Oggi riprendiamo il confronto, iniziato in Prolegomeni 122, con Giacomo Grassi, Dirigente INPS operante nell’Area Digital Processes e UX Design, per cercare di capire a che punto sono i processi di innovazioni nella Pubblica Amministrazione.
Introduzione
MM: Giacomo, il tuo libro Innovare nella Pubblica Amministrazione rovescia l’idea romantica dell’innovazione come gesto di genio o lampo creativo: la definisci come “una risposta necessaria a situazioni difficili piuttosto che una scelta deliberata”, dentro un sistema pubblico organizzato per garantire continuità, più che trasformazione”, in cui “ogni regola nasce per evitare l’errore, e rischia di rallentare anche il successo”.
In questo contesto proponi il Design come “mestiere e metodo” per dirigenti e team: un insieme di pratiche che aiuta a “definire bene il problema quando nessuno lo vede” e a costruire servizi “almeno altrettanto semplici, rapidi e affidabili” di quelli privati, perché “la fiducia nelle istituzioni… passa anche da questo”. Attraverso modelli teorici (come O.R.C.A.) e case study concreti (il design system Sirio, il rebranding il rebranding dell’istituto e l’experience authority), mostri come sia possibile superare la paura dell’errore, trasformare resistenze e complessità in alleati del cambiamento e generare un impatto tangibile sulla vita dei cittadini.
Questa intervista, da una parte, si inserisce nel solco dei Prolegomeni al Manifesto del Pop Management e di quanto hai scritto nel tuo Opinion Piece in Prolegomeni 122, dall’altra fa riferimento anche al tuo impegno nella costruzione di una grammatica condivisa per raccontare cosa vuol dire innovare davvero nella PA, anche con iniziative come Lo Stato del Design. L’evento si svolgerà il 3 dicembre a Roma e mira ad “accendere i riflettori” sul ruolo strategico del Design nella PA. L’evento riunisce responsabili istituzionali, designer, accademici e aziende per creare una vera e propria infrastruttura narrativa e operativa, dimostrando come il Design sia lo strumento per eccellenza per trasformare servizi complessi in esperienze chiare, accessibili e che generano fiducia nel cittadino.
Cosa vuol dire Innovazione?
Il Pop Management propone una transizione dall’“utente ideale” alle culture reali, ibride e contraddittorie della cittadinanza connessa. Nel tuo libro l’innovazione nella PA è cruciale perché mira a “far funzionare qualcosa che serve davvero”, in un sistema dove “ogni regola nasce per evitare l’errore, col rischio di rallentare anche il successo”.
In che modo il Design, inteso come approccio “Pop”, può aiutare la PA a spostare il baricentro dalla conformità normativa alla qualità dell’esperienza, facendo sì che il criterio guida non sia più “non sbagliare”, ma “far funzionare qualcosa che serve davvero” per le persone che usano i servizi pubblici ogni giorno?
GG: Per me innovazione nella Pubblica Amministrazione non è fare cose nuove, ma far funzionare meglio qualcosa che ha un impatto reale sulla vita delle persone. Nel privato questo avviene “fisiologicamente” perché esiste un meccanismo di selezione molto semplice: il mercato. Se un prodotto non funziona, le persone smettono di usarlo, i clienti scelgono altro, e quell’azienda è costretta a migliorare o sparisce. Nella PA questo attore non c’è: i cittadini non possono “cambiare fornitore di welfare”. Proprio per questo dovrebbe esistere un sostituto funzionale del mercato: una cultura della misurazione dell’impatto che orienti norme, obiettivi e decisioni. Il legislatore e il management pubblico dovrebbero definire obiettivi non solo di conformità, ma di risultato per le persone: tempi, semplicità, accessibilità, capacità di raggiungere davvero i destinatari. Invece molte regole sono state pensate soprattutto per evitare l’errore e per consentire l’adempimento tempestivo, e finiamo per misurare più la quantità che la qualità percepita.
Nel frattempo, però, le aspettative delle persone sono cambiate. Chi usa ogni giorno servizi bancari, e-commerce, piattaforme digitali si aspetta dalla PA lo stesso livello minimo di chiarezza e fruibilità. I giovani sono la cartina di tornasole più evidente: se non parli una lingua comprensibile e non offri prodotti digitali all’altezza delle loro aspettative, semplicemente ti ignorano. Il problema di portarli dentro il mondo del lavoro, della contribuzione e della previdenza – peraltro una priorità nazionale sentita e attenzionata – non è solo questione di “comunicare meglio”: è un problema di design. Significa capire i loro bisogni informativi, il loro immaginario, i canali che usano, il modo in cui prendono decisioni e poi progettare servizi, linguaggi e percorsi pensati per loro, che sono i cittadini di oggi e soprattutto di domani.
In questo senso parlo di Design come approccio “pop”: non il design come estetica o come gesto creativo individuale, ma come metodo che parte dalle culture concrete d’uso – linguaggi, aspettative, competenze, fragilità – e costruisce servizi che funzionano a partire da lì. Questo approccio sposta il baricentro dalla domanda “siamo a norma?” alla domanda “le persone riescono davvero a usare questo servizio, con quanta fatica, con quali esiti?”. Quando inizi a misurare sistematicamente queste cose – tassi di completamento, errori, abbandoni, tempi, feedback – la conformità normativa resta un vincolo imprescindibile, ma smette di essere l’unico criterio guida. Il criterio guida diventa far funzionare qualcosa che serve davvero.
Le Sfide dell’Innovazione – Il Modello O.R.C.A.
MM: Con il modello O.R.C.A. – Ostilità, Resistenza, Complessità e Ansia – descrivi quattro condizioni ricorrenti che chiunque provi a innovare nella PA si trova ad affrontare. Non sono difetti dell’amministrazione, ma caratteristiche strutturali di un sistema grande, regolato e distribuito. Nel tuo libro li tratti come una mappa di orientamento, quasi ironica, per aiutare dirigenti e team a riconoscere in anticipo dove si concentreranno gli attriti e a progettare strategie realistiche per gestirli. Nei Prolegomeni, il Pop Management insiste sull’Intelligenza Collaborativa come motore del cambiamento, e il tuo ruolo come Pop Opinionist è interpretare e rendere narrabile questa collaborazione.
Come può il Design diventare, in concreto, uno strumento di Intelligenza Collaborativa per anticipare dove e come emergeranno ostilità, resistenze, complessità e ansia (come raccomanda il tuo libro), e trasformarle in contributi attivi – anche attraverso iniziative come Lo Stato del Design, con cui provi ad “accendere i riflettori” su nuove alleanze tra mondi diversi?
GG: Il punto di partenza è riconoscere che O.R.C.A. non è un elenco di “problemi della PA”, ma una mappa di forze ricorrenti che chiunque provi a innovare si trova davanti. Ostilità, resistenza, complessità e ansia non spariscono con la buona volontà: vanno riconosciute e anticipate. E questo è esattamente ciò che fa il Design quando lo si usa come strumento collaborativo, e non soltanto come “semplice” disciplina creativa.
Gli strumenti di design servono prima di tutto a rendere visibili attriti che altrimenti resterebbero impliciti. Una mappatura dei processi permette di far emergere dove si inceppa un flusso; un prototipo condiviso rivela immediatamente fraintendimenti o opposizioni non dichiarate; un workshop fa emergere differenze di obiettivi che, se ignorate, diventerebbero ostilità aperta più avanti. Non si tratta di “fare partecipazione” per il gusto di farla, ma di costruire contesti in cui chi lavora sul servizio possa contribuire prima che il progetto sia troppo avanti per essere cambiato. È così che la resistenza diventa competenza, la complessità diventa informazione utile e l’ansia – che per definizione è paura dell’incertezza – si riduce perché il gruppo di lavoro è più consapevole.
C’è poi un livello più ampio, che riguarda l’ecosistema. Le ostilità e le resistenze non nascono solo nei progetti: nascono nei mondi separati che non si parlano. Qui iniziative come Lo Stato del Design hanno un ruolo preciso. Non sono eventi celebrativi, ma luoghi in cui questi mondi — PA, designer, aziende, ricerca — possono vedere rappresentate le proprie sfide e riconoscersi in un terreno comune. È una forma di intelligenza collaborativa “a monte”: creare un linguaggio condiviso, raccontare casi reali, mostrare come altri hanno gestito la complessità senza nascondere i compromessi. Senza questo livello narrativo, ogni progetto riparte da zero e combatte da solo le stesse O.R.C.A. di chi è venuto prima.
In sintesi, il Design funziona come strumento di intelligenza collaborativa quando aiuta le persone a vedere prima ciò che normalmente capirebbero troppo tardi. E quando crea le condizioni perché la PA non lavori per mondi separati, ma per una direzione comune. In questo modo ostilità, resistenze, complessità e ansia non scompaiono, ma diventano parte del lavoro e non il motivo per cui i progetti si fermano.
Il Viaggio dell’Innovazione – introduzione ai Tre Strumenti
MM: Nel tuo testo l’innovazione appare meno come “illuminazione creativa” e più come capacità di lavorare in condizioni difficili, dentro strutture rigide e vincoli pesanti. È una visione molto vicina al profilo del Pop Manager Pratico/Pratica: “meno genio, più mestiere; meno lampi, più metodo”. Parli di tre “strumenti” fondamentali che un dirigente deve saper usare per rendere l’innovazione un lavoro ripetibile e condivisibile.
Quali sono le tre competenze chiave – i “Tre Strumenti” che introduci – che un dirigente deve padroneggiare per incarnare questa Leadership Pop e dimostrare che l’innovazione è un “mestiere e metodo”, e non solo una questione di talento individuale o di budget disponibile?
GG: Quando parlo dei Tre Strumenti non intendo tre tecniche, ma tre competenze operative senza le quali – secondo la mia esperienza – l’innovazione nella PA non è possibile. Sono la bussola, il team e il carburante. Sono ciò che permette di trasformare un’idea in un percorso ripetibile, e non in un colpo di fortuna.
La Bussola è la visione. E’ la capacità di definire dove si vuole andare quando il percorso non è chiaro e la meta è “oltre l’orizzonte”. L’errore tipico, quando manca, è confondere gli obiettivi con i deliverable: si corre per produrre output e non per produrre un risultato. E’ quello che succede ad esempio quando si affronta un rebranding nel modo sbagliato: si parte dal logo invece che dall’identità che quel logo deve rappresentare. Nel nostro caso è stato il contrario: l’idea di come ci immaginavamo l’Inps del futuro ha definito la direzione e ha reso evidente che il brand doveva evolvere per rifletterla.
Il Team è la capacità di gestire la collaborazione, non di collaborare sempre e comunque. Nella PA ogni servizio attraversa silos, livelli e fornitori diversi, ma questo non significa che mettere “tutti insieme” sia automaticamente la soluzione. L’errore tipico, quando questo strumento manca, è l’estremo opposto: o si progetta in solitaria, scoprendo troppo tardi vincoli e opposizioni, oppure si apre un tavolo con troppi attori e la collaborazione diventa un freno invece che un acceleratore.
Gestire la collaborazione vuol dire capire quando coinvolgere chi, con quali decisioni condividere e quali tenere snelle, quali momenti aprire e quali chiudere. È una forma di intelligenza collaborativa molto pragmatica: non “tutti sempre”, ma “quelli giusti al momento giusto”.
Nel progetto Sirio questo è stato decisivo: i workshop ampi servivano a creare allineamento e ridurre la resistenza, mentre la produzione era concentrata in un team piccolo per non perdere velocità. Questa alternanza controllata ha evitato sorprese, conflitti inutili e quell’effetto tipico dei grandi progetti pubblici in cui la collaborazione diventa un rito invece che un metodo di lavoro.
Il Carburante è la sponsorship. Senza un mandato chiaro della leadership e senza l’appoggio operativo di chi poi deve applicare i cambiamenti, l’innovazione si ferma al prototipo. L’errore tipico è pensare che un buon progetto “si imporrà da solo”. Beh, nella PA non succede mai (e nemmeno altrove, a dire il vero). Serve una committenza che protegga il percorso e una base operativa che lo consideri utile. L’Experience Authority e la strategia UX di INPS esistono perché c’è stato un allineamento esplicito tra vertice e front line; senza questa doppia spinta, sarebbero rimasti esercizi di stile.
Queste tre competenze sono ciò che rende l’innovazione un mestiere, non un fortuito colpo di genio. E sono anche ciò che definisce, molto concretamente, una leadership “pop” nel senso che uso nel libro: meno legata all’eroe visionario, più al dirigente che sa costruire le condizioni perché il cambiamento sia condiviso, ripetibile e comprensibile sia a chi lo deve appoggiare dall’altro, che a chi lo dovrà realizzare ogni giorno.
Caso di studio #1 – Sirio, il design system di INPS
MM: Sirio, il design system di INPS, nasce per affrontare problemi molto concreti: interfacce incoerenti, esperienze frammentate e difficoltà di riutilizzo. Invece di limitarsi a un maquillage estetico, Sirio prova a incarnare l’idea di Innovazione Pop: non innovazione di vetrina, ma di sostanza.
Quali sono state le sfide funzionali specifiche che Sirio ha risolto prima di diventare un caso di successo, e in che modo ha permesso a INPS di dimostrare, anche simbolicamente, che “la fiducia nelle istituzioni… passa anche da questo”: dall’offrire servizi chiari, accessibili e all’altezza delle migliori aspettative digitali del cittadino?
GG: Sirio è nato per risolvere problemi molto concreti, che però avevano un impatto enorme sull’esperienza dei cittadini. Il primo era l’incoerenza: centinaia di servizi sviluppati in tempi, linguaggi e tecnologie diverse, che davano l’impressione di interagire ogni volta con un ente diverso. Il secondo era la complessità: percorsi lunghi, pagine ridondanti, scelte che si potevano capire solo conoscendo la logica interna dell’Istituto. Il terzo problema era che mancava completamente una governance: nessun luogo in cui definire standard, controllare la qualità o far evolvere in modo coordinato l’esperienza.
Sirio ha risolto queste fragilità in modo molto concreto. Le librerie di componenti e i kit di sviluppo hanno reso più agevole costruire interfacce coerenti e accessibili. Le linee guida di contenuto hanno iniziato a ridurre il linguaggio amministrativo eccessivamente burocratico. La governance dell’Experience Authority ha permesso di controllare e guidare l’adozione, invece di affidarsi solo alla buona volontà dei singoli. E la formazione ai team interni e ai fornitori ha creato un minimo comune denominatore di competenze.
Il risultato non è stato solo un’offerta di servizi (ormai quasi 100) più semplice e accessibile, ma un messaggio ben preciso: che l’Istituto può parlare in modo unitario, chiaro e comprensibile, e che la semplicità non è un vezzo estetico ma una forma di rispetto per chi deve usare quei servizi. Quando un cittadino trova un’interfaccia coerente, che funziona allo stesso modo da un servizio all’altro, la fiducia cresce non per ragioni astratte, ma perché l’esperienza è prevedibile, leggibile e non richiede decodifica.
Sirio è uno strumento tecnico, ma ha un valore simbolico preciso: dimostra che anche in un’organizzazione grande e complessa la qualità dell’esperienza dipende da scelte progettuali sistemiche, non da ritocchi superficiali. E che offrire servizi all’altezza delle aspettative digitali dei cittadini rappresenta una condizione di credibilità.
Caso di studio #2 – Il rebranding di INPS
MM: Nel rebranding di INPS il Design non è solo identità visiva, ma un modo per rendere leggibile il valore dell’istituzione in quella che i Prolegomeni chiamano “Quinta Era Mediatica”. Il Pop Manager, in questa fase, deve “rendere visibile il valore con metriche comprensibili” e costruire narrazioni che colleghino simboli, servizi, comportamenti.
In che modo un’operazione di Design (visivo e narrativo) come il rebranding di INPS può contribuire a guidare la Quinta Era Mediatica, trasformando l’immagine percepita della PA da apparato autoreferenziale a brand che comunica rispetto, chiarezza e prossimità, e che fa sentire il cittadino legittimato a pensare che “ci si sta prendendo cura di lui con rispetto, e che il suo tempo vale quanto quello di chiunque altro”?
GG: Il rebranding di INPS non è nato per “rifare il logo”, ma per rendere leggibile l’identità dell’Istituto in un momento in cui la percezione del valore pubblico passa sempre meno dai documenti ufficiali e sempre più dall’esperienza quotidiana. Nella Quinta Era Mediatica il cittadino costruisce la sua idea di un’istituzione attraverso mille contatti sparsi: un messaggio sul telefono, una schermata del portale, una lettera, un’interazione con un servizio. Prima del rebranding questa costellazione era frammentata: segni diversi, toni di voce incoerenti, materiali sviluppati in anni e contesti differenti. Non esisteva un “modo INPS” riconoscibile di comunicare, né un’esperienza che desse la sensazione di essere all’interno di un’unica istituzione.
L’obiettivo è stato ricomporre questo paesaggio in qualcosa di unitario e leggibile, partendo da esigenze molto concrete. La prima scelta è stata definire un posizionamento chiaro: avvicinare l’Istituzione alle persone – in particolare ai più giovani – superando l’immagine classica della PA come qualcosa di distante, formale e difficilmente decifrabile. L’identità visiva e narrativa doveva rendere INPS immediatamente leggibile, contemporanea e riconoscibile, senza rinunciare alla solidità istituzionale. La seconda scelta è stata costruire un’identità visiva semplice, modulare e capace di funzionare ovunque: sul web, sull’app, sulle comunicazioni cartacee, nelle campagne e nelle interfacce dei servizi. La terza è stata definire un tono di voce più vicino alle persone: frasi più dirette, meno tecnicismi inutili, più attenzione alla comprensibilità immediata dei messaggi. Infine, abbiamo voluto collegare il rebranding al design system: non un’identità astratta, ma un linguaggio visivo e funzionale che vive nei servizi reali.
Il risultato è stato duplice. Da una parte una riconoscibilità immediata: ogni volta che il cittadino interagisce con un contenuto INPS, la coerenza visiva e linguistica restituisce un senso di ordine e affidabilità. Dall’altra parte un messaggio implicito ma molto forte: che l’Istituto considera importante il tempo, la fatica e l’attenzione delle persone. Un’interfaccia chiara, un messaggio leggibile, un documento comprensibile non sono dettagli estetici: comunicano rispetto. È questo che, in ultima istanza, alimenta la fiducia.
Misurare l’impatto significa osservare la capacità dei cittadini di orientarsi, capire rapidamente le informazioni, distinguere le comunicazioni ufficiali da quelle non affidabili, completare i servizi senza incertezze. Nella Quinta Era Mediatica il ruolo del dirigente – il Pop Manager – è proprio questo: rendere visibile il valore attraverso sistemi di segni che collegano servizi, comportamenti e narrazioni. Il rebranding è stato un pezzo di questo lavoro: uno strumento per mostrare, non solo dire, che l’Istituto può essere chiaro, accessibile e vicino.
Conclusioni – Essere Pronti all’Innovazione
MM: Nelle Conclusioni insisti sulla necessità di “cercare e mantenere sponsorship reale (non solo formale)” per evitare che i progetti innovativi si interrompano. Nei Prolegomeni, la Forza della Gentilezza è una forma di leadership che costruisce alleanze praticabili e durature.
Che consiglio daresti a un/una aspirante Pop Opinionist che desidera contribuire all’innovazione della PA – magari partendo da osservatori come Lo Stato del Design – per costruire una “traiettoria che i vertici possano comprare e le persone possano praticare”? In altre parole, come si traduce in un piano d’azione concreto la Forza della Gentilezza per ottenere quella sponsorship reale che rende il cambiamento possibile e sostenibile nella Pubblica Amministrazione?
GG: La sponsorship si costruisce creando le condizioni perché le persone possano contribuire e supportare il progetto senza sentirsi esposte o isolate. Questo richiede alcune competenze molto pratiche, che potremmo ricondurre all’idea di una leadership capace di far rendere gli altri al meglio.
Il primo elemento è l’ascolto, inteso come capacità di capire perché alcune persone sono caute, perché certi processi sembrano immutabili, quali rischi percepisce chi deve firmare un atto o assumersi una responsabilità. Se non capisci il punto di vista degli altri, non riesci a costruire alleanze: produci solo frizione.
Il secondo elemento è saper ricondurre un progetto alle direttrici reali dell’organizzazione. La sponsorship arriva quando chi decide vede che ciò che proponi aiuta a raggiungere obiettivi che già considera importanti. Solo dopo questo allineamento servono le evidenze — prototipi, test, miglioramenti puntuali — che mostrano che la direzione è solida e che il rischio è gestito. Vale nella PA come nel privato: prima allinei la traiettoria, poi dimostri che funziona.
Ed è qui che si può leggere, in senso molto concreto, quella che viene chiamata “forza della gentilezza”: non l’essere accomodanti, ma l’abilità di creare un contesto in cui le persone non si sentono contestate o scavalcate, e quindi sono più disponibili a valutare un’idea nuova. Se capiscono che non vuoi imporre nulla, ma orientare il lavoro verso obiettivi condivisi, la soglia di opposizione si abbassa e diventa più facile ottenere sostegno reale.
Il terzo elemento è la chiarezza operativa. Le persone lavorano meglio quando sanno cosa ci si aspetta da loro, quale risultato si vuole ottenere, quali sono i confini di manovra. Essere determinati non significa imporre: significa definire la direzione e togliere ambiguità.
Il quarto elemento è la qualità delle relazioni. Le alleanze non si costruiscono con slogan, ma con affidabilità: non creare pressioni inutili, non scoraggiare chi si espone, riconoscere i meriti, proteggere le persone quando stanno sperimentando qualcosa di nuovo. Chi vuole contribuire davvero deve muoversi in questo modo: ascoltare con precisione, produrre risultati rapidamente leggibili, comunicare con chiarezza e costruire relazioni solide. È così che si ottiene la sponsorship reale, e con essa la possibilità di portare avanti un cambiamento che dura.
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