Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 136. L’Intelligenza Collaborativa motore pop del Change Management. Parte Terza, No Profit

Dopo aver messo a fuoco, nella seconda puntata di questa Conversazione Collaborativa, come i servizi abilitino il Change Management attraverso l’attivazione dell’Intelligenza Collaborativa (nella prima puntata ci siamo occupati dell’Industria), oggi ci spostiamo sul terzo Settore.

Su questo terreno confrontiamo quattro pratiche reali, eterogenee per missione e scala, ma convergenti nella direzione di un Pop Management”concreto, grazie ai contributi di:

  • Carmen Carulli (Women in Procurement)

  • Barbara Pizzuco (Fondazione Don Gnocchi)

  • Roberto Veronesi (LINKS Foundation)

  • Samuele Bozzoni (Cooperativa Agorà)

Le loro risposte, sempre raccolte da Alessandro Lotto, toccano sette nodi chiave: come far emergere i bisogni del gruppo, il peso del senso rispetto alle sole competenze, l’effetto evolutivo dell’intelligenza collaborativa, la gestione dei bias, il ruolo del resistente al cambiamento, gli strumenti di coinvolgimento e il valore di un change co-costruito rispetto al top-down. L’obiettivo è tradurre queste evidenze in principi operativi del Manifesto del Pop Management.

1 Come create, nella vostra organizzazione, gli spazi e i contesti necessari perché i bisogni del gruppo possano emergere e prevalere rispetto a quelli individuali?

Carmen Carulli

Oggi è sempre più importante partire da un presupposto semplice ma fondamentale: ogni gruppo è formato da persone uniche per competenze, esperienze e attitudini, ma unite da valori comuni. Sono proprio questi valori condivisi a orientare la collaborazione verso il benessere collettivo, per andare così tutti nella stessa direzione. Ogni progetto nasce da un allineamento chiaro sulla visione e sugli obiettivi comuni, così che il successo del gruppo diventi la priorità riconosciuta da tutti. Crediamo che la cultura aziendale non sia un manifesto da appendere al muro, ma il riflesso dei comportamenti quotidiani: sono le azioni, più delle parole, a dimostrare ciò in cui crediamo. Per questo, i valori sono scelti in modo che siano universali, condivisi e adattabili. Non cerchiamo una “cultura perfetta”, ma una cultura viva, capace di evolvere con le persone e con il contesto. La diversità culturale e professionale è una ricchezza: accogliere prospettive diverse ci aiuta a vedere nuove sfumature, a rispettare e valorizzare l’unicità di ciascuno.

La mia esperienza in contesti internazionali mi ha insegnato quanto sia potente lavorare con team eterogenei per provenienza, stile e visione. Non tutti restano se non si riconoscono nei valori comuni, ed è giusto così: questo ci permette di integrare persone nuove, con talenti diversi, in grado di portare un contributo distintivo e aumentare la nostra capacità di fare la differenza. Oggi, anche nei progetti di change management e riorganizzazione, mettiamo al centro lo sviluppo delle persone come esseri umani completi. Un team consapevole e allineato mette naturalmente il “noi” prima dell’“io”. Per renderlo concreto, abbiamo rituali e strumenti precisi:

  • Incontri settimanali di gruppo per condividere bisogni, sfide e idee, con ascolto attivo e senza interruzioni.
  • Approccio Agile per valutare l’impatto delle decisioni non solo sui risultati individuali, ma anche sul benessere collettivo.
  • Formazione continua, sia su competenze tecniche (ad esempio, applicativi e strumenti basati sulla Generative AI) sia su competenze soft, come l’ascolto empatico.
  • Mentoring reciproco: ogni persona è sia mentor che mentee, creando scambio bilaterale e fiducia.

Così costruiamo ogni giorno uno spazio in cui i bisogni del gruppo emergono e prevalgono, perché le persone si sentono parte attiva di un progetto più grande di loro.

Barbara Pizzuco

La nostra Organizzazione conta oltre 6000 collaboratori ed è diffusa in 25 centri distribuiti su 9 Regioni Italiane. Per rispondere al meglio alle sfide di un settore endemicamente in crisi di risorse (economiche e umane), nel corso degli ultimi anni è stato ridisegnato l’organigramma, favorendo l’integrazione tra funzioni centrali e le loro emanazioni territoriali. Questa struttura organizzativa a matrice favorisce l’emersione di bisogni collettivi, richiedendo la collaborazione tra le funzioni. Riunioni periodiche, sia a livello operativo che interfunzionale, creano spazi di confronto e allineamento. Un comitato di Direzione, che include membri senza deleghe formali, offre una visione d’insieme e incoraggia la partecipazione. In questo contesto, numeri e strategie sono condivisi apertamente, permettendo al gruppo di comprendere e dare priorità agli obiettivi comuni rispetto agli interessi individuali. Questi incontri istituzionali stanno facilitando l’ascolto reciproco e la costruzione del senso del bisogno di gruppo.

Roberto Veronesi

LINKS è una fondazione che conta circa 200 ricercatori e un altro centinaio tra tesisti, dottorandi, stagisti. Sono presenti generazioni che vanno dai boomer (pochi) alla generazione Z e un buon numero di persone provenienti dall’estero. L’età media è di 37 anni. Spazi di ascolto e contesti sono variegati. Questionari su temi specifici (ambiente, equilibrio privato-lavoro…), contest di idee, comitati come “Sostenibilità e futuro”, l’Academy per neoinseriti con spazi di ascolto dedicati, incontri tra i responsabili delle aree di ricerca e i propri collaboratori, la creazione della figura del mentor che accompagna, i neo assunti nella fase di onboarding e successivi incontri tra mentor e direzione. Senza dimenticare la relazione dialogica con il sindacato interessato a cogliere bisogni collettivi e a proporli all’organizzazione in chiave collaborativa.

Samuele Bozzoni

Questa è una questione fondamentale in ogni organizzazione, perché il focus spesso va purtroppo molto sul singolo e sui task e poco sul gruppo, specie quando si parla di valutazione e risultati… salvo realizzare qualche evento annuale di team building miracoloso!  

In realtà il gruppo spiega quasi sempre molto più del singolo: perché avviene o non avviene una certa performance, e così è per l’ organizzazione, che altro non è che un insieme di gruppi con obiettivi comuni.

In questo il terzo settore e le imprese sociali hanno tanto da insegnare a livello di buone prassi: i nostri servizi in ambito socio educativo per esempio hanno da tempo una tradizione di equipe e supervisione che fanno sì che le attività e problematiche siano condivise.

Sicuramente anche la tecnologia aiuta da un punto di vista di possibilità di analisi, gamification e costruzione di esperienze e comunità aziendali, noi stessi abbiamo sviluppato in Agorà un’analisi del clima interno ed una survey più specifica sui temi del genere e della conciliazione vita lavoro. La tecnologia aiuta e facilita, tuttavia, questa non è sufficiente per creare identità di gruppo che siano superiori a quelle individuali perché è necessario invece un lavoro più intenso, dal vivo, con le persone.

Ad esempio sono convinto che resta fondamentale nell’attività di tutti i giorni chiedere alle persone che hanno una determinata competenza e ai colleghi con cui collaboriamo “tu come faresti questa attività?” o anche “cosa ne pensi se facciamo in questo modo?”. Senza questo coinvolgimento attivo, trasparente, aperto ed onesto, nel lavoro di tutti i giorni, non si và da nessuna parte: il gruppo comincia a crescere quando si impara a mettere da parte l’ego.

2 Quando valutate i bisogni collaborativi, quanto peso date alla dimensione esistenziale (valori, emozioni, senso) rispetto a quella puramente intellettuale (competenze, conoscenze, obiettivi)?

Carmen Carulli

Quando valutiamo i bisogni collaborativi,  la dimensione esistenziale è la base su cui costruiamo tutto.
Il nostro modello è volutamente flessibile: tutti i collaboratori sono liberi professionisti, scelti di volta in volta in base a progetti specifici. Non si tratta solo di trovare competenze tecniche in linea, ma soprattutto di garantire un allineamento sui valori, sulla visione e sul senso del lavoro che stiamo facendo insieme.

Questo approccio permette di creare team specifici per progetto ad alta specializzazione, capaci di muoversi rapidamente e adattarsi ai cambiamenti, senza perdere la coesione. È un modello che credo vedremo sempre più spesso adottato anche da multinazionali: non per ridurre costi, ma per aumentare agilità e capacità di attrarre talenti che condividano una missione.

Per questo quando valutiamo i bisogni di un team, la sequenza è chiara:

  1. Valori e senso → ci assicuriamo che chi entra in un progetto si riconosca nella visione e nel “perché” del lavoro.
  2. Competenze e conoscenze → verifichiamo che le skill siano perfettamente aderenti alle esigenze del progetto.

Il risultato è che, pur lavorando con professionisti diversi su progetti diversi, la dimensione esistenziale crea continuità e identità. È questo a far sì che il “noi” prevalga sempre sull’“io”, anche in un modello di collaborazione flessibile.

Barbara Pizzuco

Come realtà sanitaria di matrice cattolica, consideriamo i valori non come un’appendice etica, ma come il fondamento ineludibile di ogni azione e decisione strategica. La vera sfida consiste nel fare in modo che la necessità di raggiungere obiettivi di “produzione”, come efficienza e risultati tangibili, e i nostri valori fondanti non vengano percepiti come entità contrastanti. Al contrario, sono visti come concorrenti: gli obiettivi intellettuali (competenze, conoscenze, obiettivi) diventano strumenti essenziali per realizzare pienamente la nostra missione. Le competenze e le conoscenze tecniche non sono fini a sé stesse, ma canali attraverso cui manifestiamo i nostri valori, creando un ambiente in cui il senso del lavoro permea ogni attività e ogni singola persona si sente parte di un progetto più grande.

Roberto Veronesi

Tema molto importante quanto difficile da “misurare” in modo particolare in una organizzazione di ricerca dove la dimensione intellettuale ha un peso rilevante. L’impegno della governance è quello di far emergere sempre di più l’aspetto valoriale, emotivo e di senso. Oltre alla consueta definizione Visione-Missione-Valori a cui ispirarsi, proviamo a creare situazioni in cui far emergere la relazione e l’emotività. Dal team building orizzontale (per tutta la Fondazione) a quello verticale (per aree di ricerca), alla creazione di contest tipo “come eravamo” attraverso fotografie che ritraggono ricercatrici e ricercatori quando avevano da 3 a 8 anni (molto apprezzata e partecipata), ad incontri mirati che vanno dall’uso del linguaggio alla attenzione al genere e alla diversità alla creazione di uno spazio dedicato di book crossing.

Samuele Bozzoni

Nel settore dei servizi sociali e socio sanitari da tempo gli aspetti emozionali, valoriali e di senso stanno conoscendo un nuovo slancio, senza componenti ideologiche, e questo tutto sommato è un bene. Io personalmente ho riscritto gli annunci di lavoro cercando di comunicare qual è il nostro scopo e perché facciamo quel che facciamo, ma gli annunci di lavoro sono solo una parte del tema, perché se le competenze e i risultati restano imprescindibili, tuttavia da un punto di vista del “perché si fanno le cose”, tutta l’organizzazione deve crescere e assimilare nel tempo anche punti di vista nuovi e diversi. Viceversa le persone competenti e motivate emozionalmente dal collaborare con noi, che però magari hanno storie e background diversi dai nostri, rischiamo di fare fatica ad ingaggiarle e a farle crescere con noi.

Un tempo nelle imprese pesavano molto la disponibilità a fare sempre di più in senso quantitativo e la cosiddetta “gavetta”, oggi però non è un bene né un male che nel mercato del lavoro attuale i giovani, ma non solo i giovani, abbiano scale di valori diverse in riferimento alle idee di tempo libero e di carriera, siamo quindi noi come organizzazione che, pragmaticamente, dobbiamo leggere dove vanno i bisogni e le aspettative delle persone e cogliere questi spunti per migliorare.

3 Ritenete che l’Intelligenza Collaborativa – intesa come la sintesi tra la dimensione esistenziale e quella intellettuale del team – possa realmente generare azioni evolutive per il contesto organizzativo e culturale?

Carmen Carulli

L’Intelligenza Collaborativa – ovvero la sintesi tra dimensione esistenziale e intellettuale del team –  genera azioni evolutive concrete per il contesto organizzativo e culturale.

Come scrivo in Leadership dell’Essere, la dimensione relazionale e collaborativa è imprescindibile: siamo esseri sociali, nati per interagire e collaborare verso un fine comune. La vera evoluzione avviene quando ciò che facciamo lascia un segno positivo e tangibile, migliorando ciò che abbiamo trovato.

Per ottenere questo risultato, non basta sommare le competenze: occorre integrare le intelligenze del team, sempre diverse per inclinazioni, valori e punti di vista. In Elevate utilizziamo strumenti concreti per farlo: tra questi, il test di Gallup, che adottiamo come parte degli assessment iniziali, e il nostro modello “SoftSkills Value”.

Questi strumenti ci permettono di mappare le aree di forza di ogni persona e di assegnarla a ruoli o compiti che le sono più naturali, così che possa esprimere il meglio di sé e contribuire al massimo al risultato collettivo. In questo modo, l’intelligenza collaborativa diventa non solo un concetto, ma un motore reale di crescita, trasformazione e impatto positivo.

Barbara Pizzuco

L’Intelligenza Collaborativa è fondamentale per generare azioni evolutive in un contesto organizzativo e culturale, in particolare nel settore sanitario. La sanità, per sua natura, si basa su decisioni collettive e sull’interazione continua tra professionisti. Basti pensare alle équipe multidisciplinari e multiprofessionali che operano in ambiti complessi come la chirurgia, l’oncologia o -quello che più specificamente riguarda la nostra Fondazione- la riabilitazione. In questi contesti, la pura conoscenza tecnica (dimensione intellettuale) è insufficiente. Per giungere a un piano terapeutico efficace e olistico, è cruciale che l’équipe si muova su un terreno comune fatto di empatia, fiducia e condivisione di valori (dimensione esistenziale). Quando questi due aspetti si fondono, l’équipe non si limita a eseguire procedure, ma evolve, sviluppando nuove pratiche, migliorando i percorsi di cura e adattando il proprio approccio alle esigenze specifiche del paziente. Le competenze tecniche diventano strumenti per perseguire un fine più alto, legato al benessere della persona e al senso del proprio lavoro. Questa integrazione permette di affrontare problemi complessi e di superare sfide che la mera somma delle singole competenze non potrebbe mai risolvere, portando a un’evoluzione profonda sia a livello organizzativo che culturale.

Roberto Veronesi

Senza alcun dubbio. Si rischia di cadere nel banale, ma la rimozione di “ostacoli culturali” e la creazione di spazi e contesti di senso, contribuiscono a generare inevitabilmente situazioni di benessere organizzativo che stimolano la produzione di idee, proposte, suggerimenti. Le persone che si sentono riconosciute e si riconoscono nel proprio contesto operativo contribuiscono al raggiungimento dei risultati, stimolano l’evoluzione dell’organizzazione, riducono i conflitti, risolvono problemi in autonomia. In questa logica risulta, viceversa, piuttosto delicato l’eventuale rapporto con responsabili con stili di leadership direttivi più orientati al comando – controllo e che ottengono, almeno nel breve, buoni risultati e raggiungimento obiettivi. Segnali di distonia con il resto del contesto organizzativo si iniziano ad osservare con il crescere di indicatori quali il turnover e/o l’assenteismo in quella specifica area.

Samuele Bozzoni

Nel contesto in cui ci troviamo per tutte le imprese profit e non profit l’intelligenza collaborativa è fondamentale per trovare soluzioni efficaci a bisogni complessi: questo però significa abbandonare radicalmente gli approcci incentrati su poche persone e sempre le stesse che “tirano la carretta”, le resistenze del tipo “abbiamo sempre fatto così”, la logica dei silos, o ancora, il fatto di abituarsi che si chiede al capo carismatico di avere la risposta o l’ultima parola su tutto.

Quasi tutti hanno capito in che direzione si stanno evolvendo le organizzazioni, cito qua Mondora, Breton o Var Group per stare in tre settori ed ambiti diversi: il tema è riuscire a superare l’ immobilismo e avere le persone giuste per attivare l’intelligenza collaborativa, quindi servono sicuramente spazi, tempo, energie diversi, ma prima di tutto grande consapevolezza da parte del management, perché se il management ha in testa solo un modello che magari funzionava bene 30 anni fa – è un problema.

Mintzberg sostiene che la strategia in ogni organizzazione si sviluppa come “le erbacce crescono in un giardino”: ecco, anche secondo me, dobbiamo ritornare a un approccio più “nature inspired” – ispirato alla natura – nelle nostre organizzazioni.

4 Qual è il vostro approccio nella gestione dei bias cognitivi e culturali del gruppo? Scegliete di assecondarli, neutralizzarli o farli emergere come una leva di consapevolezza?

Carmen Carulli

Il nostro approccio alla gestione dei bias cognitivi e culturali parte sempre dalla consapevolezza. Riconoscerli è la leva che ci permette di evitarne l’influenza negativa sull’operato e sui risultati, trasformandoli in un’occasione di crescita.

Non scegliamo di neutralizzarli, perché significherebbe cancellare una parte autentica di ogni individuo. I bias, se portati alla luce e gestiti con attenzione, possono arricchire il processo decisionale: rappresentano la pluralità di visioni e di scelte possibili, elementi fondamentali per un lavoro collettivo di valore.

Il nostro obiettivo è riflettere questa molteplicità di pensieri e dare spazio al singolo, pur mantenendo la rotta verso un interesse comune. Per questo, nei brainstorming iniziali di progetto, facciamo emergere le diverse prospettive in modo strutturato, utilizzando strumenti come il diagramma di affinità. Questo metodo, grazie alla rappresentazione visiva, ci permette di organizzare le idee in base alle loro relazioni naturali e di valorizzare le differenze come risorsa strategica.

Barbara Pizzuco

Il nostro approccio non è né assecondare né neutralizzare i bias, ma farli emergere come una leva di consapevolezza. Siamo fermamente convinti che l’eliminazione totale dei bias sia impossibile, ma la loro conoscenza è il primo passo per mitigarne l’impatto. Per questo, abbiamo appena iniziato ad attivare percorsi formativi specifici dedicati a figure chiave per l’organizzazione, con l’idea di estenderli progressivamente a tutta la popolazione aziendale. L’obiettivo è fornire agli operatori gli strumenti per riconoscere i propri e altrui pregiudizi, sia cognitivi che culturali, e comprendere come questi influenzino le dinamiche di gruppo e i processi decisionali. Questa consapevolezza è cruciale per la nostra missione in ambito sanitario, dove le decisioni collettive nelle équipe multidisciplinari richiedono la massima obiettività possibile per garantire il miglior risultato per i pazienti. Lavorare sui bias ci consente di prendere decisioni più razionali e inclusive, trasformando i pregiudizi da ostacoli a opportunità di crescita collettiva.

Roberto Veronesi

In un’organizzazione in cui sono presenti le generazioni da Boomer a Z con valori, riferimenti culturali, convinzioni ed esperienze variegate, i bias (soprattutto culturali) sono inevitabili e in alcuni casi sorprendenti. I bias in un contesto aperto emergono e vanno accolti, capiti e gestiti. Il confronto con il supporto di dati ed evidenze ed eventualmente la pianificazione di azioni correttive è il modo migliore per superarli e far evolvere l’organizzazione e la consapevolezza. Un esempio: “il genere femminile è pagato meno”. Dati alla mano, confronti medi per livello di inquadramento hanno smontato un bias assolutamente infondato e confermato la fiducia nella organizzazione. “Lo smart working riduce la produttività” ecc.

Samuele Bozzoni

Il percorso fatto per la parità di genere (nel 2025 abbiamo ottenuto come Agorà la certificazione) ci ha aiutato, anche da un punto di vista di inclusione, diversità, conciliazione vita lavoro e linguaggio: stiamo continuando a formarci sul tema per migliorare. L’aspetto dei bias cognitivi è direttamente legato a selezione, valutazione e percorsi di carriera quindi senza un’ adeguata consapevolezza si rischia di prendere decisioni frettolose, non adeguate e in via definitiva dannose per l’ organizzazione.

La mia collega Alessandra Grasso sta lavorando molto bene sulla comunicazione anche su questo tema, sempre per cercare di migliorare la consapevolezza diffusa sia all’esterno, ma anche soprattutto all’interno, dove ci sono sicuramente tante opportunità per imparare.

Il punto fondamentale è proprio questo: quanto siamo consapevoli dei bias cognitivi nella nostra organizzazione? È un argomento di cui si può parlare liberamente?

Se non se ne parla mai, tendenzialmente un argomento non viene vissuto e questo è un potenziale problema.

5 Come interpretate il ruolo del ‘resistente al cambiamento’? Lo considerate un ostacolo da superare o una figura potenzialmente generativa di energia e consapevolezza per l’organizzazione?

Carmen Carulli

Consideriamo la resistenza al cambiamento un fenomeno naturale, presente in ogni processo di change management, e non un nemico da combattere.
In un contesto in cui tutto evolve rapidamente, il cambiamento è una costante: comunicarlo fin dall’inizio con chiarezza e trasparenza è essenziale, ma spesso non basta. Cambiare può significare lasciare la propria area di comfort, rinunciare a certezze e a prassi consolidate negli anni.

Il nostro approccio parte dalla consapevolezza che la resistenza non è necessariamente un ostacolo: se gestita con attenzione, può diventare una fonte di energia e di consapevolezza per tutta l’organizzazione. Per questo, lavoriamo affinché le persone comprendano non solo il cosa cambia, ma soprattutto il perché e il valore che quel cambiamento porterà.

La scelta del team che guida il cambiamento è cruciale: oltre alle competenze tecniche, diamo grande importanza a soft skills come entusiasmo, capacità di emozionare e di trasmettere visione. Anche di fronte a chi si oppone in modo netto o dirompente, non optiamo per l’esclusione — come spesso suggerivano i manuali di management del passato — ma per il coinvolgimento.

Il primo passo è comprendere la persona: cosa la motiva, cosa la entusiasma, dove può esprimere al meglio le proprie potenzialità. Da qui costruiamo un percorso di cambiamento “su misura”, calibrato non solo sull’organizzazione ma sulle persone che ne fanno parte. Possiamo commettere errori sulle attività, ma mai sulle persone: è questo il principio che guida ogni nostra scelta.

Barbara Pizzuco

Come molte organizzazioni, anche noi abbiamo i nostri “resistenti al cambiamento”— a volte “non si può fare” o l’evergreen “abbiamo fatto sempre così” ricorrono più dei tormentoni estivi nelle radio commerciali! Invece di ignorarli, scegliamo di ascoltarli. Spesso, la resistenza non nasce da una volontà di ostacolare il progresso, ma da dubbi legittimi, preoccupazioni o un’analisi di rischi che il resto del gruppo potrebbe non aver considerato. Dialogando con loro, possiamo identificare criticità, validare o affinare le nostre strategie e rafforzare il processo di cambiamento. In questo modo, la loro “resistenza” si trasforma in un’opportunità per rendere il cambiamento più robusto, inclusivo e consapevole per tutti. In sintesi, adottiamo un approccio alla “De Bono”. Fortunatamente, i veri resistenti sono una percentuale limitata e gestibile, il che ci permette di concentrare le nostre energie su un confronto costruttivo che trasforma la loro opposizione in un motore di miglioramento.

Roberto Veronesi

Chi resiste al cambiamento ha, se non altro, un ruolo attivo nella organizzazione. I profili più “frenanti” sono i passivi o chi esercita azioni di boicottaggio occulte. Il resistente al cambiamento va ascoltato, vanno capite le ragioni della resistenza, se legate alla organizzazione o (molto spesso) più personali. Se si riesce a valorizzare la resistenza e inserirla in modo contributivo in un percorso di crescita, non solo si ottiene la sua partecipazione al processo evolutivo ma, per contagio, anche quella di altre persone che si espongono in misura minore e rendono vischiosi i processi evolutivi (vedi righe sopra). L’evoluzione organizzativa non può essere pensata come una linea retta tendente a infinito ma come un percorso che, per quanto progettato con grande attenzione, richiede ripiegamenti e comprensione di fenomeni non previsti. E di questo non dobbiamo stupirci. Mi piace chiamarla “forza delle cose” che alla fine conduce al risultato pianificato passo dopo passo in un percorso non lineare.

Samuele Bozzoni

La premessa è che tutte le organizzazioni sono, per istinto di sopravvivenza, “resistenti al cambiamento” ed in ogni organizzazione ci sono “persone più resistenti di altre”. Per esperienza, le persone che mostrano questa resistenza in modo marcato sono sempre le prime da coinvolgere, perché spesso è proprio da un loro mancato o ridotto coinvolgimento che nasce una resistenza che a volte diventa vero e proprio dissenso. Ma una buona organizzazione evolve e cresce molto bene solo se sa includere e valorizzare il dissenso e il pensiero divergente. Il consenso invece va benissimo per alcune limitate decisioni standard tipo “scegliere tre gusti per un cono gelato” dove non tutti mangeranno il loro gusto preferito, ma alla fine tutti mangeranno un gelato… Viceversa, nella maggior parte delle situazioni sono più funzionali l’assenso (assenza di obiezioni motivate) e la garanzia di adeguato coinvolgimento del dissenso che, secondo me, se vissuto onestamente, è assolutamente un valore.

Nei processi di cambiamento non si tratta di accontentare tutti, è impossibile! Piuttosto è importante la volontà di creare spazi dove si discute e si sceglie apertamente, includendo in questo spazio chi in qualche modo viene impattato dal cambiamento. Quando si fanno le cose “di fretta” e “come si è sempre fatto”, ecco, si ha una manifestazione evidente di resistenza al cambiamento che va analizzata con cura con le persone che la agiscono.

6 Quali strumenti utilizzate per coinvolgere il gruppo e raccogliere informazioni preziose per la costruzione di una visione collaborativa? Li trovate efficaci?

Carmen Carulli

Per coinvolgere il gruppo e raccogliere informazioni utili alla costruzione di una visione collaborativa, adottiamo strumenti e metodi che stimolano sia la razionalità sia la creatività.

Oltre al diagramma di affinità e allo stile di lavoro Agile, utilizziamo spazi di lavoro virtuali condivisi come Miro, che permettono a tutti di contribuire in modo visivo e collaborativo, anche a distanza. Per favorire un approccio meno lineare e più intuitivo, impieghiamo strumenti di coaching creativo, come carte ideate ad hoc che stimolano l’immaginazione e aiutano a definire obiettivi non solo con la logica, ma anche lasciando spazio all’istinto.

Gran parte dei nostri collaboratori sono certificati PMP e Coach ICF, il che garantisce un approccio strutturato ai progetti ma anche una sensibilità elevata alla dinamica relazionale. Il coinvolgimento si rafforza ulteriormente attraverso attività di team building all’aperto, che hanno l’obiettivo primario di consolidare la collaborazione e favorire la conoscenza reciproca. Questi momenti creano legami di fiducia autentici, fondamentali per costruire relazioni solide e una vera intelligenza collaborativa.

Riteniamo questi strumenti efficaci perché non si limitano a raccogliere dati o opinioni, ma stimolano la partecipazione attiva e il senso di appartenenza, generando contributi più ricchi e visioni condivise più forti.

Barbara Pizzuco

Non adottiamo strumenti formali o piattaforme digitali complesse, ma ci affidiamo alla potenza delle riunioni interfunzionali citate sopra: sono lo strumento principale per il coinvolgimento del gruppo e la raccolta di informazioni. Questi incontri, a vari livelli, sono il nostro forum per il dialogo aperto. È in questi contesti che i membri del team possono condividere liberamente prospettive, feedback e idee, creando una base solida per la costruzione di una visione collaborativa. Riteniamo che questo approccio sia particolarmente efficace. L’interazione faccia a faccia favorisce la trasparenza e la fiducia, elementi essenziali per far emergere i bisogni del gruppo. Permette inoltre di affrontare in tempo reale eventuali incomprensioni o resistenze, trasformandole in opportunità di allineamento e crescita collettiva. In un contesto in cui la collaborazione è fondamentale, la semplicità e l’efficacia di questi momenti di confronto diretto si rivelano cruciali.

Roberto Veronesi

Strumenti diversi: piano strategico elaborato con i soci di riferimento e il management e successiva presentazione per dare la direzione, raccolta feed back, assegnazione obiettivi a tutte le 200 persone della Fondazione, team building (come accennato in precedenza), incontri orizzontali con tutte le persone della Fondazione in determinate occasioni (inizio anno, semestrale e fine anno (taglio più celebrativo) e verticali per area di ricerca con successiva raccolta feedback. “Porte aperte” per incontri gestionali da parte di HR con le persone che lo richiedono. Contribuiscono a creare senso e costruire una visione collaborativa e di comunità azioni che coinvolgono le persone nelle loro relazioni esterne allo spazio lavoro (vedi ad esempio la giornata “bimbi in ufficio” o “porta e presenta la tua bicicletta in Fondazione”). Si, strumenti “hard e soft”, li riteniamo efficaci, utili a costruire un sistema, una visione.

Penso poi che le organizzazioni debbano imparare a dire dei “SÌ”, più aperte all’ascolto, più attente a cogliere i segnali delle persone: ottimismo, coraggio, gusto del rischio e accettazione dell’errore. Ma il discorso ci porterebbe lontano.

Samuele Bozzoni

Io, personalmente, in contesti di piccoli gruppi utilizzo O.P.E.R.A., un metodo finlandese di brainstorming guidato e inclusivo (chi vuole approfondire può leggere Viola Petrella su Percorsi di Secondo Welfare dell’ 11 Marzo 2024 – online “Collaborare con OPERA: guida alla metodologia per la conduzione efficace di gruppi di lavoro”). Ci sono poi modelli e pratiche come SCRUM e Kanban (e tutto il filone Agile) che facilitano l’autonomia e l’accountability dei team, per arrivare a Holocracy e Sociocracy che impattano direttamente nei processi decisionali e seguono un approccio basato su competenza e prossimità.

In generale i team di lavoro inter funzionali, che hanno l’obiettivo del miglioramento dei processi di una data attività, sono per me la soluzione ottimale perché permettono di superare la logica dei silos e l’ approccio top-down, creando spazi di collaborazione spontanea, autentica e finalizzata al raggiungimento di uno scopo comune, che può voler dire riduzione di costi, miglioramento della qualità, aumento di produttività o della redditività.

7 Quale valore aggiunto attribuite a un processo di change management costruito in modo collaborativo rispetto a uno definito a priori da una leadership verticale?

Carmen Carulli

Un processo di change management costruito in modo collaborativo offre un valore aggiunto che va ben oltre i risultati immediati. Non si tratta solo di ottenere obiettivi condivisi e di qualità, ma di trasformare il modo in cui il cambiamento viene vissuto, compreso e interiorizzato.

Quando il cambiamento nasce dalla partecipazione attiva di chi dovrà implementarlo, il percorso diventa più naturale e organico. Le persone si sentono parte del processo, contribuiscono alla definizione delle soluzioni e ne comprendono il senso: questo riduce resistenze, aumenta l’adesione e crea un impegno autentico. Al contrario, un cambiamento deciso a priori da una leadership verticale — e calato dall’alto — può sembrare rapido all’avvio, ma spesso genera resistenze sotterranee e rischia di essere sovvertito o abbandonato nel medio termine proprio perché non condiviso.

C’è anche una differenza sostanziale sul piano temporale:

  • Approccio collaborativo → genera cambiamenti che durano, consolidano la cultura aziendale e rafforzano il posizionamento dell’organizzazione sul mercato.
  • Approccio verticale tradizionale → può portare risultati immediati, ma spesso effimeri, con il rischio di impatti negativi sulla motivazione interna, sulla reputazione e sulla competitività di lungo periodo.

In un mercato sempre più dinamico, la capacità di costruire il cambiamento con le persone, e non solo per le persone, è ciò che crea un vantaggio competitivo reale e sostenibile.

Barbara Pizzuco

Attribuiamo un valore aggiunto decisivo a un processo di change management costruito in modo collaborativo rispetto a uno definito in modo top-down. Mentre l’approccio verticale può garantire rapidità in situazioni di emergenza, quello collaborativo genera un cambiamento più profondo, duraturo e efficace. Un processo collaborativo trasforma la comunità lavorativa da esecutrice a protagonista attiva del cambiamento. Questo approccio aumenta significativamente il senso di appartenenza e la motivazione, elementi che riducono drasticamente la resistenza. Scomodo anche un po’ di letteratura in materia, a supporto di questa tesi: studi indicano che quando i dipendenti si sentono inclusi nella definizione del cambiamento, la probabilità di successo dell’iniziativa aumenta notevolmente. Ad esempio, una recente ricerca di Gartner suggerisce che le organizzazioni con un approccio collaborativo (open-source) hanno una probabilità di successo fino a 14 volte superiore rispetto a quelle che usano strategie top-down. Inoltre, un approccio collaborativo sfrutta la conoscenza tacita e le esperienze di chi è in prima linea, portando a soluzioni più pragmatiche e innovative. Le decisioni prese collettivamente sono spesso più solide e adattabili perché tengono conto di una gamma più ampia di prospettive. Questo non solo migliora l’implementazione, ma costruisce anche una cultura di fiducia e coesione, rendendo l’organizzazione più resiliente e preparata ad affrontare futuri cambiamenti.

Roberto Veronesi

La costruzione collaborativa di un processo di change management presenta senza dubbio significativi e direi ovvi vantaggi. Credo che la progettazione e realizzazione dipendano però anche o comunque impattino fattori quali la dimensione della organizzazione, i tempi, la struttura di governance con soci e partner. Inoltre, in organizzazioni dove la presenza di neoassunti ad alto livello di istruzione scolastica (laurea, master, dottorati) è rilevante, una leadership verticale focalizzata su aspetti solamente intellettuali ha poca presa sul tessuto organizzativo, risultando lontana dai valori e dal sentire di questi segmenti di popolazione.

Samuele Bozzoni

La gerarchia è ancora utile quando si necessitano delimitate risposte in un ambito molto specifico dove è utile che una persona sola indichi una linea, un percorso, o che dia una risposta. Tuttavia, per me è evidente che nella maggior parte delle situazioni e delle problematiche complesse, è necessario attivare processi decisionali diversi, maggiormente orizzontali e maggiormente circolari, dove lo scambio di informazioni e la valutazione delle possibili soluzioni possono avere un maggior peso rispetto al punto di vista del decisore gerarchico, che magari non è nemmeno nelle condizioni di competenza e prossimità rispetto al problema per poter dire la sua.

Quando si tratta di cambiamento, io ho sempre visto la fatica di dirigenti e manager convinti che basti dire “si fa così da un certo giorno in poi” e la conseguente fatica dei collaboratori nel seguire quelle indicazioni che non sentono loro. I cambiamenti che portano benefici e che sono sostenibili nel tempo richiedono adeguati spazi e percorsi di condivisione, viceversa, più che cambiamento reale si rischia di assistere ad un mantenimento dello “status quo”, il classico “cambiamo tutto per non cambiare niente” che alla fine generalmente serve molto a poche persone e molto poco all’organizzazione.

Conclusioni

In questa ricca conversazione, abbiamo visto come anche nel No Profit sia possibile leggere i processi di Change Management attraverso le lenti dell’Intelligenza Collaborativa.

Carmen Carulli ha sottolineato come una cultura aziendale viva, basata su valori condivisi, permetta al “noi” di prevalere sull'”io”. Un’idea che si concretizza in rituali, mentoring reciproco e un approccio che pone lo sviluppo umano al centro di ogni progetto.

Barbara Pizzuco ha evidenziato come, in un contesto a matrice come quello della Fondazione Don Gnocchi, l’integrazione tra funzioni e la condivisione aperta di numeri e strategie siano essenziali per far emergere i bisogni collettivi. Le competenze tecniche diventano, di fatto, strumenti per realizzare una missione più alta.

Roberto Veronesi ha mostrato come in LINKS, una fondazione di ricerca, i bias culturali vadano accolti e gestiti con dati e confronti aperti, mentre la “resistenza al cambiamento” venga vista come un’energia potenziale da valorizzare.

Infine, Samuele Bozzoni ha condiviso l’esperienza della Cooperativa Agorà, dove la tradizione di équipe e supervisione nel terzo settore dimostra l’efficacia del lavoro di gruppo. Ha insistito sul valore del dissenso e sulla necessità per il management di superare l’immobilismo per accogliere nuovi approcci, un po’ come “le erbacce che crescono in un giardino” per citare Henry Mintzberg.

136 – continua

Puntate precedenti

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE  POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO
22 – OPINION PIECE DI ROBERTO VERONESI
23 – OPINION PIECE DI FRANCESCO GORI
24 – OPINION PIECE DI NELLO BARILE
25 – OPINION PIECE DI LUCA MONACO
26 – OPINION PIECE DI RICCARDO MILANESI
27 – OPINION PIECE DI LUCA CAVALLINI
28 – OPINION PIECE DI ROBERTA PROFETA
29 – UN PUNTO NAVE
30 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CURA)
31 – OPINION PIECE DI NICHOLAS NAPOLITANO
32 – LEADERSHIP POP. VERSO L’YPERMEDIA PLATIFIRM (CONTENT CURATION)
33 – OPINION PIECE DI FRANCESCO TONIOLO
34 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CONVIVIALITA’)
35 – OPINION PIECE DI LUANA ZANELLATO
36 – OPINION PIECE DI ANDREA BENEDETTI E ISABELLA PACIFICO
37 – OPINION PIECE DI STEFANO TROILO
38 – OPINION PIECE DI DAVIDE GENTA
39 – OPINION PIECE DI ANNAMARIA GALLO
40 – INNOVAZIONE POP. ARIMINUM CIRCUS: IL READING!
41 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CONVOCAZIONE)
42 – OPINION PIECE DI EDOARDO MORELLI
43 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CO-CREAZIONE DI VALORE)
44 – OPINION PIECE DI MARIANNA PORCARO
45 – OPINION PIECE DI DONATO IACOVONE
46 – OPINION PIECE DI DENNIS TONON
47 – OPINION PIECE DI LAURA FACCHIN
48 – OPINION PIECE DI CARLO CUOMO
49 – OPINION PIECE DI CARLO MARIA PICOGNA
50 – OPINION PIECE DI ROBERTO RAZETO
51 – OPINION PIECE DI ALBERTO CHIAPPONI
52 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO ANTONINI
53 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA PILIA
54 – OPINION PIECE DI CLEMENTE PERRONE
55 – OPINION PIECE DI FABRIZIO RAUSO
56 – OPINION PIECE DI LORENZO TEDESCHI
57 – OPINION PIECE DI EUGENIO LANZETTA
58 – OPINION PIECE DI GIOLE GAMBARO
59 – OPINION PIECE DI DANTE LAUDISA
60 – OPINION PIECE DI GIAMPIERO MOIOLI
61 – OPINION PIECE DI GIOVANNI AMODEO
62 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO LOTTO
63 – OPINION PIECE DI GIANLUCA BOTTINI
65– OPINION PIECE DI SIMONE FARINELLI
66– OPINION PIECE DI FRANCESCA ANNALISA PETRELLA
67– OPINION PIECE DI VALERIO FLAVIO GHIZZONI
68– OPINION PIECE DI STEFANO MAGNI
69– OPINION PIECE DI LUCA LA BARBERA
70 – INNOVAZIONE POP. ARIMINUM CIRCUS: LA GRAPHIC NOVEL!
71 – LEADERSHIP POP. APOFATICA E CATAFATICA DELLA COMUNICAZIONE
72 – OPINION PIECE DI FEDERICA CRUDELI
73– OPINION PIECE DI MELANIA TESTI
74 – OPINION PIECE DI GIANMARCO GOVONI
75– OPINION PIECE DI MARIACHIARA TIRINZONI
76 – SENSEMAKING POP. LODE DELLA CATTIVA CONSIDERAZIONE DI SE’
77 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA CAPPELLO E ALESSANDRA MAZZEI
78 – OPINION PIECE DI JOE CASINI
79 – OPINION PIECE DI MARTA CIOFFI
80 – STORYTELLING POP. VERSO IL POP BRANDING (PARTE PRIMA)
81 – STORYTELLING POP. VERSO IL POP BRANDING (PARTE SECONDA)
82 – STORYTELLING POP. VERSO IL POP BRANDING (NOTE A MARGINE)
83 – ENGAGEMENT POP. IL MANAGER INGAGGIANTE IMPARA DAI POKEMON
84 – ENGAGEMENT POP. DARE VOCE IN CAPITOLO
85 – ENGAGEMENT POP. COMUNICARE, VALUTARE, TRASFORMARE
86 – SENSEMAKING POP. MALATTIA MENTALE E BENESSERE PSICOLOGICO SUL LAVORO
87 – SENSEMAKING POP. FOLLIA O DIVERSITA’?
88 – OPINION PIECE DI LUIGIA TAURO
89 – OPINION PIECE DI NILO MISURACA
90 – OPINION PIECE DI FRANCESCO DE SANTIS
91 – INNOVAZIONE POP. REMIX, RI-USO, RETELLING
92 – STORYTELLING POP. ARIMINUM CIRCUS AL BOOK PRIDE 2025
93 – OPINION PIECE DI SIMONE VIGEVANO
94 – OPINION PIECE DI LORENZO FARISELLI
95 – OPINION PIECE DI MARTINA FRANZINI
96 – OPINION PIECE DI EMANUELA RIZZO
97 – INNOVAZIONE POP. OLTRE LA PRE-INTERPRETAZIONE
98 – INNOVAZIONE POP. FORMAZIONE: ANALOGICA, METAVERSALE, IBRIDA
99 – ARIMINUM CIRCUS: LA VISUAL NOVEL!
100 – La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE PRIMA)
101 – La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE SECONDA)
102 – La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE TERZA)
103– La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE QUARTA)
104– La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE QUINTA)
105– OPINION PIECE DI ALEXANDRA NISTOR
106– FORMAZIONE POP. PARTE PRIMA
107– FORMAZIONE POP. PARTE SECONDA
108– OPINION PIECE DI FEDERICA GRAZIA BARTOLINI
109– OPINION PIECE DI FEDERICO PLATANIA
110– OPINION PIECE DANIELA DI CIACCIO
111– OPINION PIECE DI LUCIANA MALARA E DONATELLA MONGERA
112– IL RITORNO DEL CEOPOP
113– LA VISIONE DEI CEOPOP (VOLUME 1)
114– LA VISIONE DEI CEOPOP (VOLUME 2)
115 – LA COMUNICAZIONE DEL CEOPOP
116– CEOPOP E PARTI SOCIALI
117– CHE POP MANAGER SEI? L’ESTETA
118– STORYTELLING POP. UNA COMUNICAZIONE POP PER IL NON PROFIT
119– CHE POP MANAGER SEI? VISIONARIO/VISIONARIA
120– OPINION PIECE DI REMO PONTI
121– CHE POP MANAGER SEI? EMPATICA/EMPATICO
122– OPINION PIECE DI GIACOMO GRASSI
123– CHE POP MANAGER SEI? INNOVATORE/INNOVATRICE
124– SECONDA CONVERSAZIONE COLLABORATIVA SUL POP BRANDING
125– CHE POP MANAGER SEI? SIMPOSIARCA
126– SENSEMAKING POP. UNA NUOVA GRAMMATICA DEL LAVORO (1)
127– CHE POP MANAGER SEI? ESPLORATORE/ESPLORATRICE
128– SENSEMAKING POP. UNA NUOVA GRAMMATICA DEL LAVORO (2)
129– CHE POP MANAGER SEI? IRONIC DIVA/DIVO
130– SENSEMAKING POP. UNA NUOVA GRAMMATICA DEL LAVORO (3)
131– CHIUSI PER FERIE
132– OPINION PIECE DI ELENA BOBBOLA E MARIE LOUISE DENTI
133– CHE POP MANAGER SEI? PRATICO/PRATICA
135- L’INTELLIGENZA COLLABORATIVA MOTORE POP DEL CHANGE MANAGEMENT – INDUSTRIA
136- L’INTELLIGENZA COLLABORATIVA MOTORE POP DEL CHANGE MANAGEMENT – NO PROFIT