“It’s my own invention”: l’evento di giovedì 7 giugno, ovvero la premiazione del video vincitore del contest dedicato alla nostra Alice Postmoderna nel quadro del MashRome Film Fest (ore 20.00, Acquario Romano Casa dell’Architettura), ci ricorda che Carroll anticipa quella caratteristica dei capolavori della contemporaneità che consiste nell’impossibilità di ricondurli ad un genere pre-determinato. Questo vale per i libri ma anche per i film e in generale ogni opera artistica. Non solo. Ma la caratteristica della visione contemporanea e postmoderna è di applicare questo modo di leggere in particolare i grandi libri a tutte le opere, prescindendo dall’epoca in cui sono state create. Che cosa è ad esempio 1984? Un romanzo di fantascienza? Una (anti)utopia? Una storia d’amore? Un racconto sado-maso? La perfetta rappresentazione della vita reale che si svolge oggi in Nazioni quali la Birmania? Come ho scritto su questo blog [i], ho avuto questa intuizione nel maggio del 2008, alla presentazione di un libro dal titolo significativo: Al tavolo del cappellaio matto di Alberto Manguel. In quel caso il relatore era Umberto Eco che, in particolare, si era soffermato su uno dei capitoli del libro, quello dedicato al lettore ideale. Si tratta in effetti di una delle parti più deliziose del testo, di stampo chiaramente borgesiano, in cui si trovano affermazioni del tipo: “Il lettore ideale non ricostruisce una storia: la ricrea”; “Bisogna essere inventori per leggere bene”; “Il lettore ideale sovverte il testo. Il lettore ideale non dà per scontata la parola dello scrittore”; “Il lettore ideale è un lettore cumulativo: ogni volta che legge un libro aggiunge un nuovo strato di memoria alla narrazione”; “Ogni lettore ideale è un lettore associativo. Legge come se tutti i libri fossero opera di un unico autore eterno e fecondo”.
Eco leggeva e commentava, concordando con l’autore su queste idee, mentre io pensavo a come Manguel avesse perfettamente descritto il lettore ideale del nostro romanzo Le Aziende InVisibili. Ma poi Eco è giunto ad una frase, che ha ritenuto di contestare: “Il lettore ideale non si preoccupa dei generi letterari”. Sbagliatissimo, ha argomentato Eco: è impossibile leggere bene un libro senza sapere a quale genere appartiene. Un giallo è un giallo, una storia d’amore è una storia d’amore, un racconto epico è un racconto epico: se non si conoscono le “regole del gioco” cui ogni testo è sottoposto, le regole cioè del genere cui è stato iscritto dal suo autore, non si può comprenderlo a fondo.
A mio parere Eco qui si inganna: e mi sono permesso di esprimere pubblicamente questa opinione. Di fatto è una vittima del delirio specialistico tipico della pervasiva mentalità ispirata ai canoni dello scientific management. Prendiamo l’Amleto. Se ci poniamo dal punto di vista di Eco dovremmo leggerlo come se fosse una tragedia, ed un particolare genere di tragedia: la “tragedia di vendetta”, un genere molto praticato ai tempi di Shakespeare. Tuttavia molti critici vedono in Hamlet la prima “detective story” dell’età moderna (Amleto in effetti investiga sulla morte del padre e vuole scoprire l’assassino); Harold Bloom ritiene che Shakespeare (a differenza del Kafka di Borges, che crea i suoi predecessori) abbia plasmato tutti i suoi successori ed in particolare Freud e dunque vede in Amleto una sorta di dramma psicanalitico; ma naturalmente Amleto è anche una ghost story per eccellenza, è una storia d’amore, è un racconto filosofico (come nota il Deckard de Le Aziende In-Visibili “Cartesio ha con le idee dentro di sé lo stesso problema posto ad Amleto dallo Spettro, quando gli appare sotto il cielo stellato d’Elsinore: entrambi dubitano della realtà di quel che vedono e pensano. Temono che possano essere illusioni indotte da un malvagio Incantatore, dal diavolo”). Tom Stoppard ha persino trasformato genialmente la tragedia in una commedia (Rosenkrantz e Guilderstern sono morti).
In sintesi: a me sembra che non solo i grandi libri non possano essere ridotti ad un unico genere letterario, ma che, al contrario, potenzialmente li contengano tutti. Potremmo forse azzardare una sorta di formula: più generi letterari scopriamo in un testo, più è probabile che siamo di fronte ad un capolavoro. E questo è certamente il caso delle avventure di Alice. Alcune domande di prova: A che genere appartiene Alice nel Paese delle Meraviglie, a quello dei libri per l’infanzia? Illustri studiosi hanno dimostrato il contrario. Esercizi di stile di Queneau è un mero manuale di retorica? E i romanzi di Chandler sono riducibili al canone del giallo “hard boiled”? E le Città Invisibili di Calvino sono dei semplici racconti brevi? E infine, lo stesso Il nome della rosa è un mero romanzo storico?
Dal che si potrebbe forse evincere un’ultima conclusione: nell’ottica retrospettiva della contemporaneità (vedi
Alice la sensemaker: il futuro crea il passato – Alice annotata 16a;
Alice la sensemaker: la visione retrospettiva – Alice annotata 16b)
ogni grande libro “crea” il suo proprio genere letterario, diventando oggetto di emulazione e di “ri-creazione” (che può diventare “co-creazione”) per schiere di autori successivi (vedi anche King, Murakami, Carroll: una oscura ghirlanda postmoderna).
Le Aziende InVisibili, il romanzo collettivo da cui trae il nome questo blog, nasce proprio da questa convinzione (cfr. Da LE AZIENDE IN-VISIBILI a LA MENTE IN-VISIBILE e il saggio sulla scrittura mutante realizzato per Storia Continua).
Alice annotata 28. Continua
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