Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 2 – Manifesti, atlanti, mappe e territori

Se, a differenza di chi anche in tempi recenti aveva adottato la forma Manifesto per ragionare sui temi della comunicazione e della cultura d’impresa (il pensiero va in prima battuta ai “tweet prima di Twitter” del Cluetrain Manifesto[1]), gli estensori di quello dello Humanistic Management non avevano voluto esprimere tesi “fondative”, bensì piuttosto  “temporanee”, “transitorie”, “incostanti” – “impermanenti”, come è la realtà contemporanea; “variazioni” in senso musicale, intese come modificazioni di un tema sotto l’aspetto ritmico, armonico, contrappuntistico, timbrico, tale che il tema stesso possa essere sempre riconoscibile in forme continuamente diverse[2]; il Manifesto del Pop Management avrà piuttosto la forma di un Atlante warburghiano[3]. Di una mappa intesa come «uno strumento per compilare inventari straordinari» che può «comprendere concezioni escatologiche, principi di astronomia, cenni a teoria e pratica del golf, nozioni di botanica, saggi di critica letteraria». Ovvero «un sistema di correlazioni morfologiche fondato sull’analogia tra i soggetti più diversi della storia universale: la pittura olandese e la geometria euclidea, il fatalismo millenaristico e il jazz».[4]

Il perseguimento di questo obiettivo cartografico richiede, da parte di chi se lo pone, il possesso di alcune caratteristiche. Prima fra tutte, quella curiosità che è il tratto precipuo di Alice nel Paese delle Meraviglie. «A cosa serve un libro senza immagini e conversazioni?», si domanda la bambina nella prima riga del capolavoro carrolliano[5]. E mentre precipita nella tana del Bianconiglio («Giù, giù, giù. Questa caduta non avrà MAI fine!»), il suo primo istinto è appunto quello di provare a fare un disegno, una mappa mentale del luogo in cui si trova: «Chissà a quest’ora di quante miglia sono sprofondata? disse ad alta voce. Devo essere nei paraggi del centro della terra. Vediamo: questo farebbe una profondità di quattromila miglia, penso… (perché, vedete, Alice aveva imparato molte cose del genere a scuola e sebbene quella non fosse l’occasione migliore per sfoggiare le sue conoscenze, dal momento che non c’era nessuno ad ascoltarla, ripeterle era pur sempre un buon esercizio) … sì, questa è pressappoco la distanza giusta… ma poi mi chiedo: a che Latitudine o Longitudine sono arrivata?” (Alice non aveva idea di che cosa fosse la Latitudine, o la Longitudine, ma pensò che fossero gran belle parole da dire!)».

Un istinto straordinariamente contemporaneo. Thomas G. West vent’anni fa ha scritto un bestseller intitolato Thinking Like Einstein: Returning to Our Visual Roots with the Emerging Revolution in Computer Information Visualization[6]. Qui indagava i nuovi modi del pensiero visivo, dell’intuizione, della creatività resi possibili dalla computer grafica e dalle tecnologie di visualizzazione delle informazioni, molti anni prima dell’insorgenza del deep learning e dell’Intelligenza Artificiale generativa. E aveva già compreso che, con la rapida diffusione di computer economici e potenti, eravamo all’inizio di una transizione importante: da un mondo vecchio basato principalmente su parole e numeri a un nuovo mondo in cui il lavoro di alto livello in tutti i campi è basato sulla visualizzazione e la manipolazione di informazioni complesse utilizzando le immagini del computer in movimento. Thinking like Einstein… and Alice!

Successivamente Maurizio Ferraris annotava: “Declina la carta, trionfano le carte… Oggi accendi la tv e scopri che quella scatola che ospita parole e immagini in movimento (corsivo mio)… è una giungla di scritte, carte e diagrammi. Poi apri un libro, che è mediamente molto più pieno di illustrazioni di quanto non avvenisse un tempo, con schemi, grafici, figure…  Jennifer Egan ha vinto il Pulitzer con A visit from the Goon Squoad, un romanzo che contiene una settantina di pagine il cui formato è quello delle slides di PowerPoint”. E proseguiva sottolineando come il successo del pensiero per immagini attuale è in realtà un ritorno al futuro della tradizione filosofica occidentale, che dai presocratici arriva ad Hegel, passando per il grande discepolo di Platone, Aristotele, secondo cui “l’anima non pensa mai senza immagine”[7].

Così fa Alice[8]. Avviandosi a stendere il resoconto delle sue avventure, sembra quasi voglia seguire l’approccio di quegli scrittori che danno vita a capolavori immortali partendo da una semplice mappa: come quella dell’Isola del Tesoro, protagonista e al tempo stesso creatrice del romanzo (a proposito di letteratura di formazione) di Robert Louis Stevenson. Il quale così spiega come andarono le cose: «Disegnai la mappa dell’isola; era elaborata, e, mi parve, con dei bellissimi colori. La sua forma mi colpì oltre ogni dire; c’erano baie che mi piacevano come sonetti. Con l’incoscienza del predestinato, battezzai la mia opera Isola del Tesoro. Osservando la mappa, i futuri personaggi del libro cominciarono ad apparire concretamente nei miei boschi immaginari. I loro volti abbronzati e lo scintillio delle loro armi si manifestavano nei punti più inattesi, mentre attraversavano avanti e indietro, lottando e cercando il tesoro, quei pochi centimetri quadrati di proiezione bidimensionale. Poco dopo, mi ero messo a scrivere l’elenco dei capitoli»[9].

Certo, la mappa, si sa, non è il territorio. Le carte e le piantine in cui il turista affonda il naso non sono altro che proiezioni imperfette del luogo fisico a cui si riferiscono, immagini parziali e incerte che servono soltanto a orientarsi. Lo affermava, già nel 1933, il conte Alfred Korzybski, matematico e linguista, invitandoci a non confondere i modelli con la realtà che rappresentano. Gli unici tentativi da me conosciuti di creare una mappa perfettamente uguale al suo territorio li raccontano Borges e lo stesso Carroll (oltre al Federico D. Fellini di Ariminum Circus). Il primo, narrando di alcuni cartografi che tentarono di compilare una mappa dell’impero grande come l’impero stesso. Inutilmente: l’opera incompiuta fu abbandonata alle inclemenze del tempo, e le cronache dicono che animali e nomadi ne ritrovino a volte dei frammenti in mezzo al deserto… Il secondo, in Sylvie and Bruno Concluded[10], dove il Professore Tedesco riferisce di una mappa 1:1 che contiene esattamente tutto nelle sue dimensioni reali: «Non è mai stata aperta e dispiegata», sostiene. «I contadini si opposero: dicevano che avrebbe coperto l’intero paese e chiuso fuori il sole! Così adesso usiamo il paese stesso come mappa, e vi assicuro che funziona altrettanto bene!».

L’alternativa a questo percorso assolutizzante ma privo di sbocchi è quella offerta dal padre di Alice in The hunting of the  Snark (il suo vero capolavoro, a mio modesto parere). La soluzione radicale è proposta qui per bocca del Capitano Bellman, un personaggio adorato dall’equipaggio, a dispetto della palese incompetenza,  per il suo buon carattere e perché ama citare Shakespeare (ancora lui!): una blank map, prediletta da tutti perché non oppone resistenza, non costringe alla fatica del ragionamento, chiunque la può capire:

«Other maps are such shapes, with their islands and capes!

But we’ve got our brave Captain to thank

(So the crew would protest) that he’s bought us the best

A perfect and absolute blank!».

La mappa del Capitano Bellman non contiene assolutamente nulla, rappresenta solo l’indifferente ed indifferenziata distesa dell’Oceano: «a large map representing the sea/Without the least vestige of land»). Per contro, ha osservato Milli Griffi[11], le altre mappe sono ricche di segni, appesantite proprio dal loro valore conoscitivo («What’s the good of Mercator’s North Poles and Equators/Tropics, Zones, and Meridian Lines? »/So the Bellman would cry: and the crew would reply,/ «They are merely conventional signs!»).

E ancora leggiamo la contrapposizione tra il primo verso “Other maps are such  shapes” e l’ultimo “A perfect and absolute blank!” della quartina sopra citata. Il verbo essere insiste sulla qualificazione della mappa come forma costituita e istituita, così che risulta molto chiaramente la contrapposizione tra essere una forma ed essere un vuoto, tra shape e blank. Poiché dunque, pur condividendo con il Capitano Bellman l’amore per Shakespeare, preferiamo le difficoltà formative della conoscenza alla appagante vacuità del nulla, proveremo a disegnare la mappa del Wonderland del Pop Management stando bene attenti a non precipitare dalla ricchezza della Pop Culture all’annichilente povertà del populismo. Nella consapevolezza delle necessarie limitazioni cui i cartografi devono sottostare, quando accettano di porsi fra i due estremi entrambi privi di senso: la carta di Bellman che non ha nulla, la mappa di Sylvie e Bruno che ha tutto.  Specie quando il sopra e sotto, la destra e la sinistra, l’alto e il basso si confondono, si sovrappongono, si scambiano di posto: come succede in Wonderland, in un’incisione di Escher, fra i link di Internet, nel labirinto Pop della contemporaneità.  

2 – continua

Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)

NOTE

[1] Cfr.: https://www.cluetrain.com/

[2] Cfr: http://www.marcominghetti.com/opere/il-manifesto-dello-humanistic-management/lunita-molteplice/

[3] Aby Warburg (1866-1929), storico della cultura e investigatore partecipe della storia dell’arte, inaugura con le sue ricerche un metodo per la storia della tradizione classica, proponendo una mappa delle costanti della memoria occidentale – miti, figure, parole, simboli – in un campo di indagine che si apre sulle risonanze culturali tra Rinascimento, Antico e Contemporaneo. Il suo Mnemosyne è un atlante figurativo (Bilderatlas) composto da una serie di tavole, costituite da montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse: testimonianze di ambito soprattutto rinascimentale (opere d’arte, pagine di manoscritti, carte da gioco, etc.); ma anche reperti archeologici dell’antichità orientale, greca e romana; e ancora testimonianze della cultura del XX secolo (ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli).

[4] Ariminum Circus Stagione 1, pp. 62-63.

[5] «Il nome è decisivo per tenere incollato il Lettore alla pagina scritta».

«In che modo?»

«Deve evocare una personalità: misteriosa, magari, ma ben definita. In certi casi può accompagnarsi se non coincidere con un ruolo: come il Maestro della poesia di Szymborska. Se ti cimenti in un genere marinaresco, potrebbe essere il Capitano. Il Custode è indicatissimo per un horror».

«Dunque, vanno bene il Pescivendolo o la Tabaccaia, in un’ambientazione più comune – la provincia romagnola, per dire».

«Bravissimo. L’effetto è ancora più forte quando il personaggio viene menzionato per la prima volta insieme a una frase che lo caratterizza in maniera distintiva. Esemplare l’inizio di Alice nel Paese delle Meraviglie: “A che serve un libro – pensò Alice – senza immagini e conversazioni?”. La bambina si presenta al Lettore con un pensiero poiché tutte mentali sono le sue avventure».

«Precorrendo la Recherche: “Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera…”».

«Un sogno, anche qui: un sogno curioso d’immagini e conversazioni, simile al thread di un social network o a un film».

Ariminum Circus Stagione 1, cit., p.18

[6] Prometheus Books ( 2004)

[7] Cfr.: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/05/14/in-una-mappa-il-sapere.html

[8] Riprendo qui le osservazioni proposte nel numero di  Hamlet marzo 2000, Il territorio o la mappa?, successivamente riportate nel volume L’impresa shakespeariana, ETAS, 2002.

[9]Cfr.:  http://www.repubblica.it/online/internet/cartografia/letterarie/letterarie.html

[10] Pubblicata nel 1893, è l’ultima opera data alle stampe quando Carroll vivente.

[11] La caccia dello Snaulo, Edizioni Tesi (1985).

 

Puntate precedenti:

1 – Dallo Humanistic al Pop Management