Lorenzo Tedeschi è un giovane imprenditore e manager che ha fatto dell’etica e della sostenibilità sociale il proprio significato. Ha un trascorso in diverse startup – prevalentemente tech – ma sempre con un piede nell’innovazione sociale. Ha fondato TeamDifferent, una società che offre tecnologia, consulenza e formazione per garantire il benessere psicosociale negli ambienti di lavoro e rendere il benessere psicologico all’interno delle organizzazioni una leva reale, concreta e strategica.
È curatore di ETHICAL HR, il festival del mondo HR etico e responsabile. Scrive di fallimento e di salute mentale e cura l’edizione di alcune riviste centrate proprio sul benessere collettivo.
Lavorare è un atto politico. E vi spiego perché.
Lorenzo Tedeschi
Il pendolo della società
La società è uno straordinario pendolo. Parafrasando uno dei più grandi pensatori che la nostra civiltà abbia mai conosciuto, Arthur Schopenhauer, «la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia».
Ora, tralasciamo il dolore e la noia. Il punto è che stiamo rivivendo nuovamente un periodo di rivolta etica e sociale, in cui i giovani rifiutano il costrutto di una società e di un mondo del lavoro già bello e pronto, per costruirne uno che metta al centro la giustizia sociale, etica e filosofica. Mi spiego meglio.
Il Sessantotto
Erano gli anni Sessanta quando negli Stati Uniti nasceva un insieme di movimenti di rivolta che ben presto avrebbe contagiato quasi tutti gli stati del mondo e che avrebbe attivato sommosse senza precedenti per difendere ideali sociali, politici, culturali, filosofici, capitalistici. Quel movimento avrebbe invaso l’Università di Berkeley nel 1964, diverse università italiane nel ‘67 e l’Europa nel ‘68.
Era il Sessantotto e all’alba di una rivoluzione industriale fatta di automobili, giornali ed elettrodomestici, le piazze si agitavano e i giovani di tutto il globo si schieravano, per strada e talvolta con le armi, contro la guerra del Vietnam, le discriminazioni razziali, il militarismo, il capitalismo, un’organizzazione poco umana del lavoro nelle fabbriche.
Nasceva un movimento etico che occupava la facoltà di sociologia dell’Università di Trento nel 1966 e, nel ‘67, le università di Pisa, Torino, quella Cattolica di Milano e, in seguito, la FIAT di Corso Traiano.
Delle agitazioni che portarono a un 21 dicembre 1969, quando a seguito di una lunga mediazione si attivarono aumenti salariali, interventi sociali e si mettevano le basi per lo statuto dei lavoratori del 1970.
Il pendolo dell’etica
Come dicevamo in apertura, la società è un pendolo e a fare da comune denominatore tra un momento di agitazione collettiva, dettato da condizioni politiche e sociali sicuramente differenti, e quello attuale di rifiuto da parte dei giovani di un mondo del lavoro poco umano e obsoleto, c’è l’etica. Il cosiddetto perché.
Etica e sensemaking hanno un correlazione molto stretta, perché la costruzione di un senso per il lavoro di oggi è data proprio dalla consapevolezza di essere utile alla società. Di sostenere un progresso sociale e generare un impatto positivo sulla vita delle persone. Parliamo di uno scopo esistenziale che, in un momento in cui il driver del lavoro non è più solo economico, anima le persone e le motiva a prestarsi alla visione di un’azienda e un datore di lavoro. Sì, perché se è vero che “non siamo il nostro lavoro”, è anche vero che – secondo alcuni studi raccolti dalla Società di Scienze Comportamentali, lo scopo che abbiamo nella vita è definito nel 70% dei casi dal lavoro che svolgiamo. Delle mansioni che non solo ci consentano di “fare” ma di “essere”.
La pandemia e la rivoluzione POP
Mi rifaccio a uno dei Prolegomeni proposti recentemente (precisamente il #45 di Donato Iacovone, Presidente Esecutivo BIP) quando parla di “rivoluzione digitale come motore della sostenibilità”.
Ecco, esattamente come un pendolo, la potenza dei dati, gli straordinari progressi dell’Intelligenza Artificiale, lo stato dell’arte della robotica e la chip economy, portano tutti noi, soprattutto i più giovani, a cercare di fermare un treno in corsa e chiedersi «perché lo sto facendo?».
Uno dei momenti più rilevanti della storia recente, la pandemia da COVID-19, ha fatto da acceleratore degli ideali dei lavoratori, soprattutto dei più giovani. Nuove generazioni di idealisti che, al contrario delle generazioni precedenti, si chiedono poco se e come saranno collocati contrattualmente, sognano meno un posto sicuro che duri per la vita, parlano non più solo di stipendi, ma anche di responsabilità sociale, di utilità per la comunità, di diritti e inclusione, di attenzione alla salute mentale delle persone, di impatto ambientale.
Già nel 1974, lo storico e autore Studs Terkel sosteneva che, perché le persone fossero felici fuori e dentro le aziende, avessero bisogno di un significato più profondo e di uno scopo comune. In altre parole, non erano le gratificazioni economiche come stipendio e benefit e renderle coinvolte, ma la consapevolezza di prendere parte a qualcosa di grande. A una vocazione.
Ecco il pendolo che, in una ricerca della Gartner del 2021, ci mostra che il 56% degli intervistati nel mondo riferisce di cercare nel lavoro l’opportunità di contribuire maggiormente alla società. E a temi sociali di straordinaria attualità quali la dispersione scolastica, la povertà educativa, le periferie, la salvaguardia del pianeta, l’equità di genere e salariale, i conflitti internazionali, la salute mentale, l’inclusione sociale. Non solo: il 65% di loro dichiara di aver ripensato, a seguito della Pandemia, il lavoro come una “vocazione personale”.
In altre parole, «se non ha senso, non lo faccio». Con questi presupposti, le nuove generazioni di lavoratrici e lavoratori – probabilmente le più idealiste che questa società abbia conosciuto – hanno ridefinito il ruolo che il lavoro ricopre nella loro vita, senza sacrificare la propria libertà personale e il rapporto con i propri affetti, o comunque senza mai farlo solo per denaro.
Il Pop visto da chi lavora
Ma che cosa è POP oggi per i lavoratori?
È POP la sicurezza psicologica delle persone, un costrutto che nasce nel 1965 grazie ai pionieri Edgar Schein e Warren Gamaliel Bennis e basato su relazioni professionali di fiducia condivisa, responsabilità, ascolto e libertà di mostrarsi vulnerabili. Esattamente in questi termini Marco Minghetti ha parlato di Leadership POP in Prolegomeni #7.
È POP la valorizzazione dell’individuo: secondo gli studi condotti dallo psichiatra viennese Viktor E. Frankl, infatti, non siamo alla ricerca di un’occupazione che ci faccia guadagnare tanti soldi (non solo, almeno), ma da una che ci faccia sentire unici.
È POP la ricerca di sfide e obiettivi ricchi di significato, quegli stimoli che danno senso al lavoro e la cui assenza può generare attimi di frustrazione che la comunità scientifica ha, nel tempo, associato ai sintomi dell’esaurimento emotivo (Itzhak Harpaz, 1990).
È POP il concetto di azienda responsabile, quell’insieme di paradigmi sociali e ambientali dapprima confinati alle società benefit e alle imprese sociali ma che oggi non possono non riguardare ogni attività economica che popoli il mercato. Significa essere parte attiva di un significato umano e impegnare tempo ed energie in missioni sociali quali i diritti umani e quelli animali. Il lavoro dignitoso, le eque opportunità di crescita e formazione, la salute mentale, la genitorialità. Valori a cui le persone hanno bisogno di allinearsi per sentirsi davvero parte di un tutto.
È POP una innovazione più attenta alle persone. Secondo il Work Relationship Index 2023 di HP, infatti, il 72% delle persone intervistate (oltre 15.000 nel mondo) vuole un’introduzione più graduale e responsabile dell’innovazione tecnologica, con un focus maggiore sul feedback di chi lavora.
È POP il Great Gloom, il senso di tristezza e insoddisfazione che i giovani occupati esternano su TikTok e che culmina con la rassegna in video delle dimissioni, come ha fatto @brielleybelly123.
Il cambiamento è ciclico, come sostiene ancora Iacovone in Prolegomeni n.45, e talvolta può essere violento. Questa volta, però, al posto degli ideali politici (nella maggior parte dei casi) e delle bombe, ci sono lavoro etico e dimissioni.
L’etica è POP
Signori miei, cape e capi, corporate e PMI, mai come in questo momento, il lavoro è etica. E l’etica chiama democrazia.
Avete presente quel costrutto che mamma e papà, oppure i nonni, ci hanno trasmesso quando si parlava di lavoro? Devi fare la gavetta. Devi soffrire perché è l’investimento necessario per raggiungere una condizione migliore, sia economica che professionale.
Intendiamoci, il sacrificio è fondamentale per raggiungere degli obiettivi, quali che siano. Tuttavia, da una cultura del lavoro cieco in cui era socialmente accettato lavorare senza se e senza ma, senza chiedere o pretendere di più perché “quello passava il convento”, da una cultura del lavoro idealizzato e inteso come martirio necessario per il sostentamento, ci si muove sempre più verso un welfare pubblico che abbia gli strumenti che permettano alle persone di scegliere il proprio “mestiere” con consapevolezza, non per l’esclusiva necessità economica. D’altra parte, siamo nati nella parte fortunata del mondo, nella quale sempre più spesso si parla di restituire agli individui la dignità di esseri umani. E per farlo occorre fornire loro un’alternativa al lavoro (e ai capi) poco etici, e supportarli nel corso della transizione.
Le varie forme di supporto sociale – per alcuni bieco assistenzialismo – hanno sicuramente contribuito a rendere il lavoro più democratico: sussidi economici erogati dallo Stato che hanno lo scopo di fare da stampella e offrire uguali opportunità di crescita e di successo. Guardiamo per un attimo al Reddito di Cittadinanza, la vera star dei sussidi: una proposta dal Movimento 5 Stelle risalente alle elezioni politiche del 2018 – che ne aveva fatto la propria bandiera – che aveva una visione ampia e nobile ma che si è, poi, evoluta in un pericoloso concetto di welfare condizionato, in cui lo Stato non offre a tutti eque opportunità di crescita ma solo a chi “ne ha diritto”.
Misure come questa si rifanno alla visione di un basic income, un Reddito di base universale incondizionato che vuole slegare almeno parzialmente l’ascensore sociale dalle condizioni di ricchezza o di provenienza. In altre parole, si pensa che un reddito universale sarebbe la vera rivoluzione POP del lavoro, poiché lo vedrebbe passare da una stratificazione sociale spesso vicina a un insieme di caste a una comunità evoluta che lavori anche secondo inclinazioni e aspirazioni, e non solo per l’urgenza di uno stipendio.
Il basic income è una misura, in realtà, vecchia tre secoli e di cui nel tempo hanno parlato Martin Luther King, il premio Nobel per l’Economia Esther Duflo, Mahatma Gandhi, Papa Francesco e altri ancora. Oggi, questo scenario è attenzionato da una ICE (Iniziativa Cittadini Europei) che ad oggi conta oltre 120 mila firme, ma anche dal Parlamento Europeo e dal Basic Income Earth Network.
Coraggio e disciplina
Visto com’è diventato democratico il lavoro? E come le aziende hanno dovuto iniziare a comunicare con le persone su un piano più empatico e valoriale?
Un esercito di esseri umani sta tentando, forse, la più grande rivoluzione etica degli ultimi anni. Una battaglia etica che ha avvicinato, forse per la prima volta, aziende e persone e ha chiesto loro di costruire un dialogo, di confrontarsi, di parlare di sentimenti e di problemi sociali. Che poi è ciò che conosciamo oggi come employer branding.
Sono gli anni delle dimissioni di coscienza: secondo uno studio del 2023 condotto da Paul Polman – ex amministratore delegato di Unilever – su oltre 4000 dipendenti britannici e statunitensi, una persone su due avrebbe abbandonato la propria occupazione qualora non avesse condiviso i valori dell’organizzazione. Valori, spesso, orientati al benessere sociale e ambientale, come riferisce un altro studio della Banca Europea degli Investimenti (BEI), secondo cui il 62% degli europei ritiene necessario che i datori di lavoro prestino attenzione all’Agenda 2030; il 76% dei giovani lavoratori di 20-29 anni, invece, considera addirittura decisivo l’impegno delle imprese per lo Sviluppo Sostenibile, in fase di scelta del datore di lavoro.
Ecco il pendolo, ecco le battaglie sociali che tornano, seppur con un vestito e con mezzi differenti. Ecco l’etica che chiede per la prima volta alle organizzazioni di diventare POP, di partecipare ai dibattiti e, perché no, di facilitarli. Una rivoluzione etica e POP che richiederà sicuramente altro tempo perché arrivi alle persone, a tutte le persone. E che richiederà adattamento.
D’altronde diventare aziende e persone POP – come accennato in Prolegomeni n.1 da Marco Minghetti – richiede coraggio e disciplina.
Ma ce la si fa.
56 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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