Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 134. L’Intelligenza Collaborativa motore pop del Change Management. Parte prima, Industria

Nel contesto aziendale odierno, il Pop Management propone un approccio che attinge al dinamismo e alla vivacità della cultura pop, rompendo con i modelli gestionali rigidi e gerarchici del passato, per fare dell’azienda un ecosistema vivente, una comunità interconnessa dove l’energia e la creatività fluiscono liberamente.

Al centro di questo paradigma si pone l’Intelligenza Collaborativa, che unisce e supera tre dimensioni classiche — collettiva (Lévy), connettiva (de Kerckhove) ed emotiva (Goleman). È cioè un modo di decidere e produrre valore che integra tre piani: la dimensione collettiva (la conoscenza distribuita), quella connettiva (reti e strumenti che fanno circolare i contributi) e quella emotiva (fiducia, ascolto, sicurezza psicologica). Quando queste leve vengono progettate insieme, il change management smette di essere un intervento episodico e diventa una pratica continua che riguarda la cultura, non solo i processi.

Alessandro Lotto, con cui condurrò il prossimo laboratorio Pop il 23 settembre presso il centro di formazione della BNL, ha sviluppato questa tema focalizzandosi sull’Intelligenza Collaborativa intesa come motore dei processi di change management, attraverso una conversazione diretta e stimolante con una quindicina di esperti di risorse umane operanti nel settori Industria, Servizi e no profit.

In questo Prolegomeno ci focalizzeremo sulle risposte date da manager HR operanti nel settore industriale: Ida De Falco di Rollon, Danilo De Lumè, Romana Garavet di Argotec, Silvia Preti di BMI Italia e Roberta Esposito di Wycon Cosmetcs. Le stesse domande sono state rivolte a manager del no profit e dei servizi: vi proporremo le loro risposte in due puntate successive.

I nostri interlocutori ci guideranno in una riflessione su come creare contesti che permettano ai bisogni collettivi di emergere, su come bilanciare le dimensioni emotive e razionali, e su come gestire i “resistenti” al cambiamento, non come ostacoli, ma come preziose fonti di feedback.

La conversazione che segue mette a fuoco sei snodi operativi: come far emergere i bisogni del gruppo; come bilanciare dimensione esistenziale (valori, emozioni, senso) e intellettuale (competenze, conoscenze, obiettivi); come generare azioni evolutive grazie all’intelligenza collaborativa; come gestire bias e resistenze; quali strumenti adottare; quale valore produce un change management costruito con le persone.

1. Come create, nella vostra organizzazione, gli spazi e i contesti necessari perché i bisogni del gruppo possano emergere e coesistere con quelli individuali?

Ida De Falco

Creare contesti in cui i bisogni del gruppo emergano significa lavorare su due livelli: uno strutturale e uno culturale. Sul piano strutturale utilizzo strumenti come workshop di co-design, team meeting facilitati e momenti di retrospettiva, in cui ogni voce è legittimata e l’ascolto è protetto. Sul piano culturale, promuovo una leadership inclusiva che non si limita a “decidere per” , ma a “decidere con”. In questo modo i bisogni collettivi non soffocano quelli individuali, ma li integrano, trasformandoli in obiettivi comuni. È fondamentale facilitare il dialogo con tecniche di partecipazione attiva e far percepire che i contributi hanno un impatto concreto; in questo modo le persone comprendono che l’energia collettiva ha più valore della somma dei singoli interessi. Ho visto team cambiare radicalmente prospettiva quando hanno compreso che il loro contributo non veniva inglobato in una logica individualistica, ma diventava motore di innovazione per tutti.

Danilo De Lumè

Nelle mie esperienze lavorative ho sempre cercato di creare momenti informali di scambio, contesti sicuri e se possibile piacevoli, in cui le persone potessero esprimere bisogni, idee e timori senza il rischio di essere giudicate. Da “filosofo” delle organizzazioni ritengo che la sospensione del giudizio, quella che i filosofi chiamavano “epoché” sia necessaria per far emergere i bisogni del gruppo, la creazione di un ambiente lavorativo positivo e di una zona di sicurezza dove poter sbagliare è fondamentale.  Quindi per me gli spazi ed i contesti non sono solo sale riunioni e workshop, ma veri e propri ambienti culturali: rituali condivisi, momenti di confronto facilitati (ricordo a me stesso che il mestiere di Hr manager è quello di facilitare), ho utilizzato spesso canvas, Legos Serious Play e piattaforme digitali.

Romana Garavet

Noi lavoriamo su diversi livelli che in sintesi sono:

Heritage di collaborazione
Favoriamo un ambiente collaborativo attraverso una serie di iniziative sia strutturate che informali. Organizziamo regolarmente incontri come Sprint Meetings, workshop interni e sessioni di brainstorming per facilitare il dialogo e la condivisione di idee tra colleghi di aree diverse e con inquadramenti differenti: questa modalità permette di arricchire spunti, visioni e valorizzare una contaminazione orizzontale utile a riflessioni e integrazioni reciproche. Un format che rappresenta bene il nostro approccio è Call 4 Ideas: vere e proprie challenge aperte su temi di interesse collettivo, in cui ogni persona può proporre soluzioni e idee. Inoltre, ogni quadrimestre teniamo i nostri Town Hall Meetings, momenti corporate aperti a tutta l’organizzazione, in cui condividiamo aggiornamenti aziendali e incoraggiamo il confronto. Stiamo anche portando avanti progetti di coinvolgimento attivo delle nostre risorse, per renderli partecipi e responsabili delle scelte che intervengono sulla cultura e sui valori aziendali

Luoghi inclusivi
I nostri spazi di lavoro sono progettati per stimolare la collaborazione e il confronto costante: open space, aree progettuali dedicate e ambienti flessibili che incoraggiano lo scambio di idee. Utilizziamo anche strumenti digitali per raccogliere feedback in modo continuativo, come la nostra app di clima aziendale, che consente a ciascuno di contribuire attivamente alla costruzione di un ambiente sempre più partecipativo e sereno, monitorando il coinvolgimento della popolazione aziendale ed eventuali feedback e consigli. Abbiamo anche superato barriere di genere in ambienti lavorativi: i servizi igienici, ad esempio, non hanno genere per incontrare la sensibilità di ciascuno.

Strumenti di comunicazione collaborativa
Utilizziamo piattaforme digitali collaborative per condividere informazioni e aggiornamenti, favorendo una comunicazione trasparente e continua tra tutti i livelli aziendali. Questo approccio ci consente di mantenere un allineamento costante e di valorizzare il contributo di ogni persona.

Leadership partecipativa
Crediamo e incentiviamo in una leadership orientata all’ascolto e alla valorizzazione delle persone, capace di creare contesti in cui il feedback è accolto e tradotto in azioni concrete. Promuoviamo processi decisionali inclusivi, coinvolgendo attivamente le persone nella definizione dei piani formativi, in piani di crescita e nella selezione di nuove figure.

Formazione e sviluppo

Investiamo in programmi di formazione che non solo sviluppano competenze tecniche e soft skills, ma rafforzano anche il senso di responsabilità condivisa e di appartenenza alla cultura aziendale. Promuoviamo anche corsi, master e training esterni, in Italia e all’estero, per valorizzare il profilo professionale delle nostre risorse, dando opportunità di crescita trasversali e internazionali. Una attenzione particolare è rivolta anche alla gender equality, per riservare percorsi a tutte le persone, senza esclusione alcuna.

Silvia Preti

Il team è ormai diventata l’unità elementare di performance e la collaborazione una questione di sopravvivenza per le aziende. Molto spesso la si confonde con la cooperazione, ma il livello di sinergia è molto più basso in questo caso: la vera collaborazione nasce dalla messa a fattor comune di competenze e idee per generare un risultato che condensa il contributo di tutti offrendo un maggior valore aggiunto rispetto alle proposte dei singoli, per quanto valide. Il concetto di collaborazione presuppone quindi un legame di interdipendenza tra i partecipanti, la cui intensità si misura su:

  1. Frequenza delle interazioni;
  2. Quantità di attività oggetto della riflessione collettiva;
  3. Influenza sulle attività.

Stando così le cose, è necessario che il team possa percorrere un po’ di strada insieme, conoscersi, ritagliarsi un ruolo e un’identità. In “Lavorare è collaborare” Sebastiano Zanolli individua alcuni elementi base della collaborazione: incentivi, visione, competenze, risorse e pianificazione. Tutti questi elementi devono essere integrati per poter far nascere in azienda una vera e propria cultura collaborativa.

Nella mia esperienza è opportuno partire da bisogni reali dell’organizzazione, ovvero da progetti o iniziative di sviluppo in cui coinvolgere un team di lavoro eterogeneo, al quale esplicitare la missione assegnata e consegnare un vero e proprio metodo di lavoro. In alcuni casi è consigliabile definire top-down anche ruoli specifici, in altri è sufficiente stabilire tempistiche, rituali settimanali agile di incontro e format documentali, per poi lasciar emergere spontaneamente l’identità dei singoli nel team.

A me è capitato di facilitare questo tipo di esperienze, senza entrare nello specifico flusso operativo, ma contribuendo a riportare focus sull’obiettivo comune e moderando l’emotività nella posizione privilegiata di osservatrice esterna. Credo che non sia possibile avere successo, soprattutto nel caso di team di nuova formazione, se non si investe sulla moderazione del lavoro di squadra: uno specchio esterno può fare la differenza, soprattutto nelle fasi più congestionate del progetto. Il feedback costante, in questo, è la risorsa più decisiva per sviluppare le persone all’interno del team.

Roberta Esposito

Credo che un team dia il meglio quando le persone si sentono libere di parlare e confrontarsi. I momenti di dialogo sono fondamentali affinché i bisogni collettivi possano emergere spontaneamente. Trasformare le esigenze individuali in soluzioni condivise non è solo pratico ma è il modo in cui si costruisce coesione e si rafforza l’efficacia delle decisioni. Ascolto attivo e trasparenza diventano così leve concrete di crescita per il gruppo e per l’organizzazione.

2. Quando valutate i bisogni collaborativi, quanto peso date alla dimensione esistenziale (valori, emozioni, senso) rispetto a quella puramente intellettuale (competenze, conoscenze, obiettivi)?

Ida De Falco

Nella valutazione dei bisogni collaborativi ritengo imprescindibile bilanciare dimensione esistenziale ed intellettuale: competenze e gli obiettivi guidano la performance, ma sono valori, senso di appartenenza ed emozioni a sostenere nel lungo periodo la motivazione. Nella mia esperienza, lavorare sul riconoscimento delle emozioni e sull’allineamento valoriale ha generato team molto più resilienti e performanti. Credo che la vera sfida HR oggi sia integrare questi due livelli: non scegliere tra tecnica ed emozione, ma farli convivere in modo armonico, perché solo così il gruppo sviluppa una collaborazione autentica e duratura.

Danilo De Lumè

Competenze e conoscenze sono fondamentali, ma non sufficienti. Un team che lavora solo con la testa produce, un team che integra anche emozioni e valori è ingaggiato ed è capace di fare cose straordinarie. La dimensione esistenziale è il collante per l’engagement in azienda e trasforma la somma di competenze in forza ed energia collaborativa. È lì che nasce innovazione, motivazione e appartenenza. Certamente le aziende guardano alle persone in primis come a portatori di competenze: il programmatore che sa scrivere codice, il commerciale che sa vendere, il project manager che sa coordinare. Ma non è lì che si gioca la partita del lavoro contemporaneo. Il vero salto avviene quando si riesce a mettere al centro la dimensione esistenziale, cioè i valori che ci muovono, le emozioni che ci attraversano, il senso che attribuiamo al nostro lavoro. Il purpose, questo termine che da qualche anno ci accompagna come addetti ai lavori. Nelle valutazioni dei bisogni collaborativi, a mio avviso, questa dimensione vale almeno quanto – se non di più – di quella intellettuale. Se le organizzazioni non riescono a toccare queste corde finiscono per perdere le persone e di conseguenza le competenze di chi ha più talento.

Romana Garavet

Assolutamente, in Argotec crediamo profondamente che questo approccio favorisca una maggiore coesione e motivazione all’interno del team, alimentando un senso di appartenenza e uno scopo condiviso — elementi fondamentali per affrontare sfide complesse e progetti ad alto impatto tecnologico e innovativo, che rappresentano il cuore del nostro business.

La combinazione tra dimensioni esistenziali e intellettuali dà vita a un vero e proprio “ecosistema di collaborazione intelligente”, in grado di promuovere innovazione, resilienza e crescita, tanto per le persone quanto per l’organizzazione.

Per noi è fondamentale sviluppare strumenti e contesti in grado di liberare il potenziale delle persone che lavorano in Argotec.  Come ci piace dire:

“La nostra missione dovrebbe essere quella di trasformare Diana Prince e Clark Kent in Wonder Woman e Superman.”

Silvia Preti

Personalmente credo che non sia possibile non dare peso alla dimensione esistenziale di un team, neppure volendolo, perché questa è destinata ad affiorare spontaneamente.

Il passaggio da gruppo a team, infatti, non avviene in modo spontaneo e naturale.

Spesso nelle organizzazioni, a seguito di percorsi di cambiamento o fasi di discontinuità, si tende a rimescolare le carte, anzi le persone, senza prevedere alcun intervento di accompagnamento per i nuovi team nascenti. Così le attese in termini di performance ed integrazione vengono frequentemente deluse ed è facile abbandonarsi ad un nostalgico “si stava meglio prima”.

L’ho sperimentato all’interno del team HR, dove, dopo l’uscita di una risorsa storica avviata verso una nuova tappa di sviluppo professionale, l’abbandono di una senior di riferimento e l’ingresso di una giovane collega mediante Job Posting interno, si rendeva necessario ri-fondare la squadra, facilitando la costruzione di un nuovo equilibrio operativo e accelerando la conoscenza reciproca.

Dopo un percorso di incontri individuali a cadenza mensile, nei quali ho invitato ciascun membro del team ad affrontare con me aspetti relativi all’area del benessere e dello sviluppo personale, ho deciso di dedicare gli ultimi due incontri dell’anno allo sviluppo di una retrospettiva a due livelli, personale e di team, che potesse supportare la creazione della nuova identità condivisa.

Sono partita da un canvas “Wall of Ideas”, che invitasse a condividere frasi, testi o meme rilevanti per ciascuno ed a spiegarne il significato. Grazie a questo è stato possibile evidenziare in restituzione i valori, le convinzioni e gli atteggiamenti comuni per poi distillare in una sessione di team finale una vera e propria Team Identity Card, con tanto di mission, claim e keywords di riferimento. Questo ID di team è stato appeso in ufficio per visualizzare il percorso fatto insieme e mantenere viva la riflessione sulla dimensione esistenziale di tutte le componenti del team.

Roberta Esposito

Sono convinta che i valori, le emozioni e il senso di appartenenza sono il cuore di un team. Competenze e obiettivi restano fondamentali per il successo di un’organizzazione, ma senza la dimensione umana la collaborazione rischia di rimanere superficiale e poco duratura. Creare fiducia e riconoscimento permette alle strategie di radicarsi davvero in quanto la leadership più efficace è quella che parla al cuore e alla testa allo stesso tempo.

3. Ritenete che l’intelligenza collaborativa – intesa come la sintesi tra la dimensione esistenziale e quella intellettuale del team – possa realmente generare azioni evolutive per il contesto organizzativo e culturale?

Ida De Falco

Ritengo che l’intelligenza collaborativa non sia un concetto astratto, ma un asset tangibile di evoluzione organizzativa e culturale. Quando competenze e valori vengono intrecciati, il gruppo sviluppa una nuova forma di pensiero che supera la logica lineare del singolo. Team capaci di bilanciare dati e sensibilità, analisi ed intuizione, riescono a proporre soluzioni più innovative ed adattabili; questo si traduce non solo in miglioramenti operativi, ma in un cambiamento culturale più profondo: le persone non si limitano a “fare meglio” , ma iniziano a “pensare diversamente”. È in questo shift che nasce la vera sostenibilità del cambiamento. Queste dinamiche generano un circolo virtuoso perché le persone si sentono parte di un progetto più grande ed aumentano così notevolmente la resilienza e l’ innovazione.

Danilo De Lumè

Se ci fermiamo a pensare, l’intelligenza collaborativa è ciò che ci ha fatto evolvere come specie. Non il più forte, non il più veloce, ma chi ha saputo cooperare è sopravvissuto e ha creato comunità. Nelle organizzazioni è lo stesso: l’intelligenza collaborativa, intesa come la sintesi tra logica e senso, tra competenze e valori, tra ragione ed emozione, è la vera spinta evolutiva. È lì che accadono i passaggi più significativi: nei progetti che nascono dal confronto, nelle decisioni che tengono conto di prospettive differenti, nella capacità di ascoltare non solo i numeri ma anche le storie. L’intelligenza collaborativa non è compromesso, ma moltiplicazione: qualcosa che porta il gruppo un passo oltre quello che ciascuno, da solo, potrebbe fare.

Romana Garavet

In Argotec crediamo che l’intelligenza collaborativa sia una leva strategica per l’evoluzione del nostro contesto organizzativo e culturale.

La sintesi tra la dimensione esistenziale – fatta di valori, motivazioni e vissuti personali – e quella intellettuale – competenze, pensiero critico e capacità analitiche – genera un ambiente di lavoro autentico, inclusivo e fertile, capace di favorire l’innovazione in modo naturale e sostenibile.

Dal punto di vista aziendale, questo approccio si traduce in maggiore collaborazione e senso di appartenenza. Quando le persone si sentono riconosciute nella loro interezza, emergono dinamiche relazionali più profonde e costruttive, fondamentali per alimentare la creatività e affrontare con efficacia la complessità dei progetti.

L’innovazione sostenibile, fondata sulla contaminazione di prospettive diverse, consente di sviluppare soluzioni più aderenti alle sfide reali. Allo stesso tempo, la leadership diffusa, espressione concreta dell’intelligenza collaborativa, promuove una cultura del contributo condiviso, valorizzando il potenziale di ciascuno.

In questo modo si supera la logica puramente prestazionale per abbracciare una visione evolutiva, in cui il successo è misurato anche in termini di crescita personale e collettiva.

In sintesi, per Argotec l’intelligenza collaborativa non è un paradigma teorico, ma una pratica quotidiana che trasforma il modo in cui le persone apprendono, si realizzano e creano valore all’interno dell’organizzazione.

Silvia Preti

Ne sono personalmente convinta.

Se per collaborazione intendiamo “Lavorare insieme, non solo accettando la responsabilità operativa sul proprio ambito di lavoro, ma contribuendo anche a definire le modalità condivise di gestione delle priorità, organizzazione e gestione dell’intero flusso di attività.”, possiamo facilmente comprendere che non si tratta solo di ampliare lo scope del “saper fare” ovvero della conoscenza applicata, ma anche del “saper essere”, ovvero del modo in cui ci si relaziona al compito e si gestiscono le relazioni. Per questo la collaborazione implica un grande lavoro di auto-coscienza, ovvero di consapevolezza di come funzioniamo personalmente, affinchè possano emergere punti di tangenza o aree di complementarietà con altri.

All’interno dei team che collaborano, si possono distinguere diversi archetipi comportamentali, come illustra bene Sebastiano Zanolli.

  • LIBERO BATTITORE: Se lo faccio da solo, faccio prima.
  • LEADER ISTINTIVO: E’ meglio fare subito qualcosa che aspettare troppo.
  • PAZIENTE CRITICO: Ma hai davvero pensato a tutti gli aspetti? E se invece…?
  • FAN DEI CAVILLI: Eh, ma questo è importante, lo stiamo sottovalutando.
  • FANATICO DELL’INNOVAZIONE: Cosa succede se proviamo a fare qualcosa di completamente diverso?
  • DIPLOMATICO: Penso che possiamo trovare un compromesso che funzioni per tutti.

Come è facile comprendere, nessuno degli atteggiamenti tipizzati in elenco è vincente in sé, ma richiede di essere contemperato dagli altri per produrre valore sul piano culturale e operativo.

Roberta Esposito

Assolutamente. L’intelligenza collaborativa nasce quando un team integra conoscenze, competenze e valori in una sintesi condivisa. Ho osservato come l’assenza di questa capacità possa compromettere lo sviluppo dei progetti, mentre la sua applicazione favorisca risultati significativi e duraturi. In questo modo, le decisioni diventano più solide e la cultura organizzativa più aperta e partecipativa.

4. Qual è il vostro approccio nella gestione dei bias cognitivi e culturali del gruppo? Scegliete di assecondarli, neutralizzarli o farli emergere come una leva di consapevolezza?

Ida De Falco

A mio parere i bias cognitivi e culturali sono inevitabili e non andrebbero né assecondati né neutralizzati: andrebbero resi visibili. Ignorarli significherebbe rinunciare a comprendere la profondità delle dinamiche umane. Nella mia esperienza è stato utile creare contesti in cui il gruppo possa “osservarsi dall’esterno”, riconoscendo stereotipi ed automatismi che influenzano decisioni e relazioni. È un lavoro delicato, perché tocca identità e culture implicite, ma porta ad una consapevolezza trasformativa. Quando il team capisce che i bias non sono un difetto individuale ma un fenomeno collettivo, nasce un senso di responsabilità e consapevolezza condivisa nel superarli. In alcune circostanze è stato utile l’utilizzo di “role playing” che hanno reso evidente come stereotipi e pregiudizi influenzino le decisioni. Questo percorso non elimina i bias, ma li rende governabili: il team impara a riconoscerli ed a costruire “anticorpi” organizzativi che ne riducono l’impatto.

Danilo De Lumè

I bias fanno parte di noi. Non sono semplici difetti, ma il modo con cui il nostro cervello si orienta nella complessità. Ignorarli o provare a neutralizzarli non ha senso a mio avviso. Quando mi trovo a lavorare con un team cerco di portarli alla luce, trasformarli in occasione di consapevolezza. Se un team riconosce i propri bias culturali e cognitivi può imparare a gestirli. E una volta che li si è resi visibili, è più facile decidere quando assecondarli, quando superarli, quando usarli per allargare il punto di vista. In questo senso, i bias diventano non un ostacolo, ma un alleato del cambiamento.

Romana Garavet

Cerchiamo di far emergere i pregiudizi e di gestirli con consapevolezza, riconoscendoli come opportunità di crescita e di miglioramento del processo decisionale. Le retrospettive, prese a prestito dal metodo “Agile” e condotte regolarmente sui progetti per verificarne lo stato di avanzamento e favorire il miglioramento continuo, rappresentano un esempio concreto di questo approccio.
Per trasformare questi principi in azioni concrete, abbiamo istituito un comitato DE&I (Diversity, Equity & Inclusion), il cui obiettivo va oltre la semplice tutela della diversità: promuove azioni attive per smantellare stereotipi culturali e rimuovere le barriere che possono ostacolare l’inclusione, con l’ambizione di creare un ambiente di lavoro in cui ogni persona si senta valorizzata, libera di esprimere il proprio potenziale e capace di contribuire, con le proprie unicità, al raggiungimento degli obiettivi comuni.

Silvia Preti

Da coach sono consapevole che bias e distorsioni cognitive siano intrinseche al pensiero umano. Pertanto, volendole gestire, devono essere fatte emergere. In termini individuali, ci sono alcune domande che è corretto porsi come autoverifica a conclusione di specifiche fasi di lavoro. A livello collettivo, nelle riunioni di chiusura di una milestone, è sempre opportuno porre ad alta voce interrogativi scomodi, così da provocare una riflessione collettiva che possa corroborare o correggere l’output raggiunto.

Penso soprattutto ai bias più ricorrenti nel mondo lavorativo (zero-risk bias, self-serving bias, bias dei costi sommersi o in-group bias) e a domande quali:

  1. Decidiamo ritenendo le informazioni in possesso le uniche esistenti? Stiamo considerando la parzialità delle nostre informazioni?
  2. Ci stiamo ancorando a qualcosa di noto per interpretare quello che stiamo vedendo o leggendo? Stiamo semplificando troppo?
  3. Ci siamo fidati troppo del nostro istinto? Abbiamo verificato a sufficienza la fondatezza delle nostre intuizioni?
  4. In che misura il contesto sta influenzando la nostra interpretazione del fenomeno? Abbiamo scelto fonti sufficientemente variegate?

Roberta Esposito

Sostengo che i bias non siano ostacoli da ignorare, ma segnali da riconoscere. Attraverso confronto e dialogo questi possono emergere, essere analizzati e trasformati in strumenti di consapevolezza. Analizzare pregiudizi e punti ciechi permette al team di prendere decisioni più equilibrate favorendo una cultura aperta al cambiamento e al successo nei processi di change management.

5. Come interpretate il ruolo del ‘resistente al cambiamento’? Lo considerate un ostacolo da superare o una figura potenzialmente generativa di energia e consapevolezza per l’organizzazione?

Ida De Falco

Nella mia esperienza, dietro la resistenza ho riscontrato spesso paure, bisogni di chiarezza o semplicemente esperienze negative passate. Vedere il “resistente al cambiamento” come ostacolo significa perdere un’occasione di apprendimento. Il “resistente” se coinvolto con ascolto autentico, diventa promotore attivo del cambiamento, proprio perché il suo percorso di trasformazione ispira gli altri. Non sono figure da “convincere” , ma da integrare: rappresentano la coscienza critica che rafforza la solidità del processo. In un’esperienza concreta paradossalmente, è stato proprio il resistente a diventare punto di riferimento per i colleghi, dimostrando che la resistenza, se accolta, può trasformarsi in energia costruttiva e in garanzia di maggiore consapevolezza collettiva.

Danilo De Lumè

Ogni organizzazione o team ha una o più persone resistenti al cambiamento. Si riconoscono subito: sono quelli che davanti a ogni proposta nuova alzano la mano e dicono “abbiamo sempre fatto così”. Spesso il resistente viene percepito come un problema, un ostacolo da aggirare. Ma in realtà il resistente porta con sé un valore nascosto: è il termometro delle paure e delle insicurezze che il resto del gruppo magari non ha il coraggio di esprimere. Se ascoltato, diventa il portavoce di bisogni sommersi, e questo può aiutare a rendere il cambiamento più autentico, più radicato. Non è facile, certo: ci vuole pazienza, empatia e capacità di trasformare la resistenza in dialogo. Io credo che si debba sempre iniziare a trattare i resistenti per primi. Portarli dalla nostra parte trasforma il resistente da muro a motore di cambiamento.

Romana Garavet

L’”agente provocatore”, come il resistente al cambiamento è uno strumento utile per approcciare il cambiamento sotto una luce diversa e un punto di vista costruttivo. Anziché considerarlo un ostacolo da superare, cerchiamo di capire e di valorizzarlo come una figura potenzialmente generativa di energia e maggiore consapevolezza per la popolazione aziendale e l’organizzazione, stimolando riflessioni profonde e facilitando un cambiamento più autentico, collaborativo e condiviso, rispettando e integrando le idee e le opinioni altrui.

Silvia Preti

La resistenza al cambiamento è una voce utile in tutti i contesti, individuali od organizzativi. Recentemente, su HCE international, leggevo un contributo di Paolo Borzacchiello che commentava l’uso della locuzione dubitativa “sì, ma…”, che di solito emerge dalla nostra voce interna quando ci troviamo a ridosso di un cambiamento, di una novità. Spesso emerge anche in azienda, quando si tratta di percorrere una strada nuova o abbracciare il cambiamento strumentale, procedurale e perfino strategico.

Il “sì, ma” può essere un road block incredibile, perché mette in primo piano i rischi di una nuova azione, offrendo alibi utili a tirarsi indietro. Oppure il “sì, ma…” può diventare pungolo per scavare le vere motivazioni al cambiamento, che non siano soltanto moda o aderenza a indirizzi gestionali già presi; in questo caso valorizzare la critica permette di arrivare alle ragioni ultime, e quindi alle motivazioni ultime, per le quali il cambiamento è allineato agli scopi che si intendono raggiungere. Un approccio molto simile all’ingegneristico metodo dei 5 perché, utilizzato in ambito qualità; in questo caso si tratta, invece, di mettersi alla prova con i 5 perché no: un approccio molto utile che mi ricorda anche la tecnica del capovolgimento per validare un’idea.

Roberta Esposito

Chi resiste al cambiamento offre un punto di vista prezioso evidenziando criticità e prospettive trascurate. Trovo particolarmente stimolante confrontarmi con chi esprime resistenza in quanto affrontarla con ascolto e dialogo trasforma potenziali ostacoli in energia positiva, favorendo riflessione e generando soluzioni più solide. In questo senso, la resistenza diventa una leva di consapevolezza e crescita per l’intera organizzazione.

6. Quali strumenti utilizzate per coinvolgere il gruppo e raccogliere informazioni preziose per la costruzione di una visione collaborativa? Li trovate efficaci?

Ida De Falco

Gli strumenti che utilizzo spaziano dal quantitativo al qualitativo: survey anonime per intercettare percezioni sincere, workshop di co-creazione per stimolare confronto diretto, e pratiche di storytelling organizzativo per dare senso al percorso. Ma ciò che fa davvero la differenza non è lo strumento, bensì la restituzione. Un team che vede tradotti i propri feedback in azioni concrete sviluppa fiducia e si sente parte attiva della visione. Quando invece gli strumenti rimangono fine a sé stessi, diventano controproducenti. Per questo insisto sempre su trasparenza e coerenza: l’ascolto deve produrre cambiamenti tangibili, altrimenti si svuota di credibilità.

Danilo De Lumè

Gli strumenti sono tanti, e cambiano con i contesti: dal brainstorming facilitato alle survey digitali, dagli hackathon alle community interne, fino agli strumenti di gamification che rendono la partecipazione un’esperienza divertente e motivante. Ma non basta introdurre lo strumento giusto: serve coerenza. Un hackathon che non porta a decisioni concrete è un esercizio di stile. Una survey i cui risultati finiscono in un cassetto è solo tempo sprecato. La vera efficacia non sta nello strumento in sé, ma nella fiducia che si costruisce attorno a esso. Se le persone vedono che ciò che condividono viene preso sul serio, che le loro idee hanno conseguenze reali, allora si attivano davvero. Io utilizzo molto la gamification, è un vero e proprio processo, ne parlo nel mio libro Gamify HR: rivoluzionare le organizzazioni con la Gamification, edito da Egea.

Romana Garavet

Adottiamo piattaforme e applicazioni che facilitano i processi collaborativi e la raccolta di feedback e idee, come l’intranet aziendale e strumenti quali Jira e Mentimeter. Oltre ovviamente a momenti di incontro aperti alla popolazione aziendale, sempre molto utili.

Silvia Preti

Come è già emerso in precedenza, utilizzo in particolare gli strumenti del coaching. Nello specifico domande aperte e ascolto attivo all’interno di sessioni di lavoro collettive oppure individuali. Non solo. Il primo passo per promuovere la collaborazione è quello di adottare, da leader in azienda, atteggiamenti collaborativi e dare concretamente l’esempio. Lo si può fare in molti modi, alcuni davvero semplici, ad esempio chiedendo sempre al termine di una sessione di lavoro “Cosa avresti fatto di diverso?” oppure “Quanto sei soddisfatto di ciò che abbiamo realizzato insieme? Perché”. Anche al termine di mail di approvazione / revisione del lavoro, trovo utile domandare “Come ti pare? Cosa ne pensi?”. Questa continua apertura verso l’ascolto del punto di vista altrui deve poi trovare compendio nell’effettiva integrazione di altri approcci all’interno del proprio elaborato. In questo modo la “collaborazione strategica” può convertirsi in “collaborazione tattica”, le cui dimensioni sono la presenza di processi, strumenti e metodi che favoriscono la collaborazione (es. riunioni periodiche, agile call, funzioni di coediting, spazi collaborativi online), misurati in base all’utilizzo effettivo ed al numero di persone coinvolte. In un’azienda potrebbe esserci infatti un piccolo nucleo molto collaborativo all’interno di un ambiente fortemente individualista, oppure il contrario. Infine, si può scendere a livello operativo, prendendo in analisi il numero di solleciti tra membri del team o la qualità delle risposte scambiate in un team di lavoro. Tutte queste dimensioni, soft ma con un impatto molto concreto, sono misurabili grazie al digitale, ma emergono anche all’interno di conversazioni periodiche e aperte con la leadership.

Roberta Esposito

Per costruire una visione condivisa la partecipazione ad eventi, one to one, survey, brainstorming, meeting interattivi e piattaforme digitali sono fondamentali. Non servono solo a raccogliere informazioni, ma a rafforzare fiducia e senso di appartenenza per guidare il team verso un cambiamento realmente sentito attraverso un coinvolgimento autentico.

7. Quale valore aggiunto attribuite a un processo di change management costruito in modo collaborativo rispetto a uno definito a priori da una leadership verticale?

Ida De Falco

Un change management collaborativo ha un valore aggiunto radicale: non genera solo adesione, ma vera ownership. Quando il cambiamento è calato dall’alto, spesso le persone si limitano ad adeguarsi, producendo un’adesione formale ma con poca convinzione e resistenze silenziose che rallentano il percorso. Al contrario, un percorso condiviso, sviluppa senso di responsabilità, riduce le resistenze ed aumenta la velocità di implementazione. Ho constatato che ciò che inizialmente sembra più lento, nel medio periodo diventa più efficace, perché il cambiamento non si limita a “fare” , ma a trasformare “l’essere” organizzativo. Definisco la collaborazione come un investimento che paga nel tempo.

Danilo De Lumè

La differenza tra un processo di change management definito dall’alto e uno costruito in modo collaborativo è enorme. Nel primo caso le persone eseguono: nuove procedure, nuove regole, ma restano spettatori passivi. Nel secondo caso diventano protagonisti: partecipano, si sentono parte di una trasformazione che hanno contribuito a generare, e questo cambia tutto. Un cambiamento imposto dall’alto può funzionare sul breve periodo, ma raramente lascia traccia nella cultura. Un cambiamento costruito insieme invece sì: perché diventa patrimonio comune, perché viene interiorizzato. Il vero valore aggiunto del change management collaborativo è costruire cultura. E la cultura, nel lungo periodo è vantaggio competitivo ne sono assolutamente convinto. Però come dice Kotter per coinvolgere è necessario far capire ai collaboratori l’urgenza e la necessità del cambiamento al primo step di un processo di change management.

Romana Garavet

Un processo di change management sviluppato in modo collaborativo rappresenta un valore aggiunto per l’azienda, anche se può richiedere tempi più estesi. Questo approccio si rivela più solido e sostenibile nel lungo periodo, grazie al coinvolgimento attivo di tutte le parti interessate, che facilita l’adozione condivisa delle nuove pratiche e rafforza il senso di responsabilità collettiva. Così, il cambiamento risulta più stabile, consapevole e duraturo nel tempo. Ora, ad esempio. Stiamo lavorando a una campagna di cultura aziendale che mira a veicolare con chiarezza i nostri valori e behaviours attraverso momenti di presentazione e dibattito e attività concrete con le nostre risorse: siamo sicuri che questo modello porterà grandi spunti e una visione fortemente arricchita.

Silvia Preti

La sostenibilità del cambiamento. Sentirsi autori del cambiamento rende tutti più responsabili e ingaggiati nel mantenerlo vivo, superando la naturale fase di rebound che si presenta dopo gli entusiasmi iniziali. Daniel Pink nel suo libro Drive parla di tre aree motivazionali universali: l’autonomia, la competenza ed il purpose.

In un processo di change management condiviso tutte e tre vengono coinvolte, garantendo la massima attivazione delle risorse (o competenze) individuali per il successo comune.

Roberta Esposito

Il cambiamento imposto dall’alto spesso genera passività mentre quello condiviso produce responsabilità e ownership. Coinvolgere il team significa trasformare le persone in protagoniste, valorizzare idee e affrontare criticità insieme. La co-creazione non è solo un metodo ma è un approccio che rende il cambiamento sostenibile, rafforza relazioni e fiducia, e alimenta l’evoluzione della cultura organizzativa in modo autentico.

Riassumendo

Abbiamo analizzato il tema dell’Intelligenza Collaborativa intesa come la capacità di un’organizzazione di produrre decisioni e valore integrando e superando tre dimensioni:

  • Collettiva (Lévy): conoscenza distribuita che emerge da molti contributi;

  • Connettiva (de Kerckhove): reti, piattaforme, legami deboli/forti che permettono ai contributi di circolare;

  • Emotiva (Goleman): clima, empatia, fiducia, consapevolezza delle emozioni che rende possibile cooperare in modo adulto.

Le voci raccolte confermano che l’Intelligenza Collaborativa è centrale nel change management per almeno tre ragioni:

  • Sposta il cambiamento da “progetto calato dall’alto” a processo continuo costruito con le persone.

  • Trasforma i “resistenti” in sensori: fa emergere paure e vincoli per migliorare le scelte.

  • Riduce l’iper-produttività cieca, puntando su senso condiviso, feedback rapidi, autonomia responsabile.

Principi chiave

  1. Decidere con, non per: partecipazione reale ai momenti che contano (priorità, metriche, retrospettive).

  2. Trasparenza dei vincoli: cosa è negoziabile e cosa no.

  3. Ritualità minime: co-design, stand-up, retrospettive, demo; pochi strumenti, usati bene.

  4. Sicurezza psicologica: errore come informazione, non colpa.

Strumenti tipici

  • Workshop di co-creazione, retrospettive, survey con restituzione pubblica.

  • Social graph e mappature delle competenze per vedere flussi e colli di bottiglia.

  • Storytelling organizzativo per allineare purpose, obiettivi, indicatori.

Indicatori essenziali (pochi, misurabili)

  • Tempo di decisione e qualità percepita delle decisioni.

  • Tasso di adozione delle novità e numero di cicli di feedback chiusi.

  • Clima di fiducia (proxy: sicurezza psicologica, speaking-up).

  • Densità di collaborazione cross-funzione (interazioni utili, non solo meeting).

Cosa non è

  • Non è “andare d’accordo”: è gestire l’interdipendenza.

  • Non è “open bar” di idee: è governo dei contributi con criteri chiari.

  • Non è un workshop una tantum: è architettura stabile di pratiche e ruoli.

Questo primo capitolo dedicato all’industria ha dunque fissato il quadro di riferimento. Nei prossimi articoli porteremo le stesse domande nel Terzo Settore e nei Servizi, per mettere alla prova — con contesti diversi — la stessa idea semplice e impegnativa: il cambiamento si governa insieme.

134 – continua

Puntate precedenti

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE  POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO
22 – OPINION PIECE DI ROBERTO VERONESI
23 – OPINION PIECE DI FRANCESCO GORI
24 – OPINION PIECE DI NELLO BARILE
25 – OPINION PIECE DI LUCA MONACO
26 – OPINION PIECE DI RICCARDO MILANESI
27 – OPINION PIECE DI LUCA CAVALLINI
28 – OPINION PIECE DI ROBERTA PROFETA
29 – UN PUNTO NAVE
30 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CURA)
31 – OPINION PIECE DI NICHOLAS NAPOLITANO
32 – LEADERSHIP POP. VERSO L’YPERMEDIA PLATIFIRM (CONTENT CURATION)
33 – OPINION PIECE DI FRANCESCO TONIOLO
34 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CONVIVIALITA’)
35 – OPINION PIECE DI LUANA ZANELLATO
36 – OPINION PIECE DI ANDREA BENEDETTI E ISABELLA PACIFICO
37 – OPINION PIECE DI STEFANO TROILO
38 – OPINION PIECE DI DAVIDE GENTA
39 – OPINION PIECE DI ANNAMARIA GALLO
40 – INNOVAZIONE POP. ARIMINUM CIRCUS: IL READING!
41 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CONVOCAZIONE)
42 – OPINION PIECE DI EDOARDO MORELLI
43 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CO-CREAZIONE DI VALORE)
44 – OPINION PIECE DI MARIANNA PORCARO
45 – OPINION PIECE DI DONATO IACOVONE
46 – OPINION PIECE DI DENNIS TONON
47 – OPINION PIECE DI LAURA FACCHIN
48 – OPINION PIECE DI CARLO CUOMO
49 – OPINION PIECE DI CARLO MARIA PICOGNA
50 – OPINION PIECE DI ROBERTO RAZETO
51 – OPINION PIECE DI ALBERTO CHIAPPONI
52 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO ANTONINI
53 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA PILIA
54 – OPINION PIECE DI CLEMENTE PERRONE
55 – OPINION PIECE DI FABRIZIO RAUSO
56 – OPINION PIECE DI LORENZO TEDESCHI
57 – OPINION PIECE DI EUGENIO LANZETTA
58 – OPINION PIECE DI GIOLE GAMBARO
59 – OPINION PIECE DI DANTE LAUDISA
60 – OPINION PIECE DI GIAMPIERO MOIOLI
61 – OPINION PIECE DI GIOVANNI AMODEO
62 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO LOTTO
63 – OPINION PIECE DI GIANLUCA BOTTINI
65– OPINION PIECE DI SIMONE FARINELLI
66– OPINION PIECE DI FRANCESCA ANNALISA PETRELLA
67– OPINION PIECE DI VALERIO FLAVIO GHIZZONI
68– OPINION PIECE DI STEFANO MAGNI
69– OPINION PIECE DI LUCA LA BARBERA
70 – INNOVAZIONE POP. ARIMINUM CIRCUS: LA GRAPHIC NOVEL!
71 – LEADERSHIP POP. APOFATICA E CATAFATICA DELLA COMUNICAZIONE
72 – OPINION PIECE DI FEDERICA CRUDELI
73– OPINION PIECE DI MELANIA TESTI
74 – OPINION PIECE DI GIANMARCO GOVONI
75– OPINION PIECE DI MARIACHIARA TIRINZONI
76 – SENSEMAKING POP. LODE DELLA CATTIVA CONSIDERAZIONE DI SE’
77 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA CAPPELLO E ALESSANDRA MAZZEI
78 – OPINION PIECE DI JOE CASINI
79 – OPINION PIECE DI MARTA CIOFFI
80 – STORYTELLING POP. VERSO IL POP BRANDING (PARTE PRIMA)
81 – STORYTELLING POP. VERSO IL POP BRANDING (PARTE SECONDA)
82 – STORYTELLING POP. VERSO IL POP BRANDING (NOTE A MARGINE)
83 – ENGAGEMENT POP. IL MANAGER INGAGGIANTE IMPARA DAI POKEMON
84 – ENGAGEMENT POP. DARE VOCE IN CAPITOLO
85 – ENGAGEMENT POP. COMUNICARE, VALUTARE, TRASFORMARE
86 – SENSEMAKING POP. MALATTIA MENTALE E BENESSERE PSICOLOGICO SUL LAVORO
87 – SENSEMAKING POP. FOLLIA O DIVERSITA’?
88 – OPINION PIECE DI LUIGIA TAURO
89 – OPINION PIECE DI NILO MISURACA
90 – OPINION PIECE DI FRANCESCO DE SANTIS
91 – INNOVAZIONE POP. REMIX, RI-USO, RETELLING
92 – STORYTELLING POP. ARIMINUM CIRCUS AL BOOK PRIDE 2025
93 – OPINION PIECE DI SIMONE VIGEVANO
94 – OPINION PIECE DI LORENZO FARISELLI
95 – OPINION PIECE DI MARTINA FRANZINI
96 – OPINION PIECE DI EMANUELA RIZZO
97 – INNOVAZIONE POP. OLTRE LA PRE-INTERPRETAZIONE
98 – INNOVAZIONE POP. FORMAZIONE: ANALOGICA, METAVERSALE, IBRIDA
99 – ARIMINUM CIRCUS: LA VISUAL NOVEL!
100 – La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE PRIMA)
101 – La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE SECONDA)
102 – La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE TERZA)
103– La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE QUARTA)
104– La (P) AI INTELLIGENCE (PARTE QUINTA)
105– OPINION PIECE DI ALEXANDRA NISTOR
106– FORMAZIONE POP. PARTE PRIMA
107– FORMAZIONE POP. PARTE SECONDA
108– OPINION PIECE DI FEDERICA GRAZIA BARTOLINI
109– OPINION PIECE DI FEDERICO PLATANIA
110– OPINION PIECE DANIELA DI CIACCIO
111– OPINION PIECE DI LUCIANA MALARA E DONATELLA MONGERA
112– IL RITORNO DEL CEOPOP
113– LA VISIONE DEI CEOPOP (VOLUME 1)
114– LA VISIONE DEI CEOPOP (VOLUME 2)
115 – LA COMUNICAZIONE DEL CEOPOP
116– CEOPOP E PARTI SOCIALI
117– CHE POP MANAGER SEI? L’ESTETA
118– STORYTELLING POP. UNA COMUNICAZIONE POP PER IL NON PROFIT
119– CHE POP MANAGER SEI? VISIONARIO/VISIONARIA
120– OPINION PIECE DI REMO PONTI
121– CHE POP MANAGER SEI? EMPATICA/EMPATICO
122– OPINION PIECE DI GIACOMO GRASSI
123– CHE POP MANAGER SEI? INNOVATORE/INNOVATRICE
124– SECONDA CONVERSAZIONE COLLABORATIVA SUL POP BRANDING
125– CHE POP MANAGER SEI? SIMPOSIARCA
126– SENSEMAKING POP. UNA NUOVA GRAMMATICA DEL LAVORO (1)
127– CHE POP MANAGER SEI? ESPLORATORE/ESPLORATRICE
128– SENSEMAKING POP. UNA NUOVA GRAMMATICA DEL LAVORO (2)
129– CHE POP MANAGER SEI? IRONIC DIVA/DIVO
130– SENSEMAKING POP. UNA NUOVA GRAMMATICA DEL LAVORO (3)
131– CHIUSI PER FERIE
132– OPINION PIECE DI ELENA BOBBOLA E MARIE LOUISE DENTI
133– CHE POP MANAGER SEI? PRATICO/PRATICA