanno davvero letto, spesso con molta attenzione. Anche nelle scuole, si crea la stessa magia quando gli insegnanti sono in grado di trasmettere il senso della lettura oltre il singolo romanzo o la singola storia. La discussione allora prende una piega diversa e il libro è solo il punto di partenza per l’esplorazione di mondi comunicativi e la scoperta magari di altri libri e altri tipi di narrazioni.

L’invenzione di nuove grafiche, di nuovi supporti, la velocità con cui verranno realizzati questi nuovi oggetti faranno la differenza, ma io  continuo a immaginare i libri del futuro come dei piccoli Ipad molto economici da collezionare, scambiare e regalare proprio come adesso si fa con i libri. Vedo una specie di ebook con mille rivoli testuali e mille apparati, suggestioni video ma anche musicali, documenti fotografici riguardanti il testo e il suo significato ma anche argomenti collaterali. Il tutto senza mai andare in Internet o la possibilità di collegarsi in rete, che distrarrebbe e renderebbe l’oggetto simile a mille altri oggetti esistenti oggi. Una specie di passo indietro insomma per ritrovare la concentrazione persa senza togliere nulla però alla proliferazione di stimoli data dalla compenetrazione dei vari generi e delle varie tecniche espressive sviluppatesi nel tempo.

Il nuovo libro così sarebbe affidato alla creatività di editori, editor e grafici che insieme agli autori contribuirebbero alla creazione di questo nuovo oggetto ognuno con un proprio ruolo di invenzione, ricerca e selezione di mondi. Il nuovo libro sarebbe così un luogo chiuso, un po’ come quelli che una volta erano i cd interattivi ma con una potenza mille volte superiore e la possibilità di viaggiare in 3D o di visualizzare, appunto, mondi paralleli ma sempre attinenti al contenuto originale.

Sempre mio padre, quando lavorava con i grandi calcolatori, ricordo che a volte doveva svegliarsi di notte e partire d’urgenza per andare a riparare qualche macchina che si era bloccata e che per ogni ora sull’orologio faceva perdere milioni di lire alla società. I calcolatori allora erano raffreddati ad acqua, a volte con dei tubicini in cui passava il liquido, e capire dove fosse il danno non era mai cosa semplice. Era importante riparare quelle macchine nel minor tempo possibile eppure la memoria di quei calcolatori spesso era pari a quello che oggi potrebbe essere l’equivalente di una foto ad alta definizione scattata con il cellulare.

Supporti, grafica e velocità: qui vedo il futuro. Dal personal computer al’iphone il passo è stato relativamente breve (in termini di tempo, intendo) e chissà che nei prossimi anni non si possa arrivare più lontano. L’uomo però sarà sempre al centro dei meccanismi che regolano le macchine e i loro algoritmi: se le informazioni che ci scambiamo sulla rete non sono poi così volatili, data l’archiviazione e la conservazione di miliardi di file per i big data (o semplicemente per motivi commerciali), il motivo anche qui è sempre da ricondurre ai meccanismi della mente umana che tende naturalmente a conservare, a catalogare e a rielaborare come ha sempre fatto per secoli. Soglie è il titolo di un celebre saggio dello strutturalista e critico della letteratura Gérard Genette, affascinante excursus su tutti gli apparati che accompagnano un testo, su tutte le possibili combinazioni e le possibilità finora a disposizione. L’evoluzione dello stesso concetto potrebbe avvenire usando video, immagini e tutta la creatività di cui l’uomo è capace. Forse è da lì che si potrà ripartire per arrivare a elaborare qualcosa di completamente diverso non tanto nella sostanza quanto nella forma. Stupire e meravigliarsi: altre due caratteristiche dell’uomo su cui far leva in futuro per potersi di nuovo sorprendere e godere di fronte alle novità.

Detto questo, vorrei spezzare una lancia a favore dell’editoria italiana in realtà si è arricchita nel vero senso della parola con la pubblicazione di testi (anche molto surreali) di youtuber o blogger che al loro interno avevano spesso foto e immagini tratte magari dai loro account social e dirette in prima battuta ai loro fan. La realizzazione di questi libri (o libroidi) a volte è stata (volutamente?) molto rudimentale, quasi dilettantesca, proprio a imitare lo stile di quegli stessi account o la moda del momento.

Ad un livello più alto, l’enorme successo di Zerocalcare è la testimonianza di un’attenzione speciale verso forme nuove di editoria e Formenton non a caso citava  Maus di Art Spiegelman, cui aggiungerei Persepolis di Marjane Satrapi o il caso di Gipi, tutti autori impegnati e accomunati dalla forma della grafic novel, che costituisce un esempio colto di narrativa, portatore di un linguaggio sperimentale nato dall’ibridazione di fumetto e libro.

Per converso, l’accenno all’Università di Fausto Colombo che chiude la Terza Conversazione è molto significativo. L’Università ha un ruolo fondamentale e dovrebbe implementare e far tesoro di tutte le analisi elaborate fin qui, degli spunti che pure in maniera ondivaga e disordinata sono emersi da questa discussione allargata, che, almeno per me, si è rivelata alla fine massimamente stimolante. Da troppo tempo l’università sembra aver abdicato da quello che è sempre stato il suo ruolo, quello cioè di saper fare una sintesi, il più possibile a autorevole, di tutte le informazioni e di tutte le suggestioni e gli stimoli derivanti dal mondo esterno. In ogni caso, spero che i tasselli del discorso che stiamo portando avanti in queste nostre Conversazioni, con contributi che si intrecciano liberamente (talvolta anche in maniera azzardata, come ogni volta che si parla di futuro) e voci che si confrontano mescolando il loro sapere in campi così diversi, possano aiutare a creare un quadro coerente o perlomeno interessante per tutte le generazioni a venire.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Raccolgo il tuo riferimento al testo di Genette, perché la conclusione di Ariminum Circus, immaginata come nota o post scriptum a cura dell’editore, traguarda proprio a un libro futuro che modifica e stravolge le soglie dal lui indicate, giocando anche con il “Quarantadue”, che ricordavo prima, ovvero la risposta del super-computer immaginato in Guida Galattica per Autostoppisti come risposta definitiva a “la Vita, l’Universo e tutto quanto”. Ve la leggo: ” Sul retro del manoscritto originale di Ariminum Circus, Gérard Genette redige, con una stilografica dall’inchiostro verde malachite, le seguenti frasi: “Ariminum Circus non rispetta in alcun modo le ventisette regole di composizione del testo (poi ridotte a dieci) che pure elenca programmaticamente nell’Avvertenza/Test iniziale. Ignora anche le distinzioni canoniche all’interno del paratesto, ovvero l’insieme di ciò che permette al testo di diventare libro e di proporsi come tale ai suoi Lettori, e più in generale al pubblico: gli elementi (soglie) che comprendono, fra gli altri, titolo, grafica, frontespizio, retrofrontespizio, sommario, indici, note, fotografie, didascalie, bibliografia, colophon, link e metadati. Né sembra esprimere la minima consapevolezza della necessità di distinguere fra epitesto o ipertesto pubblico – pubblicità, recensioni e interventi critici, interviste, convegni, post, profili social dedicati, ecc. – ed epitesto (avantesto, postesto) privato, vuoi sotto forma di parafrasi, vuoi semplicemente sotto forma di resoconto, mentalizzazione, attività discorsiva od onirica, chiacchiera, maldicenza o deliri. Per quanto sia indiscutibile che le soglie sono lì proprio per essere superate, veramente disdicevole pare soprattutto la mancanza di una precisa tassonomia per l’organizzazione delle note a margine (o Marginalia, volendo adottare l’elegante definizione di Poe), che, pure, a mio avviso non per un caso, assommano esattamente a quarantadue”.

Martino Ferro

Martino Ferro

Il gioco finale di Ariminum Circus con le soglie di Genette rimanda, mi sembra, al tema più generale della perdita di autorità del Libro in epoca moderna. Seguendo il suggerimento della domanda di Marco che fa risalire l’inizio di questa perdita all’epoca di Cartesio, mi accontento di riconoscere che questa perdita è innegabile e inarginabile. Ne riconosco una delle ragioni fondamentali rifacendomi a Foucault: da quando si è abbandonata la nozione di “accesso alla verità” (accesso per il quale si rendeva necessario un percorso di trasformazione interiore e di preparazione dell’individuo/soggetto della conoscenza) a favore della nozione di “conoscenza dell’oggetto” (di un campo di oggetti, com’è nella scienza cartesiana, che non prevede alcun esercizio di trasformazione spirituale nell’interpretazione del reale), da allora ha perduto di valore quel luogo di raccolta e trasmissione della Verità che era il Libro, e con il Libro hanno perso di autorità e verità, inevitabilmente,  anche i libri (ma non per tutti: non per me, ad esempio, né per tanti altri lettori).

Detto questo, resta la questione di quale sia il libro perfetto, l’utopia di libro del futuro. Io posso solo dichiarare una speranza: che nel futuro esista ancora quell’utopia di libro perfetto che ha stimolato e vivificato la letteratura del nostro passato più o meno recente, da Joyce a Melville fino a Wallace e Bolaño. Per quel che mi riguarda, trovo molto affascinanti le possibilità che si aprono alla Narrazione nel contesto di questa nuova ibridazione delle forme. Penso che molta sperimentazione sia possibile e auspicabile: io stesso ho intrapreso un percorso di ricerca lavorando a una versione “multimediale” (per usare un termine già antico) del mio romanzo La 21a Donna (Einaudi, 2010). Questo romanzo già conteneva in sé una grande varietà formale, composto com’era di capitoli di narrazione classica, illustrazioni, capitoli puramente dialogici, spezzoni di copioni teatrali, scambi di sms etc. – da qualche anno sto completando questo percorso, trasformando alcuni capitoli in cortometraggi cinematografici, contributi audio vicini alla forma del radiodramma, capitoli costituiti da raccolte di immagini etc. – in vista di una versione dell’opera fruibile unicamente in forma digitale.

La questione dell’ibridazione nella Narrativa di queste forme differenti è dunque per me fortemente attuale. Rispetto alla mia esperienza diretta, posso indicare alcuni punti che ritengo fondamentali per lo sviluppo sperimentale di questa ibridazione.

  1. Partire dall’esperienza reale della lettura ibrida che tutti noi sperimentiamo giornalmente sui quotidiani online, nelle nostre ricerche su Google o nell’interazione libro-web, allorché spesso siamo portati a saltare dalla pagina al motore di ricerca per approfondire o visualizzare contenuti e riferimenti.
  2. Evitare il tranello della ricerca della “libertà del lettore”, presupponendo che il lettore goda ad essere lasciato libero di costruire il proprio percorso all’interno di una narrazione, scegliendo per esempio da sé l’ordine dei capitoli o il ritmo e le modalità di fruizione. Il lettore, come tutti i lettori di ogni tempo, gode ad essere accompagnato per mano attraverso una serie di forme che in parte riconosce e in cui si ritrova, in parte lo sorprendono e lo disorientano. L’abilità e la forza del Narratore stanno appunto nel “costringere” la libertà del lettore, senza soffocarla (non diversamente da quanto avviene nella narrativa tradizionale, nel cinema o nel teatro) all’interno di forme che ancora devono essere trovate e sperimentate.
  3. Una questione fondamentale riguardo all’apparente lentezza di questa sperimentazione sulla forma ibrida del romanzo (sulla distanza tra questa sperimentazione, molto esigua per adesso, e l’esperienza di “lettura ibrida” dei lettori, che è appunto invece ormai consolidata, vasta e universale) risiede a mio avviso per lo più in una ragione produttiva: nessuno ha ancora ben presente come “vendere” un oggetto narrativo simile, che prevede molti rischi, maggiori spese da un punto di vista produttivo (sul versante della produzione audio-video) ma non si concretizza in un oggetto materiale vendibile (come il libro) né in un’opera da diffondere in una determinata piattaforma (come un film su Netflix). In pratica ha più spese di un normale libro e non ha (ancora) mercato. Non vedo per adesso altra soluzione che non arrivi dall’autoproduzione, dall’opera di mecenatismo o comunque di produzione a fini sperimentali non orientati al profitto immediato.
  4. Un’altra questione a mio avviso fondamentale riguarda il diritto d’autore. Finché non sarà superato il modello di proprietà intellettuale otto-novecentesco, basato sugli interessi dell’industria culturale, più che su quelli degli autori e del pubblico, non sarà possibile un pieno e completo sviluppo dell’interazione e ibridazione delle forme. Solo accettando il principio che né le idee, né le opere possono appartenere a un singolo individuo o a una singola entità, a qualcuno insomma che ne ha l’esclusivo diritto di sfruttamento artistico ed economico, ma che una volta rese pubbliche appartengono al mondo e alla cultura, e che il loro autore ne rimane per sempre il padre, sì, ma mai il padrone, solo a quel punto sarà possibile un nuovo e vero sviluppo di quest’arte narrativa nuova, ibrida e multiforme.
Alice Di Stefano

Alice Di Stefano

Nella Prima Conversazione, l’accenno di Francesco Morace  al vinile per parlare di tangibilità e unicità del singolo libro o, una volta, del singolo disco, si ricollega al mio discorso sull’ebook futuribile in una direzione contraria a quella avveniristica che in genere si va immaginando e già descritto come un passo indietro rispetto ai tentativi fatti finora.

Mi permette inoltre di approfondire l’esempio della musica, fino a qui il grande assente, mi sembra, di queste conversazioni incrociate e “universo” in generale poco toccato e poco dibattuto rispetto alla sua enorme pervasività. Tutti noi non potremmo vivere senza la musica, vero e proprio contenitore di sensazioni, colori, umori. Eppure troppo poco si parla di musica e delle sue incredibili potenzialità a livello tecnologico e di mercato. Il mercato musicale, con l’evoluzione rapidissima dei supporti tecnici su cui sono registrate le tracce audio, è quello che ha subito le maggiori trasformazioni negli ultimi decenni tanto da aver cambiato il modello di business di molti dei suoi attori. Le case discografiche non hanno più la valenza che avevano in passato e non riescono più a raggiungere i fatturati di un tempo senza passare attraverso canali altri come i concerti dal vivo o Youtube (un social di importanza fondamentale per i musicisti). Il sistema dello streaming ha rivoluzionato il mondo della musica (prima di quello del cinema) anche se, paradossalmente, c’è una specie di gap nel sistema della vendita e degli ascolti dei brani musicali. Spotify forse non funziona come dovrebbe, ha ancora molte potenzialità non sviluppate e non permette una buona condivisione sui social. Anche i rivenditori di musica digitale non hanno la stessa gittata e la stessa attrattiva rispetto ai negozi di una volta (nonostante la loro intuitività nell’uso e la distribuzione universale) e soprattutto interagiscono in maniera ancora troppo difficoltosa con i social network, ora il miglior veicolo di diffusione per qualsiasi messaggio online. La musica classica, in particolare, è sottorappresentata e poco coltivata quando il bacino dei suoi utenti è attivo più che mai e sempre più vasto. L’internazionalità della musica, che non ha bisogno di traduzioni e quindi può viaggiare a livello globale con una velocità e una sincronicità mai sperimentata prima è paradossalmente poco incoraggiata, almeno a livello mainstream.

Peresson e Maugeri nella Terza Conversazione parlano di “fiumi di copie gratuite” e di pirateria, un fenomeno legato in prima battuta alla musica, che ha portato all’affermarsi del sistema di streaming (che per gli ebook già da anni porta avanti Amazon con Kindle unlimited e per gli audiolibri Storytel o Audible).

Vanni Codeluppi

Vanni Codeluppi

È possibile formulare delle ipotesi su quali forme assumerà il libro del futuro? Trovo coraggiose le proposte di Alice e Martino, ma al momento attuale, è difficoltoso riuscire a fare delle previsioni. Forse il libro potrà essere ancora fruito mediante degli schermi digitali, magari estremamente leggeri, piegabili e riducibili a dimensioni minime. Oppure il classico formato librario sarà abbandonato e il suo posto verrà preso da un ologramma da leggere proiettato sui muri degli edifici o nell’ambiente di vita delle persone. O, ancora, forse il libro potrà essere un file sintetico iniettato direttamente nelle vene del corpo degli esseri umani. Non sappiamo ancora quello che ci porterà la rapidissima evoluzione in corso per le tecnologie digitali, ma è certo comunque che dei contenuti che vengono offerti dal libro non potremo fare a meno, almeno finché continueremo a essere degli “homo sapiens” che hanno bisogno di apprendere delle informazioni e delle conoscenze.

Ed è certo anche che la natura del libro sarà sempre più influenzata dal crescente imporsi nella società di modelli comunicativi e culturali di tipo multischermico e ipermediale. Vale a dire che anche il libro si farà probabilmente articolato e molteplice, arricchendo sempre più i suoi contenuti e mescolando in continuazione linguaggi diversi. Intreccerà cioè parole, immagini e suoni, anche connettendosi direttamente a quell’immenso serbatoio di materiali espressivi che viene messo a disposizione da parte del Web. Sotto questo aspetto, le sperimentazioni di Marco e Martino vanno certamente nella giusta direzione. Peccato che agenti letterari e editori facciano fatica a seguirli.

È probabile che il nostro frammentato e arretrato sistema editoriale possa dimostrare nei prossimi anni di non essere all’altezza di questo impegnativo processo di cambiamento. Anche perché l’editoria italiana sembra continuare a pensare che per gli esseri umani il libro, in fondo, è solamente costituito dal formato cartaceo. Il quale certamente presenta dei notevoli vantaggi per il lettore sul piano della fruizione e, proprio per questo motivo, potrà pertanto continuare ad occupare uno spazio sociale estremamente significativo. Perché, come sosteneva alcuni anni fa Umberto Eco, i libri cartacei “son fatti per essere presi in mano, anche a letto, anche in barca, anche là dove non ci sono spine elettriche, anche dove e quando qualsiasi batteria si è scaricata, possono essere sottolineati, sopportano orecchie e segnalibri, possono essere lasciati cadere per terra o abbandonati aperti sul petto o sulle ginocchia quando ci prende il sonno, stanno in tasca, si sciupano, assumono una fisionomia individuale a seconda dell’intensità e regolarità delle nostre letture”. Si può tuttavia osservare che tutto questo vale anche per un buon Kindle, che in compenso non si sciupa. È indubbio quindi che, a fianco di tale modello di libro, si faranno sempre più largo nei mercati e nella società delle forme librarie innovative che le aziende editoriali italiane, se vorranno sopravvivere, dovranno essere in grado di comprendere e praticare.

Mauro Carbone

Mauro Carbone

Se, come sostenevo in precedenza, il verbo visualizzare non parla in particolare della nostra epoca, poiché attraverso di esso ciascuna ha cercato una propria espressione, ovviamente secondo modalità culturali e tecnologiche peculiari, perché risalire solo sino all’invenzione del teatro, come propongono Vanni e Marco? Altri due recenti screen studies italiani, i libri Lo schermo empatico di Vittorio Gallese e Michele Guerra (2015) e il mio Filosofia-schermi (2016), entrambi editi da Raffaello Cortina, includono tra i propri principali riferimenti la Grotta Chauvet, che racchiude stupefacenti immagini rupestri scoperte in Francia solo nel 1994 ma risalenti addirittura a circa 31000 anni fa, dunque fra le più antiche d’Europa.

Perché quel riferimento è imprescindibile per i temi di questa nostra conversazione? Così cerco di spiegarlo nel mio libro: “La scelta di lavorare non tanto nella sala illuminata dal sole quanto nelle più buie della grotta, il gioco di luci prodotto dalle torce necessarie per ammirare tali ambienti proiettandovi così movimenti di ombre, la scorticatura di alcune superfici realizzata in modo da sbiancarle prima d’intervenirvi, l’elaborazione di figure cinetiche, la tridimensionalità spesso impressa loro sia sfruttando la conformazione delle pareti sia operando su queste ultime con interventi pittorici o con incisioni, l’accompagnamento sonoro ottenuto percuotendo le rocce e sfruttando gli effetti di eco: tutto ciò concorre a suggerire, più in specifico, che in quella grotta ebbe luogo un sofisticato sforzo collettivo per contemplare immagini in movimento, tale da indurre [il regista tedesco] Werner Herzog a parlare ‘quasi di una forma di protocinema’[1] e [lo specialista francese d’arte preistorica] Marc Azéma di ‘una vera e propria ‘preistoria’ del cinema’”[2] (pp. 99-100).

Certo, entrambe queste ultime espressioni possono venire legittimamente criticate in quanto anacronistiche, poiché attribuiscono indebitamente a forme espressive totalmente autonome il carattere d’anticipazione di altre forme che si sarebbero sviluppate solo molto più tardi. E certo la mia formulazione, a sua volta, nel riassumere le pratiche espressive probabilmente celebrate nella grotta tende anch’essa a privilegiare gli elementi di visualizzazione. Ma ciò può servire a farci riflettere, in quanto proprio un’analoga attenzione privilegiata per le immagini, considerate la componente essenziale della rivoluzione digitale, rischia d’impedire anche all’editoria di cogliere appieno e a tempo debito le ben più ampie opportunità che quella rivoluzione le può offrire.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

In Ariminum Circus la questione sollevata da Mauro è al centro delle riflessioni della statua di sabbia ispirata a Federico Fellini che si erge al centro del Presepe del Cinema: “oltre a quella del pagliaccio, Fellini ama tutte le figure che, «anche per Starobinski e Tim Burton» aveva predicato il Maestro «fanno parte di questo archetipo: i saltimbanchi, gli acrobati, gli equilibristi – anche quelli che vivono camminando sul filo della diversità: i clochard, gli emarginati, i poeti, i dropout della Fortezza Bastiani. In una parola, il circo»” (ne La Visione dell’Uomo Sabbia).

È facile capire il motivo profondo dell’interesse viscerale verso la culla di tutte le forme di intrattenimento popolare: già le antiche tribù avevano lo sciamano che mimava, ballava e saltava in uno spazio aperto, ai limiti del quale gli altri sedevano in cerchio. Il circo era nato allora – “uno Zampanò è già esistito”, aveva scritto l’apprendista del Barman nella tesi con cui aveva conseguito la Laurea in Teologia Teatrale – “in rappresentazioni sacre che hanno provocato la nascita di altre forme drammaturgiche, dove il sacro è andato edulcorandosi nel profano, ma riemergendo a tratti come un fiume carsico, di cui il Mistero, l’Assoluto, la Verità e la Bellezza sono le sorgenti perpetue: compreso il cinema primitivo, il cosiddetto cinéma de la foire, che aveva trovato ospitalità nelle piazze e nelle fiere. Lo ha mostrato René Clair ne Il silenzio è d’oro e poi Woody Allen ne La ruota delle meraviglie: non era sotto i tendoni dei padiglioni che si proiettavano i primi film, interpretati da guitti e da clown?”.

Daniele Bigi

Daniele Bigi

Lato mio, posso solo esprimere un parere da tecnico rispetto al fatto che la nascita del cinema verso la fine dell’Ottocento ha dato il via a un nuovo modo di comunicare. Ciò che prima poteva essere espresso solo attraverso la parola, la musica e la scrittura cambia forma e diventa immagine in movimento. Questa invenzione è figlia di molte altre precedenti: i primi esperimenti con il nitrato d’argento, precursore dell’avvento della fotografia; la celluloide flessibile, senza la quale non sarebbe stato possibile condensare centinaia di migliaia di fotogrammi in un volume limitato; la lampada elettrica di Edison, che restituisce luce agli istanti impressi sulla pellicola, fino ad arrivare al cinematografo dei famosi fratelli Lumière, che divulgano il cinema a un pubblico più vasto. Le tecnologie più diverse per tipologia e scopo si “fondono” per creare una vera e propria rivoluzione culturale.

Alla luce di tali conquiste passate, è inevitabile ora soffermarsi sulle innovazioni più recenti e su come queste aprano a più ampi scenari: in che modo il libro diventerà uno schermo in un futuro relativamente vicino? Una sceneggiatura come potrà tradursi in film con un solo clic?

Quotidianamente developer e ricercatori utilizzano “Machine Learning” per sviluppare software in grado di compiere operazioni fino a pochi anni fa inimmaginabili. L’idea che un software possa migliorare progressivamente grazie a un algoritmo e a una banca dati è rivoluzionaria.

Prima Mauro citava le frontiere avanguardistiche di feelreal, ma software che fanno uso di ML sono già diffusissimi. Google Photo, ad esempio, ricerca automaticamente oggetti, animali, persone all’interno di qualsiasi immagine, senza bisogno che questa sia classificata dall’utente in alcun modo. Tale software, frutto di ricerche svolte dal team Google Brain, di fatto riconosce pattern con la stessa precisione di un essere umano.

Software basati su GAN (Generative Adversarial Network), una specifica tipologia di ML, creano un set di dati nuovi con caratteristiche simili ai dati di partenza. `Si possono ad esempio ottenere immagini fotorealistiche di volti umani fittizi. Guardate ad esempio Thispersondoesnotexist.

L’azienda Modulate.ai commercializza un software che modula alla perfezione il timbro della voce. Poco tempo fa sono riusciti a ingannare milioni di persone pubblicando un video di Obama in cui era stato completamente stravolto il suo discorso. La voce creata digitalmente risultava indistinguibile da quella originale.

MuseNet, lanciato dalla OpenAI, produce in pochi istanti musica inedita di generi diversi.

Il Disney Research lab, con cui noi di ILM abbiamo collaborato durante la lavorazione del film Disney Aladdin, ricostruendo in 3D il viso di Will Smith, ha recentemente presentato un algoritmo che consente di cambiare in automatico il volto di un essere umano in qualsiasi video.

Quanto tempo occorrerà prima che la convergenza di simili invenzioni, come è successo in passato per il cinematografo, porti alla realizzazione di software in grado di “leggere” un libro e di creare un film con un clic? Quando questo avverrà, molto probabilmente le aziende possederanno algoritmi che determinano lo stile registico, l’aspetto degli attori e il loro modo di recitare, e anche i libri emergeranno da un software basato su ML. Quando tutto ciò diventerà realtà, forse all’uomo non resterà altro che essere spettatore.

[1]        W. Herzog, Cave of Forgotten Dreams, Canada, USA, Francia, Germania, Gran Bretagna, 2010.

[2]       M. Azéma, La préhistoire du cinéma, Errance, Arles 2011, p. 21.

 

Immagine di Marcello Minghetti.