Se il libro è un divenire. Una conversazione sul futuro del libro con Paolo Del Brocco, Luca Formenton, Cristina Marconi, Francesco Morace e Carlo Rodomonti.

“Nel regno digitale immateriale”, scrive Kevin Kelly, “dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche, evolvendo da cartaceo a digitale, confrontandosi con altri sistemi di comunicazione e apprendimento”. Se il libro diventa un librare: questo il titolo/quesito/ipotesi che ci guida in un viaggio su cosa è stato, cos’è oggi e cosa sarà domani il libro, attraverso dieci conversazioni metadisciplinari con scrittori, editori, agenti, esperti. Come guida per orientarci in questo cammino abbiamo scelto la rilettura di tre testi visionari: uno del passato, Alice nel Paese delle meraviglie, riprendendo alcune riflessioni sviluppate nell’ambito del progetto Alice Postmoderna; uno del presente, L’inevitabile, scritto dal cofondatore di Wired Kevin Kelly; uno del futuro, il romanzo online in corso di scrittura Ariminum Circus, di Federico D. Fellini, disponibile in versione multimediale anche su Wattpad.

Nella conversazione odierna, che inaugura la serie, ci confrontiamo con Paolo Del Brocco, Amministratore Delegato Rai Cinema, Luca Formenton, Presidente Fondazione Mondadori, Cristina Marconi, autrice del romanzo pluripremiato Città irrealeFrancesco Morace, Presidente di Future Concept Lab e ideatore del Festival della CrescitaCarlo Rodomonti, Responsabile Marketing Strategico e Digital Rai Cinema.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Ne L’Inevitabile, Kelly parte dal presupposto che la tecnologia è l’accelerante dell’umanità. È grazie a essa se ogni cosa che facciamo è sempre nella dimensione del divenire: ogni cosa sta diventando qualcos’altro, mentre si rimescola passando da «può» a «è». Tutto è flusso, niente è finito, niente è compiuto; questo cambiamento perpetuo è l’asse centrale del mondo moderno. Un concetto che da Eraclito a Bauman ha accompagnato lo sviluppo della cultura occidentale.

Kelly tuttavia pone l’accento sul fatto che “flusso costante” significa che  i processi – i motori del flusso – sono più importanti dei prodotti. Ci stiamo allontanando da un mondo di nomi fissi verso un mondo di verbi fluidi: nei prossimi trent’anni continueremo a prendere oggetti solidi (un’automobile, una scarpa) e a trasformarli in verbi astratti. I prodotti diventeranno servizi e processi: integrata con dosi elevate di tecnologia, un’automobile diventerà un servizio di trasporto, una sequenza di materiali costantemente aggiornata in grado di adattarsi all’uso del cliente, alla sua risposta, alla concorrenza, all’innovazione e all’usura. Che si tratti di un’automobile senza autista o di una che si può guidare, un simile servizio di trasporto garantisce flessibilità, personalizzazione, aggiornamenti, connessioni e nuovi benefici. Anche una scarpa non sarà più un prodotto finito, ma un processo infinito di reinvenzione delle estensioni dei nostri piedi, magari con coperture monouso, sandali che si trasformano mentre si cammina, suole che cambiano, oppure pavimenti che fungono da scarpe. “Scarpare” diventa un servizio e non un nome.

Nel regno digitale immateriale, dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche il libro diventa un “librare”, evolvendo da cartaceo a digitale, confrontandosi con altri sistemi di comunicazione e apprendimento. Occorre ripensare il ruolo degli scrittori, degli editori e dei lettori, se il libro vuole vincere il confronto con centinaia di format nuovi che nascono ogni giorno soprattutto grazie alla tecnologia, che disgrega quelli tradizionali (l’articolo di giornale, la sitcom tv di mezz’ora, la canzone di quattro minuti), ricombinandone gli elementi in modi che verranno a loro volta disgregati e ricombinati: una tempesta di tweet, un romanzo collaborativo scritto a più mani su Facebook, una sceneggiatura prodotta da un’intelligenza artificiale.

Questo quadro era stato in buona misura anticipato nel Manifesto dello Humanistic Management, fondato sulla grande tradizione dell’umanesimo europeo e aperto al contributo di ambiti che l’impresa ha spesso considerato a sé estranei, come la filosofia, la letteratura, il cinema, il teatro, ma anche di strumenti innovativi come il networking multimediale, la business television, l’edutainment. Si tracciava così il possibile percorso di un management che non teme di utilizzare tutte le risorse messe in campo dalle nuove ICT, ma per il quale la poesia, l’arte, la filosofia si traducono in catalizzatori capaci di favorire l’integrazione organizzativa, di sviluppare nuove modalità di gestione del personale, di innovare la cultura d’impresa. Un compito che può essere assolto grazie a un approccio incentrato sulla contaminazione, sulla diversità, sulla metadisciplinarità. Un umanesimo in cui si incontrano le intelligenze collaborative di Dioniso e Apollo, dell’artista e del manager, del tecnologo e del romanziere, tutti parte di una stessa molteplice unità.

Siete d’accordo? Vi ritrovate, e in che misura, in questa rappresentazione della contemporaneità?

Luca Formenton

Luca Formenton

Rispetto questo punto di vista (non a caso Il Saggiatore è l’editore del libro di Kelly), ma personalmente non lo condivido del tutto. Considerazioni di questo genere si fanno ormai da molti anni sul libro e sul mondo del libro, ma profezie apocalittiche o di mutamenti radicali ad oggi sono state sempre disattese. Consideriamo l’ebook (peraltro nella sua forma identico al libro cartaceo), che nelle previsioni avrebbe dovuto sbaragliare il libro di carta e oggi è ancora fermo, nonostante il lockdown della scorsa primavera, nel nostro Paese al 5% del mercato. E anche nei Paesi anglosassoni, dopo il boom iniziale, ha finito per soppiantare solo il mercato mass market (libri da un dollaro usa e getta). Posso affermare per esperienza che quando parliamo di letteratura, il libro cartaceo, un’esperienza di lettura unica, rimarrà un oggetto fondamentale, anche se probabilmente in un mercato più ristretto dell’attuale: ricordo ancora comunque che tra librerie e online il nostro vecchio libro rappresenta oltre il 90% del mercato. Il digitale è stato fondamentale nel ricreare e velocizzare prima i processi produttivi (Indesign per fare un esempio) e poi quelli distributivi (vendite online del cartaceo). Ripeto dunque che il libro di carta, pur sicuramente un mercato di nicchia, è ancora oggi inimitabile, un oggetto perfetto.

Francesco Morace

Francesco Morace

Condivido: anche per quanto mi riguarda il libro è un oggetto perfetto e tale rimarrà. Le cose più simili che mi vengono in mente sono la bicicletta e l’LP. Oggetti compiuti, completi. Così li definiva Umberto Eco, e io sono d’accordo con lui. Forme vitali e complete, che contengono ciò che deve essere contenuto: né più né meno. Nulla da aggiungere. Il libro è già un’utopia realizzata. Ed è cartacea. Il libro non ha bisogno di un supporto digitale per librarsi: è già un librare. Prevede e stimola i voli pindarici dell’immaginazione: raccoglie e propone contenuti ispirazionali in strutture narrative che dalla poesia al romanzo non richiedono ulteriori fluidità digitali.  Dal Libro delle religioni monoteiste ai libri della nostra biblioteca personale, la parabola è già compiuta nella sua interezza.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Queste prime riflessioni di Luca Formenton e Francesco Morace aprono a questioni che saranno approfondite anche nelle prossime conversazioni di questa serie

Ad esempio, il fatto che l’offerta di ebook proposti da Amazon per Kindle sia di qualità mediamente bassa mi pare incontestabile. Che le potenzialità dell’ebook siano tutte da sviluppare sia dal punto di vista tecnologico che commerciale, anche.

Ma ne parleremo. Per il momento mi focalizzerei sull’ultimo punto sollevato: il posizionamento del libro cartaceo nel quadro dell'”inevitabile” diffusione del digitale. 

Cristina Marconi

Cristina Marconi

In realtà credo che questa marea inevitabile, come giustamente la definisce Kelly, renderà ancora più indispensabile, e quindi prezioso, quello che da sempre cerchiamo nella letteratura, ossia il punto di vista, risolto e eventualmente opinabile. Credo che il successo dell’autofiction in questo momento dimostri proprio il valore dello sguardo umano e personale su una realtà rispetto alla quale in molti si sentono disorientati. Ci potrà essere una diversa caducità del prodotto editoriale, forse, dovuta all’accelerare della comunicazione e soprattutto a una soglia d’attenzione in calo un po’ per tutti: i linguaggi si vanno semplificando, ma basta confrontare i successi editoriali di vent’anni fa con quelli di oggi per vedere quanto la lingua sia più piana, diciamo anche povera.

In un testo immenso come Alice, la capacità della storia, che nasce dove “i sogni dell’infanzia si intrecciano con il nastro mistico della memoria”, di accogliere in sé nuovi contenuti nasce dal respiro enorme che Carroll ha dato alle sue pagine: una storia universale si evolve attraverso l’interpretazione, non attraverso il continuo aggiornamento. Quindi credo che proprio nel flusso che Marco descrive (mettendolo in pratica nei suoi tanti progetti multicanale, che partendo dal libro cartaceo incrociano il testo scritto con diversi sistemi massmediali) e nella crescente importanza del processo, il valore del punto fermo, della sintesi, dell’occhio dell’artista sarà sempre più alto. E per questo credo che l’editoria debba fare sempre di più da bussola. Non è un arroccarsi davanti alla modernità, tutt’altro: un saggio come quello di Kelly, ad esempio, deve restare un processo aperto e mantenere una perfetta aderenza con la realtà per non invecchiare.

Ma per un romanzo è una cosa diversa. Il confronto con le fiction e altri format, io credo che lo si possa sostenere, se non vincere, mantenendo la ricchezza di generi e l’attenzione alla realtà. Il pensiero umano è inimitabile, così come lo sono macchine e algoritmi: non sottovalutiamoci. Chiunque stia attraversando una fase di sentimenti forti sa che l’algoritmo, quassù, non ci arriverà mai. Inoltre uno dei momenti più importanti per uno scrittore è quel senso di “libro finito” che ti fa mettere giù la penna. La testimonianza, quale che sia l’importanza che gli si attribuisce, nasce da una scelta che può esprimersi solo attraverso una chiusura. Non bisogna inseguire, bisogna esprimere. Da piccola lessi Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac, in cui il vecchio Frenhofer dice all’artista che il fiore della vita va catturato, non va imitato o inseguito pedissequamente. La lezione è altissima, ma il suo capolavoro, la Belle Noiseuse, è deludente, perché non ha saputo mettere la parola fine a dieci anni di lavoro e ha fatto uno scarabocchio.

Francesco Morace

Francesco Morace

Cristina ha ragione. Non bisogna confondere e sovrapporre i livelli interpretativi. L’errore di Kelly è di adottare schemi (e schermi) “sostitutivi”. Chiariamolo subito: nella dimensione oggi prevalente dell’esperienza digitale, sono nate e nasceranno molte forme di esperienza multiscreeners, occasioni innovative e sperimentali (guai se non fosse così), che però non sostituiranno il libro, ma piuttosto ne preciseranno il ruolo: così come il cinema non è stato sostituito dalla televisione, o come la televisione non è stata soppiantata dal web. Nel tuo Ariminum Circus lo spiega molto bene il Maestro, nel Quarto Episodio della Prima Stagione: “L’esperienza radiofonica è stata inglobata dalla cinematografia, la cinematografia dalla televisione e quest’ultima da YouTube; la pittura dalla fotografia ed entrambe da Instagram; il Cubismo, l’Astrattismo e le correnti successive del modernismo dalla generazione di segni tramite algoritmi. È così che ogni innovazione amplifica; rende obsoleto; recupera; capovolge qualcosa di preesistente”.

A loro volta, dopo alcuni decenni di conflitto anche sanguinoso, il popolo del Libro e quello dello Schermo si stanno rimescolando, come il sangue nelle vene quando assistiamo o partecipiamo alle grandi avventure dell’umano: il progressivo tasso di crescita nella lettura dei libri tra adolescenti e nativi digitali lo dimostra (torneremo su questo punto nella quinta conversazione di questa serie: il riferimento allo scontro in atto fra Popolo del Libro e dello Schermo lo trovate anticipato qui, ndr).  Esattamente come la clamorosa riscossa del vinile che ha ormai riconquistato un mercato importante, in continua crescita, al di là della nicchia di appassionati “nostalgici”, ma proprio presso quelle nuove generazioni che avrebbero dovuto sancirne la fine. Nulla avviene in modo lineare, e proverò a illustrarne le ragioni, seguendo le indicazioni dei paradigmi che abbiamo individuato con il Future Concept Lab, e su cui il futuro sembra orientarsi: tangibilità, sostanza, ritualità e iconicità.

Un primo assunto è facile da comprendere: sia il libro che il vinile interpretano il punto di incontro felice tra tangibilità dell’esperienza e sostanza concettuale. Toccare con mano le pagine di un libro, o sfiorare i solchi di un LP (i fatidici grooves), assaporare la loro densità di contenuto, sfogliandolo avanti e indietro (il libro) o posizionando la puntina nel solco, sul piatto che gira (il vinile): sono gesti e comportamenti che rendono l’esperienza della lettura cartacea o dell’ascolto di un disco – nel loro dipanarsi – in alcun modo ripetibile.

Anche la memorizzazione dei contenuti passa attraverso l’esperienza tattile, ad esempio della sottolineatura o della nota a margine, o  del culto della copertina. Non basta simularle in digitale, sono esperienze a cui non vogliamo rinunciare e chi non le ha mai provate le vuole scoprire, perché sono potenti. L’attività del pensiero, con un libro o un disco in mano, non è più una astrazione, ma permette di calarsi in una dimensione di ricercata ritualità. Leggere un libro rafforza l’indissolubile legame tra la dimensione sensoriale (e quindi delle emozioni) e quella del pensiero, senza soluzione di continuità: i valori, anche etici o morali, derivano direttamente dalle emozioni e ricadono sulle scelte compiute, in ogni nostro atto quotidiano. La lettura di un libro, la selezione in una biblioteca, o la scelta di un autore è sintonica al concetto di vita singolare, di personalizzazione, e corrisponde al tentativo di valutare la propria esistenza al di là della liquidità post-moderna che tanti danni ha fatto nella nostra esperienza quotidiana: le finestre del computer o l’ipertestualità digitale propongono altre esperienze, altri stimoli, altre connessioni, legittime e a volte eccitanti, ma né paragonabili né sostitutive.

La semplicità del libro, la sua unicità materiale, la sua definizione strutturale e tangibile, costituiscono invece la base per una crescita interiore, che ci conduce in una dimensione concreta, pratica e quotidiana, alla ricerca di esperienze che superino il caos e la complessità, raggiungendo la ricerca della sostanza, con il magico incontro tra il punto di vista di chi scrive e l’intenzione di chi legge. Sto leggendo questo libro e non un altro, sto assorbendo questa storia o questo pensiero, e non altro. Sto ascoltando questo LP come un’opera totale, non un suo singolo brano, magari scelto dall’algoritmo: lo spezzettamento, lo smembramento, la dissoluzione, in questo caso non sono previsti.  Anche per questo i tentativi di sostituire le decisioni narrative dell’Autore con i desideri e/o capricci del lettore (scegliere o inventare il finale di un libro, ad esempio), sono tutti clamorosamente falliti. Esercizi utili, che aprono altri orizzonti, ma che ci aiutano a comprendere quanto importanti siano le esperienze stratificate della lettura e dell’ascolto definiti e definitivi.

Il libro propone l’incontro virtuoso tra pensiero innovativo (una storia, o una teoria che ancora non conosco) ed esperienza tangibile del suo peso, senza peraltro negare l’evoluzione tecnologica della digitalizzazione che ha rivoluzionato la forma dello scrivere, del leggere, del riflettere. Il lettore è stimolato da nuove opportunità attraverso la proliferazione di nuovi contesti digitali in cui si scoprono benefici stimolanti: cultura pop, veloce, liquida e indeterminata, ma che in alcun modo può rimpiazzare il punto di vista e la parola degli autori, di cui abbiamo bisogno anche solo per confrontarci, discutere, stimolare il pensiero critico. Ecco il punto: il codice non sostituisce la legge, ma la rende necessaria nella sua evoluzione dinamica. Il Libro diventa libro, aperto all’interpretazione e alla revisione, anche attraverso una diversa temperatura digitale: ma la sostanza rimane la stessa, inconfutabile. Lo scontro tra neoluddisti e tecnoentusiasti si isterilisce e sembra spegnersi, per una generazione in grado di integrare il libro con lo schermo, la carta con i pixel, elaborando quella dimensione onlife di cui giustamente parla Luciano Floridi. Tenendosi il più possibile distanti dai fake: il libro non li prevede a differenza dello  pseudo-giornalismo online.

Altra cosa, infatti, sarebbe ragionare sul futuro dell’informazione e dei giornali, come organi di informazione. Ma non è di questo che stiamo parlando: qui affrontiamo il tema del libro e del suo futuro, della sua natura, della sua fruizione e della sua vendita. E allora mi sento di incoraggiare chi ne difende il destino: il libro resisterà, sopravvivrà, verrà rivalutato e infine apprezzato per l’esperienza unica che alimenta. Verrà riconosciuta la sua compiutezza e la sua perfezione come Opera Totale.

Dovremo essere abili nell’integrare la lettura di un libro con l’intensità emotiva degli schermi e dei loro contenuti, e riconoscere il bisogno di un senso e di una direzione, misurandosi con sistemi intelligenti che innalzino la qualità del quotidiano arricchendo il nostro pensiero con significati nuovi, in grado non solo di sorprendere il lettore, ma anche di gratificarlo emotivamente. Queste esperienze non si sovrappongono e non si escludono, ma vivono fianco a fianco. Il libro raccoglie le istanze ormai mature della sensorialità come paradigma vincente e le incrocia con le logiche del senso inteso come meaning, come significato, come visione del mondo. Lo schermo e il digitale propongono altre avventure e connessioni, perché sono aperti,  meno definiti, mai definitivi. La stampa di un libro dà invece forma a un mondo non emendabile né sostituibile: ne avremo sempre più bisogno. I lettori si muovono sempre più frequentemente nell’ambito della liquidità digitale, conciliando le proprie aspirazioni cognitive con esigenze di velocità e tempestività informativa, alla rincorsa dell’ultima notizia. Ma lo spirito nella lettura di un libro sarà diversa e più profonda: è questa la sfida per alimentare i nuovi modelli educativi e formativi, al di là della fame informativa.

La relazione tra sensorialità e tecnologia conosce ormai un lungo percorso di analisi e di riflessione che risale all’intuizione di John Naisbitt, il quale, nei primi Anni Novanta, fu il primo a parlare di High Tech/High Touch come un tandem di esperienze non più contrapposte ma convergenti. L’ipotesi che la tecnologia potesse amplificare la sensorialità, e non semplicemente eliminarla come nelle visioni più ingenue della prima fantascienza (le pillole che sostituivano il cibo, la casa che si trasformava in laboratorio freddo ed efficiente…), si è progressivamente affermata negli ultimi decenni e viene ormai accettata e praticata. Ma comincia ad essere vero anche il contrario: la sensorialità amplifica la potenza digitale e la sua estensione: i videogiochi lo dimostrano.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

In effetti, alcuni progetti ispirati ai principi dello Humanistic Management, a cui anche tu hai partecipato negli anni scorsi, hanno confermato nella pratica quanto stai dicendo: penso all’incrociarsi di poesia, management e fotografia che abbiamo sperimentato con la realizzazione del volume Nulla due volte incentrato sul mondo meraviglioso di Wislawa Szymborska, andato rapidamente esaurito, di cui ho ripreso anche alcuni capitoli trasformandoli in post qui su NOVA100; o a Le aziende InVisibili (bellissimo ra l’altro il racconto da te scritto in quella occasione), dove l’intelligenza collaborativa di cento personalità dell’arte, della cultura, della politica e dell’economia hanno trasformato le Città invisibili di Calvino, in Aziende inVisibili che poi sono diventate visibili prima grazie alle illustrazioni di Luigi Serafini, poi in una Web Opera, in parte realizzata nel mondo virtuale di Second Life (vedi ad esempio l’eccezionale corto intitolato Test Attitudinale, firmato da Adelchi Battista e Kristine Lowey, tratto dall’omonimo Episodio de Le Aziende Invisibili). E che infine ha generato questo stesso blog su cui ci stiamo confrontando in una modalità conversazionale che risale almeno a Platone ma che oggi diventa digitale e multicanale: una possibile messa a terra di quelle Digital Humanities di cui ho discusso con Gilberto Corbellini e Nicola Gasbarro.

Francesco Morace

Francesco Morace

E’ in questa dimensione tecnosensoriale che, paradossalmente, la profondità dei riti quotidiani si rafforzerà, confermando la centralità dell’oggetto-libro, della sua esperienza profonda, che resiste e guadagna terreno nei confronti della distribuzione digitale dei testi e degli e-book, laddove per alcuni anni sembrava dovesse inesorabilmente essere da essi soppiantato, come ricordava Luca Formenton. Stesso destino si prefigura per le librerie che da luoghi abbandonati e agonizzanti si trasformeranno – è avvenuto anche durante la pandemia – in centri culturali, luoghi di incontro da vivere e da godere, attraverso la passione per i libri. Per rianimare un territorio, un quartiere, una comunità, attraverso un tessuto di relazioni e di intenzioni, di idee e di letture più o meno condivise. Tutto ciò avviene riconoscendo e celebrando l’oggetto-libro, nella sua perfezione.

Il libro riemerge così attraverso il filtro dei piaceri minimi e profondi, la dignità creativa della nuova manualità, la straordinarietà delle occasioni culturali, e la freschezza di una intensità quotidiana rigenerata attraverso il gioco della lettura incrociata. Con un libro il leggere diventa un fare. La dimensione del quotidiano e la sua crescente rilevanza in termini di qualità della vita, si affermerà dunque nell’esistenza di ognuno, sempre più votata a micro-esperienze felici. La lettura di un libro lo è. Nello stesso tempo il mondo dei media digitali giocherà di contrasto e contrappunto, proponendo con successo una serialità vitale e sorprendente, con buone dosi di talento e innovazione: Netflix insegna. Le due esperienze convivranno, hanno già cominciato a convivere. L’amore per la lettura di un buon libro, accanto alla potenza e prorompenza degli schermi.

La lettura di un libro segue poi una tendenza ormai consolidata che plasma la categoria del tempo di vita, alla ricerca di significati originali in linea con un rallentamento dell’esperienza. Il desiderio di rallentare nasce dalla necessità ormai diffusa di contrastare l’accelerazione digitale dei ritmi di vita (e di lettura) spesso compulsivi e frenetici: si cerca cioè di recuperare un ritmo esistenziale più in sintonia con quello naturale, evitando la superficialità digitale dell’esperienza. All’idea di approfondimento, si accompagna spesso quella di raccoglimento, distanza e quindi anche di riflessione silenziosa: tutte le esperienze che caratterizzano la lettura di un libro.

Paolo Del Brocco

Paolo Del Brocco

Sono affascinato dal tema di questa conversazione. Vi partecipo da outsider, da uomo di cinema, nella consapevolezza di quanto siano profondamente interconnessi il nostro mondo e quello letterario. Il cinema è costellato di capolavori ispirati da opere letterarie e la relazione tra libro e film è talmente forte che i due mondi tendono inevitabilmente verso la fusione fino a diventare un unicum, un qualcosa di nuovo. La trasposizione cinematografica remixa, riformatta, digitalizza il libro, lo porta a vita nuova, ma soprattutto delimita e costringe il mondo evocato dal libro in personaggi in carne ed ossa, ambientazioni, musiche, colori. La meraviglia dell’esperienza della lettura è anche nell’attivazione del lettore di un processo creativo, in cui immagina, visualizza con una prospettiva del tutto personale i volti, i luoghi del romanzo che sta leggendo. Quando il libro diventa un film quel mondo scompare travolto dalla magia e dalla “violenza” del cinema. Quel Gollum che avevi in testa mentre leggevi il libro è scomparso istantaneamente vedendo le prime immagini de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson e tutti, leggendo Shining, saranno “costretti” a visualizzare il viso stravolto di Jack Nicholson.

Le caratteristiche del “regno digitale immateriale” descritte da Kevin Kelly – dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire – mi sembrano quindi essere le medesime dei testi letterari. La staticità dei libri è solo apparente, attiene alla sua dimensione immediatamente fisica. Il libro è un testo profondamente interattivo, liquido, conversazionale. Ognuno di noi lo interpreta, lo interseca con le proprie storie, lo racconta, lo commenta, lo vive. Il libro è quanto di più idoneo nella sua natura a essere ancora protagonista di questa nuova fase di destrutturazione e di innovazione sistemica.

Il processo di digitalizzazione non mette in discussione la funzione specifica e il valore del libro, anzi ne espande il potenziale, ne moltiplica l’accessibilità e apre naturalmente all’interattività e agli ipertesti. La fissità del libro rimane un valore intrinseco potentissimo in questa marea di conversazioni, di interpretazioni, di interazioni. Il libro contribuisce alla strutturazione del sistema culturale, afferisce al mondo della riflessione e dell’approfondimento, è una dimensione immersiva. E’ un mondo di senso compiuto.

Il libro insomma non solo è già (come dice Francesco), ma è sempre stato un librare. Un testo naturalmente aperto al mondo, naturalmente in divenire, ma immutabile nella sua essenza. Il libro è la sorgente mentre l’acqua che sgorga da essa è il librare. L’acqua prenderà mille forme diverse, sarà bevuta, usata per cucinare, per annaffiare o mescolare senza avere effetti sulla sorgente, ma solo aumentandone il valore.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

I tuoi pensieri mi colpiscono anche perché richiamano quelli di uno dei protagonisti di Ariminum Circus, Jay, impegnato a scrivere una lettera d’amore a Daisy, la ragazza di cui è innamorato: “Scegliere e modificare la propria identità a piacimento, trovando sempre nuove figure in cui incastrare i pezzi unici che ne determinano comunque la singolarità: Jay era persuaso che questo fosse il punto di arrivo di una libertà totale. Qui risiede il segreto della gioia di scrivere, per sperimentare la quale, pensava, non occorre essere un Premio Nobel per la Letteratura: nella scoperta che esiste un regno di cui io, Jay lo Scrittore, reggo le sorti indipendenti; che è possibile un esistere sotto il mio controllo; che sono in grado di costruire Universi in cui non si muove foglia che io non voglia. Di più: che si può realizzare un divenire condiviso, un’intelligenza collaborativa, un vivere conviviale, uno scambio continuo come avviene su Facebook o sui social network – quando riescono a essere comunità significative e non la mera espressione di chiacchiere esibizionistiche.

Il novello Orlando ricordava quanto Daisy vivesse in simbiosi con il suo iPad: dunque, forse avrebbe apprezzato il testo di una lettera scritta utilizzando il digitale e le opportunità offerte dal Web, che rende disponibili materiali infiniti, sui quali si può lavorare di taglia e cuci. La bravura consiste nella sapiente mescolanza degli elementi scelti, che nel risultato finale devono trovare la giusta proporzione, come in un cocktail. Ecco, pensò, allo Scrittore contemporaneo si attaglia il ruolo del Barman; la parte della vodka potrebbe essere attribuita al giacimento di notizie alle quali egli attinge (Come Scrivere una Lettera d’Amore)”. Tuttavia, alla fine dell’Episodio, Jay rinuncerà, perché si renderà conto che la scrittura di una lettera d’amore non è compatibile con le logiche del Web.

Paolo Del Brocco

Paolo Del Brocco

Il fallimento di Jay non mi sorprende. La mia riflessione è dedicata infatti a quei libri che ci regalano storie originali, ai processi di vera e propria creazione. Libri che si sedimentano nel sistema culturale e nella storia personali. E’ ovviamente un libro anche quello scritto da uno youtuber o dai gamers di Fortnite, ma hanno la prevalente funzione di espandere mondi già esistenti, non sono il seme da cui nasce quel mondo. E’ evidente che il libro non compete né con un tweet, né con un articolo di un quotidiano. Così come un film non è in gara con una story su IG.

E’ questione di modelli narrativi, di linguaggi. Tendenzialmente i social, l’advertising, i quotidiani, l’informazione televisiva afferiscono allo storytelling, al racconto di storie personali, aziendali, pubbliche, mentre i libri e i film sono le storie, sono i mondi, sono i personaggi.

Non può esistere un futuro non alimentato da una strutturazione approfondita delle storie. Un sistema culturale alimentato esclusivamente dallo storytelling favorisce l’edonismo e la superficialità. Oggi più che in passato è fondamentale preservare uno spazio importante al libro come elemento capace di puntellare un sistema culturale che rischia di essere dominato dai modelli di comunicazione brevi, ammiccanti ed effimeri dei social.

Il futuro sarà ricco di librare, di ridefinizioni, di rielaborazioni. I libri potranno essere disgregati, scritti insieme da migliaia di persone per generare nuove storie, esplosi, come sostiene Kelly e come hai anche tu sperimentato ad esempio con Le Aziende InVisibili. Ma non per questo perderanno il loro ruolo.

Probabilmente poi si dovrebbe trovare un termine ad hoc per tutte quelle produzioni letterarie che nasceranno partendo dal remix o dal mashup di più libri per esempio. L’intelligenza artificiale potrà far parte di questi “libri rinnovati” perché potrà semplicemente limitarsi a partire da elementi già esistenti senza capacità di creare ex-novo.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

A cosa serve un libro senza immagini e conversazioni? Questo è il pensiero con cui Alice si presenta nelle prime righe del Wonderland. Il pensiero di una bambina del 1862 che potrebbe essere quello di una persona  appartenente alla generazione dei nati dopo il 1996, quando si assiste all’esplosione di Internet, e ancor più dopo il 2006, anno che segna l’avvento dei social media e del web 2.0: e cosa è Facebook se non un libro fatto di immagini e conversazioni?

Fuor di metafora, l’esperienza straordinaria  che consentono i social network è data dalla possibilità offerta ai lettori di diventare protagonisti attivi delle immagini e delle conversazioni, come lo è Alice. Oggi un libro non è solo letto in solitudine: è condiviso, commentato, continuato e integrato dalle community di fan… Più in generale, la straordinarietà del pensiero di Alice sta soprattutto nel precorrere la prima affermazione del Cluetrain Manifesto, del 1999, testo fondamentale per la capacità anticipatoria della realtà socio-economica attuale: “I mercati sono conversazioni”. Gli autori del Manifesto sono fra l’altro tornati recentemente con nuove indicazioni, che ho commentato nel post Cluetrain Manifesto: il ritorno.

La realizzazione della visione del Cluetrain Manifesto è una delle conseguenze portate dalla diffusione di Internet, che pone alle organizzazioni politiche, economiche e sociali una sfida cruciale: quella della cosiddetta “Trasformazione Digitale”. Una sfida conversazionale, come rileva Kevin Kelly: “Fin dalla sveglia, la Rete, dal momento che conosce la nostra routine quotidiana, cerca di rispondere alle nostre domande quasi prima che gliele possiamo rivolgere… Invece di scorrere sul telefono montagne di scatti di un amico, basta chiedere di lui e la Rete anticipa quali foto potremmo voler vedere. Inoltre, basandosi sulla nostra reazione, può farcene visualizzare ancora, oppure altre di un’altra persona… Entro il 2050 arriveremo a considerare Internet come una modalità di conversazione onnipresente”.

Cosa comporta e cosa sempre più comporterà tutto questo per chi scrive, edita e pubblica libri?

Paolo Del Brocco

Paolo Del Brocco

Con l’avvento dell’epoca digitale, le diverse forme e modalità di narrazione hanno subito un profondo cambiamento. Il progresso tecnologico ha provocato il dilagare del digitale che ha coinvolto praticamente tutti gli ambiti della nostra società. Uno scenario inedito dove il nuovo e l’antico, come spesso avviene nelle grandi rivoluzioni culturali, corrono il rischio di scontrarsi ed entrare in competizione o più semplicemente non capirsi e, fatalmente, ignorarsi.

Nell’attuale era della convergenza che vede i contenuti viaggiare da una piattaforma all’altra e dove è ormai è tangibile la rivoluzione della Rete in termini di partecipazione diffusa e attiva, il testo, inteso nella sua concezione semiotica nella quale viene identificato in qualsiasi oggetto dotato di una particolare struttura e mirato a ottenere una particolare serie di scopi comunicativi, non può più essere concepito solo come un oggetto chiuso e statico, ma come un modello liquido, aperto alle inevitabili evoluzioni e contaminazioni.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

In un Episodio di Ariminum CircusLa Casa del Simurg, fra lo Scrittore e la sua Ombra si svolge questo dialogo: 

“«Atteniamoci allora ai fatti. I maggiori successi di vendita li ottengono i crossover, che nascono dall’incrocio narrativo fra universi finzionali». 

«Ovvero?».

«Si tratta, in prima battuta, di prendere due protagonisti di narrazioni diverse e farli partecipare alla stessa avventura. Il cinema lo fa nella forma di scontri epici: Zorro, o Totò, contro Maciste, King Kong contro Godzilla, Mega Shark contro Giant Octopus, Freddy contro Jason, Alien contro Predator, Dracula contro l’Uomo Lupo».

«Banali giochetti infantili».

«Non è Milan Kundera a sostenere che l’unico modo per prendere seriamente un romanzo è trattarlo come se fosse un gioco? In ogni caso, questo è l’inizio. Prendi la saga di Star Wars: Lucas la compone con elementi ispirati a Tolkien e un ventaglio di riferimenti che passano dal ciclo di Re Artù alle avventure di Flash Gordon, dalle comiche di Stanlio e Ollio ai film di samurai. Nel mio caso, il crossover mette insieme Il Grande Gatsby con FinzioniShine on You Crazy Diamond con Amarcord…»”.

In che misura nelle narrazioni contemporanee possiamo parlare di una sovversione del paradigma della narrazione tradizionale? 

Paolo Del Brocco

Paolo Del Brocco

Potremmo forse dire più correttamente che è in atto una modificazione della costruzione dei linguaggi all’interno di un processo di cambiamento culturale e sociale “inevitabile”.

Proviamo a focalizzare per un attimo la nostra riflessione, come tu proponi, sull’industria cinematografica, che è parte integrante di questo processo di mutamento. Rai Cinema, seguendo la sua mission di servizio pubblico, ha sempre avuto una vocazione e predisposizione all’ascolto del “nuovo”, attraverso la sperimentazione dei linguaggi e alla diversificazione del prodotto audiovisivo.  Il tema dell’ascolto e dello scambio è fondamentale per chi non vuole ignorare il cambiamento. L’aderenza ad una realtà in continua evoluzione e lo stimolo costante del processo creativo sono passi cruciali per continuare ad alimentare in maniera innovativa l’industria cinematografica e la produzione culturale del nostro Paese.

In questo nuovo scenario il ruolo dell’industria culturale cinematografica può essere centrale per la sua innata capacità di essere naturalmente sintesi di immagini e parole. La sceneggiatura in particolare è uno strumento di produzione naturale e sintetica di immagini, di costruzione di mondi e di senso. Per questo non dobbiamo avere timore di sperimentare nuove forme di partecipazione e narrazione. In questa ottica il montaggio può anche essere sfruttato come aggregatore ipertestuale, per dare valore e senso alla libera condivisione di contenuti personali.

E’ il caso di uno dei progetti di Rai Cinema nati durante il lockdown, Fuori era primavera – Viaggio in Italia ai tempi del lockdown di Gabriele Salvatores, il docufilm collettivo sulla quarantena realizzato grazie ai video degli italiani. Un esempio di narrazione collettiva coordinata che, sfruttando input creativi e contaminazioni esterne, ha agito da aggregatore e attivatore di nuovi significati e nuove conversazioni.

I prodotti culturali nell’era digitale propongono nuovi schemi, nuove possibilità che è giusto sperimentare senza per forza abbandonare tout court le vie più tradizionali. Il nuovo e l’antico possono evitare di scontrarsi provando a dialogare senza entrare in contrasto? Sì, nell’ottica di una narrativa del futuro multidimensionale, la coesistenza collaborativa delle diverse anime del linguaggio può essere il punto di partenza per consentire un salto evolutivo verso nuovi modi di concepire la narrazione.

L’estrema ratio del coinvolgimento dello spettatore si ha nella progettazione e scrittura di contenuti in virtual reality. La natura immersiva di tale tecnologia  obbliga chi scrive a progettare i percorsi visivi dello spettatore (vedi su questo anche i post pubblicati in occasione di VRE 2020, il Festival dedicato alla Realtà Aumentata e Virtuale, ndr.). L’esperienza di visione di un film in VR sarà necessariamente e straordinariamente unica esasperando il concetto di testo aperto. Sempre più la fruizione del contenuto diventerà un sentiero tracciato dallo stesso spettatore nell’ambito di un macro percorso definito dagli autori.

Luca Formenton

Luca Formenton

Trovo  l’idea di un mondo completamente immerso nella Rete piuttosto inquietante. E pare che anche alcuni operatori del settore se ne stiano accorgendo. Il documentario in onda ora su Netflix The social dilemma è abbastanza indicativo di questa tendenza. Rimando anche al libro di Jerome Lanier: 10 ragioni per cancellare subito i tuoi account social. Riporto qui un brano dell’introduzione:“Google e Facebook, insieme a Instagram, WhatsApp – cioè di nuovo Facebook –, Twitter e gli altri social, costituiscono l’impero della modificazione comportamentale di massa. Tirano fuori il peggio di te, spingendoti a manifestazioni d’odio di cui non ti pensavi neppure capace; ti ingannano con una popolarità puramente illusoria; ti spacciano dopamina a suon di like, intrappolandoti nella schiavitù della dipendenza. Distorcono il tuo rapporto con la verità e degradano la tua capacità di empatia, disconnettendoti dagli altri esseri umani anche se ti senti più connesso che mai. Corrompono qualsiasi politica che ambisca a dirsi democratica e devastano qualsiasi modello economico che non sia fondato sul lavoro gratuito. Inoltre – e questa è la cosa che ti scoccia di più, se ci pensi – si arricchiscono infinitamente vendendo tutti questi dati agli inserzionisti (che sarebbe più corretto chiamare manipolatori attivi della società e della natura umana), plasmando la tua volontà attraverso pubblicità targettizzate; e lo fanno attraverso algoritmi che spiano e registrano qualunque cosa tu faccia. I benefici che ti danno i social media non controbilanceranno mai le perdite che subisci in termini di dignità personale, felicità e libertà di scelta.” Affermazioni forse un po’ radicali ma sostanzialmente, a mio parere, corrette.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

A proposito di The social dilemma, per par condicio credo sia corretto ricordare che Facebook ha pubblicato un’articolata risposta agli autori della produzione Netflix, peraltro molto criticata per la banalità con cui tratta l’argomento: vedi ad esempio The Social Dilemma: il grossolano documentario Netflix sui social network o The Social Dilemma solleva domande ma non dà soluzioni.

Per parte mia, in tempi non sospetti ho pubblicato una serie di articoli intitolata I neoluddisti non muoiono mai, dove mi permettevo di scherzare un po’ su quella linea di ostinata avversione al digitale cui molti aderiscono, ma che pare l’estrema Maginot di chi ha difficoltà a comprendere la contemporaneità: e che del resto fa il paio con quel tecnoentusiasmo quasi fanatico di chi vede in Internet una sorta di deus (letteralmente) ex machina che aprirà all’umanità nuovi orizzonti di libertà e progresso. 

Il fatto è che il cyber-utopismo e, in generale, l’ideologia internet-centrica, sono sistemi di pensiero densi di motivazioni costruttive, ma se presi alla lettera si rivelano illusori come ogni semplificazione idealista. E sono stati usati come leva della straordinaria diffusione di internet nei primi tempi dell’esplosione del suo utilizzo in Occidente. I tecnoentusiasti rivoluzionari sono insomma il contraltare dei neoluddisti reazionari. Fra i due tipi umani tuttavia ritengo i secondi di gran lunga più pericolosi, perché unicamente regressivi e distruttivi: i primi al massimo sono ingenui, anche se non va mai dimenticato che i confini fra utopia immaginata e distopia reale sono spesso labili (vedi il romanzo di Dave Eggers, divenuto film con Tom Hanks,  The Circle).

In particolare, nel post Internet uccide la letteratura mi permettevo di mettere in luce la debolezza della posizione di coloro che, vedendo minacciata la propria auctoritas da influencer e youtubers, agitano la frusta del fustigatore di “tutto quanto fa social” in nome di una idea di letteratura “alta” sbandierata moralisticamente, ma spesso anche ipocritamente. Riprendevo in particolare l’opinione di Zucconi che scriveva:  “costoro sembrano appartenere a una cabala di neo luddisti, di nemici dei telai meccanici che minacciano la loro esistenza… e che di Internet hanno visto solo l’ineffabile banalità, e la dispotica stupidità, dell’intelligenza collettiva. L’idiosincrasia, o la fobia, verso il nuovo, il mai visto prima, l’ignoto, è certamente antica come lo sbigottimento del nostro antenato di fronte al primo cespuglio in fiamme o del monaco amanuense terrorizzato da quelle presse capaci di riprodurre in pochi giorni quei sacri testi che a lui richiedevano anni. Ma nell’avversione di intellettuali come l’autore di Libertà, Jonathan Franzen, come il Thomas Pynchon di Bleeding Edge, il Wolfe dei falò di tutte le vanità umane, tecno o sociali che siano, o del fustigatore instancabile del WWW, il russo Evgeny Morozov in lotta contro la Follia del soluzionismo tecnologico, c’è un filo comune che tesse personalità tanto diverse. Il filo che li unisce e che sicuramente potrebbe legare anche il Salinger del Giovane Holden nella sua feroce autoreclusione: è l’antica paranoia dello sciamano. È l’ansia del medicine man, del santone che vede sfuggirgli il controllo dell’immaginazione collettiva della tribù di fronte ad anonimi infermieri e medici armati di endofoni, vaccini, antibiotici e analgesici”.

Cristina Marconi

Cristina Marconi

Più che dare giudizi di merito, o morali, io mi focalizzerei sulla sostanza: “Entro il 2050 arriveremo a considerare Internet come una modalità di conversazione onnipresente”, afferma Kelly. Più onnipresente di quanto sia già adesso?, mi domando.  Io credo piuttosto che ci sarà un’evoluzione e che crescendo questo scambio diventerà più consapevole e intelligente di quello che si vede ora. Henri Bergson parlava di un “supplemento di anima” necessario per scongiurare il rischio di un dominio della tecnica sul pensiero: ogni generazione ha le sue paure, ma non è sbagliato dire che ogni tecnologia ha bisogno di una mistica, anzi di un nastro mistico come quello di cui parla Lewis Carroll. La tecnologia sarà più presente, ma noi saremo più bravi a gestirla. Fuggire davanti a linguaggi che non si padroneggiano non potrà essere una tentazione per gli scrittori e gli editor del 2050, che saranno loro stessi nativi digitali. Sally Rooney è stata tra i primi a fare un uso letterario del linguaggio dei messaggi, uno come Jarrett Kobek già in Odio internet ha fatto una riflessione dissacrante e senza complessi sulla Rete e le sue conseguenze: sono punti di vista freschi, che parlano di una cosa che tutti conosciamo, visto che ormai anche due esimi professori novantenni probabilmente si parlano su WhatsApp. Io parlo dal punto di vista dello scrittore: occorre ancora una volta affilare il proprio sguardo su questa realtà, ma non esserne travolti né abbagliati, mantenere identità e consapevolezza davanti a un processo di cui dobbiamo rimanere maestri. Non avevamo bisogno di Instagram per avere una narrazione per immagini, visto che la stessa vita lo è: questo non fa che accrescere la curiosità verso l’interpretazione che si dà di tutta questa massa. L’arte non deve tirarsi indietro davanti alla materia che ha davanti, né l’ha mai fatto. Non vedo perché non dovrebbe essere all’altezza adesso.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Nel quadro del “divenire” contemporaneo, si pone la sfida di un progetto come Ariminum Circus, che parte da una domanda: è possibile scrivere un romanzo superando obsolete distinzioni fra narrativa e saggistica, oltre che fra “generi” letterari – gabbie culturali (commerciali) ormai lontanissime dalla sensibilità contemporanea, che cerca nuovi format ibridi coerenti con il mindset digitale oggi pervasivo? Creando, per usare il termine di Alice e del Cluetrain Manifesto, delle “conversazioni” fra ambiti oggi separati? Molti ritengono che la risposta sia sì: basti pensare a Ballardismo applicato di Sellars, di S di Forst e Abrams o ilMistero.doc di McIntosh, per limitarci alla narrativa nordamericana degli ultimi venti anni.

Scrive Laura Tonini: la letteratura ergodica (che “sintetizza una nuova era geologica del nostro rapporto con la lettera scritta: richiede capacità e attenzioni diverse dai lettori, ma allo stesso tempo è una struttura diegetica sempre esistita”) “non necessariamente  è una forma collegata a opere ostiche e dedicate a un pubblico ristretto. Entrati in una sorta di automatismo da Internet abbiamo già smesso di rilevare alcune forme di attenzione accessoria richieste dagli ipertesti. Abbiamo già cominciato ad allenare il cervello a salti visivi e di contenuto, registri linguistici discontinui, introduzioni di neologismi e persino a collocazioni spaziali totalmente ingiustificate”.

Ma, soprattutto, al centro di Ariminum Circus si pone la relazione fra scrittura e immagini: quelle della pittura, della scultura, della fotografia, dei fumetti, della televisione, del cinema, della moda, del design, di Internet, della metafisica. Le immagini dei sogni della cui materia siamo sempre più intessuti. Ariminum Circus è un’indagine sul significato che le immagini hanno oggi, in un’epoca dove prevalgono di gran lunga sulla parola: esprime il bisogno di esplorare la parola scritta nella sua tensione verso l’immagine, o meglio nell’interferenza espressiva e cognitiva che la lega all’immagine. Un dato su tutti: nel 2017 un romanzo su dieci ha la forma della “graphic novel” (G.Peresson- A. Lolli, Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2018, Milano, Ediser, 2018).

Sotto questo profilo, Ariminum Circus si pone in linea di continuità con le sperimentazioni de L’azienda shakespeariana (illustrata da Milo Manara), Nulla due volte, dove le poesie di Wislawa Szymborska sono state fotografate da Fabiana Cutrano, Le Aziende inVisibili, romanzo collaborativo a colori con i disegni di Luigi Serafini, il Wikiromance in Instagrammi Racconti invernali da spiaggia, una sorta di Ur-Ariminum Circus multimediale. Il progetto narrativo trova così il suo naturale completamento nella Pagina Instagram che raccoglie le illustrazioni realizzate per Ariminum Circus da Marcello D. Minghetti.

Tuttavia il mondo editoriale italiano sembra sia incapace di capire e quindi gestire l’innovazione che viene dal rapporto fra scrittura e immagine, scaturito dalla conflagrazione in atto fra diversi sistemi  massmediali. Davanti a questo selvaggio nuovo mondo l’editoria italiana spesso non trova di meglio che arroccarsi su posizioni di retroguardia, specie quando una proposta fuori dal coro del politicamente corretto viene da un Autore italiano, salvo abbracciare magari con vent’anni di ritardo proposte simili di Scrittori americani che danno maggiori garanzie di vendita (come il già citato Ballardismo applicato di Sellars). Si tratta dunque di una critica radicale ben diversa da quelle svolte dall’interno del sistema stesso e con modalità narrative tradizionali (vedi per tutti Essere Nanni Moretti di Culicchia) che confermano il sistema nella sua immutabilità.

Che ne pensate?

Cristina Marconi

Cristina Marconi

Il sistema editoriale italiano è sicuramente meno avventuroso di altri, anche se mantiene un profilo intellettuale alto e questo, dopo tantissimi anni all’estero, continua ad incantarmi. In parte si tratta di una scelta comprensibile, dettata anche dal non aver accesso a quel bacino linguistico enorme e a quella diversità culturale che sono invece naturali per gli anglosassoni, ma anche per francofoni e ispanofoni. Dall’altra c’è sicuramente un approccio conservatore, cauto, autoreferenziale, terrorizzato dalle forme ibride e da ciò che non può essere catalogato, e qui non posso non pensare a un autore a me caro e mancato troppo presto come Paolo Zanotti. Per anni è stato visto con imperdonabile diffidenza da un mondo editoriale confuso davanti ai suoi coltissimi racconti semifantastici con protagonisti molto giovani: poi è arrivato Stranger Things, che confonde i generi o forse parla a una generazione di cui si presupponeva (a torto!) che fosse cresciuta.

Però a mio avviso i segni di miglioramento ci sono, grazie soprattutto alla straordinaria spinta data dalle piccole case editrici, ma non solo. Penso a Fumettibrutti e agli altri per quanto riguarda le graphic novels: gli esempi sono tanti, qualcosa si muove eccome. E sulle forme ibride tra saggio e romanzo anche mi sembra che stiamo facendo passi avanti, è un genere molto richiesto e in grandissima fioritura anche perché ancora una volta permette al lettore di affrontare un tema con una guida, senza perdersi nella confusione attuale. Che l’Italia proceda al suo passo rispetto all’anglosfera non mi dispiace, né mi preoccupa troppo: l’importante è che ogni salto in avanti sia autentico e abbia tempo di radicarsi per non evaporare poco dopo come moda fatua.

Certo un libro come Ballardismo applicato avrebbe meritato più attenzione anche perché accompagna il lettore attraverso l’opera di J.G. Ballard, con le sue visioni e le sue profezie vertiginose su tecnica, massacri e noia suburbana, riprendendone i temi e rendendoli anche più accessibili e attuali. Ma poi esistono spazi di discussione in Rete, la gente si confronta, c’è attenzione verso le novità e vedo più vivacità e voglia di reagire in ambito letterario che, a mio avviso, in quello cinematografico o in quello giornalistico da cui provengo. Non voglio suonare troppo ottimista e credo che le critiche del sistema servano più a fare satira che a scorticare il mondo di cui parlano: ma è una situazione in evoluzione, in cui quella grande conversazione che è il mercato mi sembra bene attenta a non farsi sfuggire nulla. Le sperimentazioni ci sono e non devono far dimenticare che al centro c’è sempre la stessa cosa: una voce, un punto di vista, una scelta stilistica forte.

Luca Formenton

Luca Formenton

Sono convinto che la divisione tradizionale tra fiction e non fiction e comunque tra generi oggi è in parte obsoleta. Lo testimonia la sempre maggiore diffusione della cosiddetta ”narrative non fiction” dove l’elemento importante è la scrittura più che il plot. Per stare nella mia casa editrice, autrici come Joan Didion e Olivia Laing ne sono esempi. E naturalmente anche la diffusione delle “graphic novel”, come ricordavano Cristina e Marco, che comunque non sono una novità. Il famoso Maus di Art Spiegelman, una graphic novel che racconta l’Olocausto, un successo mondiale, è del 1986. Quanto alla “letteratura ergodica” sono d’accordo con Laura Tonini quando sostiene che non necessariamente è dedicata a un pubblico ristretto. Come editore italiano di Mistero.doc  e più recentemente di Che cosa pensavi di fare (romanzo a bivi per umanisti sul lastrico) di Carlo Mazza Galanti penso anch’io che ci debba essere spazio per operazioni di questo genere. Entrambi libri di carta, comunque.

Paolo Del Brocco

Paolo Del Brocco

Credo che l’immutabilità del modello produttivo, che sia esso letterario o cinematografico, possa essere una forte ed innaturale limitazione al potenziale del libro o del film. Parallelamente ritengo che la gestione dei processi di ibridazione rispetto alle attuali infinite opportunità offerte dall’attuale sistema mediatico sia una sfida complessa e non necessariamente obbligata.

Vi sono libri di “genere” assolutamente potenti nel loro essere riconoscibili e nel rispondere in modo lineare alle aspettative del pubblico. L’ibridazione, se non guidata con grande arte e capacità, può confondere, disperdere; può rendere il prodotto scarsamente riconoscibile e identificabile con conseguenze molto negative in termini di capacità di trovare un suo pubblico.

Nella molteplicità di offerta – tecnicamente infinita agli occhi dell’utente – il tema del posizionamento è di particolare rilievo ed il rischio è che un libro o un film nel non essere né un romanzo, né un saggio possano escludere sia i lettori di saggi, sia di romanzi, invece di sommarli. Dalla nostra esperienza cinematografica la mancanza di un’identità forte spesso costituisce un vincolo difficilmente superabile.

Poi certo esiste la meraviglia, la meraviglia della sintesi e della creazione in cui più generi convergono in modo naturale all’interno di una produzione dando vita a casi letterari o cinematografici. Penso al cinema del reale, penso ad un film come Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Un documentario i cui protagonisti reali sono diventati personaggi letterari per la loro capacità di rappresentare e raccontare il mondo in modo narrativamente appassionante. Il cinema del reale è uno straordinario esempio di ibridazione riuscita quando l’incontro tra la visione del regista e lo sguardo del pubblico si incrociano per creare un nuovo mondo in cui il documentario diventa anche cinema universale, accessibile e addirittura commercialmente potente.

La sperimentazione è nel dna di Rai Cinema: l’attenzione alle opere prime, il rapporto con le università e con i centri di ricerca, l’aspirazione a presidiare le produzioni più innovative hanno segnato da sempre il nostro lavoro. Abbandonare il modello verticale e tradizionale dei generi è stata una delle nostre missioni. Le contaminazioni ci hanno posto di fronte a sfide difficili; contaminazioni di genere, di mondi e tecnologiche. Al centro di tutto c’è stata la ricerca spasmodica di Storie che meritassero di essere raccontate ed esplose in funzione delle loro potenzialità e non secondo schemi predefiniti.

Marco Minghetti

Marco Minghetti

Anche perché c’é un tema di marketing, se non altro: il pubblico giovane (quello che guarda The boys  o si entusiasma per manga e anime giapponesi) sembra sempre più orientato al superamento dei generi tradizionali. Si tratta di una questione già toccata nell’ambito del progetto Alice Postmoderna (in particolare quiIl genere dei capolavori è il mash up? – Alice annotata 27) e ripresa nell’Episodio 5 della Seconda Stagione di Ariminum Circus (La Casa del Simurg). Vi cito un altro passaggio della discussione che si svolge lì fra lo Scrittore e la sua Ombra: “Pensa a The OA, prodotto da Netflix. Ti leggo la recensione di Wired: “The OA vi ricorderà The Leftovers, Biancaneve e i sette nani, il cinema gelido di David Fincher, Westworld, il cinema teso di Alfred Hitchcock, il cinema allucinato di Tim Burton, Doctor Strange, Sense8, Frozen, La scoperta, La vita è meravigliosa, Il giardino dei sentieri che si biforcano e tutto quel che il vostro archivio audiovisivo mentale pertinente ai generi del dramma realistico, della fiaba, della fantascienza, della teologia, del fantasy e del thriller riesce a evocare. Tutto assieme? Sì”.

E il successo mondiale del manga, e anime e videogioco…, One Piece, non è legato alla straordinaria capacità del suo Autore di fondere Stevenson con Chandler, Gaudí, Dragonball, la storia della pirateria, Vicky il Vichingo, Don Chisciotte, i miti norreni e tanti altri?»”.

Carlo Rodomonti

Carlo Rodomonti

Per parte mia, posso testimoniare il percorso di costante ricerca e di sperimentazione che ha caratterizzato la linea editoriale di Rai Cinema e che si è tradotta in un’importante sfida per il marketing impegnato nella valorizzazione e lancio dei film.

Ripensare i generi significa progettare in modo diverso i materiali creativi e le campagna di lancio. Nel lancio di una “classica” commedia si usano – per poster e trailer – tipicamente una serie di cliché immediatamente riconoscibili dal pubblico così come l’individuazione dei target e le stime commerciali sono più agevoli basandosi su una serie storica di informazioni.

I film “ibridi” sono degli assoluti prototipi che necessitano di un’analisi e di una progettazione molto più sofisticata e impegnativa resa complessa da una naturale incertezza nella definizione aprioristica dei possibili pubblici.

Consapevoli di tale fluidità, dal 2016 è stata eliminata l’indicazione del genere dai nostri listini perchè spesso fuorviante e limitativo. Ciò perché ci siamo trovati, per esempio, di fronte a film come La pazza gioia di Paolo Virzì che era un dramma, era una commedia, era una tragedia o al magnifico Drive di Nicolas Winding Refn, un film che all’inizio era un action movie, per trasformarsi in crime e poi romantico e ancora dramma.

L’ibridazione è anche nell’offerta di una molteplicità di produzioni e nell’idea di integrare il processo distributivo con una propria piattaforma free vod per dare spazio a contenuti innovativi come  dei web movies creati ad hoc e gli shortmovies.

Il superamento dei classici generi  e delle classiche produzioni è avvenuto mixando elementi diversi o integrando diversamente gli stessi elementi.

Il marketing, tipicamente legato alla fase finale di gestione del film, è stato coinvolto in alcuni progetti speciali in tutte le fasi di pre-produzione e produzione con l’obiettivo di innestare degli elementi che potessero essere funzionali in termini di posizionamento e delle attività di lancio. Dando quindi un proprio contributo in fase di casting, sceneggiatura o per la scelta delle musiche.

Ne sono nati dei format transmediali come Happy Birthday costituito da un corto lineare, un corto in realtà virtuale da vivere sulla nostra app vr e un corto Instagram lanciati su piattaforme diverse, con eventi dedicati e media partner coinvolgendo talent come Achille Lauro e Terry Gilliam. Il tutto per promuovere una tematica sociale – il dramma degli hikikomori ad un pubblico diversificato e attraverso linguaggi e canali diversi.

La spinta verso l’innovazione e in particolare la sperimentazione con la realtà virtuale ci ha portato ad abbandonare la nostra area di confort e a immergerci in mondi distanti dal nostro come le università, i musei, l’editoria, i centri di ricerca. Un percorso che crea un nuovo network di relazione capace di creare ulteriori contaminazioni e ibridazioni.

Francesco Morace

Francesco Morace

Il sistema editoriale italiano non ha mai ragionato fino in fondo su queste trasformazioni: in questo senso un ringraziamento credo debba andare a Marco che ha promosso questa serie di conversazioni metadisciplinari sul futuro del libro proprio con l’intento aiutare il mondo dell’editoria a sviluppare un pensiero organico su questi temi, uscendo dalla torre eburnea dell’autoreferenzialità. Un’aureferenzialità peraltro spezzettata, confusa, conflittuale e caotica. Come tutto in Italia. Eppure il sitema editoriale proprio in questo momento ha una opportunità inconsapevole. Per spiegarla parto da una caratteristica che non ho ancora illustrato: l’iconicità del libro. In una sur-modernità in forte divenire e attraversata da continue scoperte, cambiamenti e innovazioni, la forza dei simboli e delle icone appare sempre più strategica, sia nella vita delle persone, sia nel mondo delle dinamiche culturali. Linguaggi, personaggi, prodotti e luoghi segnano più profondamente l’immaginario collettivo quando rimandano a significati, conoscenze e patrimoni di vita allargati, universalmente condivisi. Un serbatoio di icone che sostiene il voler credere in qualcosa di preciso e stabile, che merita devozione. Le persone si avvicinano ai propri “idoli”, cogliendo nei simboli la loro massima espressione, data dall’equilibrio tra estetica (ad esempio copertina e forma grafica) e pregnanza di contenuti. Siamo sul confine tra religione, cultura e consumo dove vivono le icone di culto, le figure carismatiche (in questo caso autori e personaggi), i luoghi unici e speciali: libri e biblioteche ne sono e sempre ne saranno l’esempio più emblematico.

Il sistema editoriale italiano, lo ricordava anche Cristina, con le sue punte iconiche più avanzate (ci ha lasciato da poco il padre di questa intuizione, Franco Maria Ricci), sembra ormai averlo capito, a partire dal caso Adelphi di Roberto Calasso, fino alla Sellerio di Elvira, Camilleri e Montalbano. Dovrà invece rimettersi in discussione per estendere e governare il confine sempre più labile con il mondo della cultura digitale: ma questa è un’altra storia…

Marco Minghetti

Marco Minghetti

… che sarà raccontata nelle prossime conversazioni. Ringrazio a mia volta tutti voi per la ricchezza di contributi offerta e per essere stati disponibili a fungere da icebreakers in questo esperimento di conversazione collaborativa.

E un grazie anche a Marcello Minghetti che ha realizzato il commento grafico disponibile sotto anche in… divenire!

 

Immagine di Marcello Minghetti