Nel tempo incerto e complesso che viviamo, le organizzazioni sono chiamate a ripensare radicalmente il modo in cui costruiscono identità, senso di appartenenza e direzione. Questo Prolegomeno è costituito dalla prima parte di una Conversazione Collaborativa su questo tema curata da Valerio Flavio Ghizzoni, che ha coinvolto figure di primo piano del mondo accademico e aziendale:
Stefano Bottaro – HR Director, Avio
Mihaela Gavrila – Professoressa di Media Studies, Università La Sapienza di Roma
Michela Matarazzo – Professoressa Ordinaria di Management e Marketing Internazionale, UniMarconi
Fabrizio Tripodi – Global People Leader, Brown-Forman (Jack Daniel’s)
Roberto Zecchino – Senior HR Advisor, docente e formatore.
La Conversazione tocca alcuni snodi cruciali della riflessione sul Pop Management ed in particolare:
- Narrazione e identità nell’epoca liquida. La narrazione autentica, radicata nei valori universali dell’organizzazione, è fondamentale per costruire identità stabili in un contesto di cambiamento continuo. La co-creazione delle narrazioni con i collaboratori garantisce autenticità e coinvolgimento.
- Cultura pop e linguaggio manageriale. L’utilizzo consapevole di simboli pop, come icone culturali e riferimenti archetipici, può rafforzare la cultura aziendale. Tuttavia, è essenziale evitare l’adozione superficiale di tendenze effimere, assicurando che ogni simbolo sia ancorato a valori autentici.
- Leadership tra collaborazione e urgenza decisionale. La leadership adattiva, capace di alternare co-creazione e decisionismo in base al contesto, è cruciale. La fiducia costruita attraverso la trasparenza e la partecipazione prepara l’organizzazione a gestire efficacemente le crisi.
- Narrazione ed etica. Una narrazione etica richiede trasparenza, apertura alla diversità e consapevolezza dell’impatto. Le storie aziendali devono riflettere la complessità, includendo anche fallimenti e dubbi, per evitare di diventare meri strumenti di marketing.
- Il futuro del lavoro e della narrazione. Con la trasformazione del lavoro, le organizzazioni devono evolversi in comunità di apprendimento continuo e impatto sociale. Recuperare narrazioni antiche e inventarne di nuove, fondate su creatività e collaborazione, è essenziale per costruire un senso di appartenenza autentico.
Questa prima parte si concentra sul ruolo della narrazione nella costruzione dell’identità organizzativa in un’epoca definita da fluidità e frammentazione, nonché il potenziale della cultura pop come linguaggio capace di connettere ed evocare significati condivisi.
Narrazione e identità nell’epoca “liquida”
Marco Minghetti: In un’epoca definita da Zygmunt Bauman come “modernità liquida” e ulteriormente articolata da Byung-Chul Han nella sua riflessione sulla “società della trasparenza”, le identità sociali e personali si trovano sospese in un contesto di frammentazione e instabilità. L’identità personale, tradizionalmente radicata nel lavoro e nelle istituzioni, viene ridefinita da forze globali come la digitalizzazione, la precarietà economica e l’erosione delle tradizioni organizzative. In questo scenario, la narrazione emerge come uno strumento cruciale per restituire senso e coesione, ma si scontra con il rischio di cadere nella retorica vuota o in una narrativa “apocrifa” di manipolazione strumentale.
Se l’identità è diventata fluida, come possiamo creare narrazioni organizzative che non fissino rigidamente le identità, ma valorizzino la molteplicità e il cambiamento costante riuscendo a creare appartenenza e senso, senza essere percepite come poco autentiche o manipolative?
Stefano Bottaro – HR Director, Avio
È ormai evidente che le organizzazioni non possono più fondarsi su narrazioni statiche. Poiché l’identità è sempre più fluida, diventa essenziale costruire narrazioni capaci di valorizzare il cambiamento e la molteplicità. Questo implica un ripensamento profondo del modo in cui le storie vengono concepite e condivise.
Occorre passare da una narrazione unica a un mosaico di storie individuali e di team, che riflettano la ricchezza delle esperienze e dei punti di vista presenti nell’organizzazione. Ascolto, condivisione e valorizzazione delle diversità diventano atti strategici per costruire un’identità collettiva più autentica e aperta.
La co-creazione è cruciale: non si tratta più di comunicare dall’alto, ma di coinvolgere le persone attraverso workshop, piattaforme e momenti di confronto. Le narrazioni devono essere dinamiche, in evoluzione, capaci di adattarsi ai cambiamenti e di riflettere un’identità sempre in divenire.
In questo scenario, i valori non devono essere rigidi, ma una bussola che orienta scelte e azioni. Devono essere vissuti, interpretati e discussi, fondamento di una cultura aperta e flessibile.
Lo scopo deve andare oltre il prodotto o il servizio. Deve esprimere un “perché” profondo, capace di aggregare e motivare, anche in presenza di ruoli fluidi. Raccontare il significato del lavoro, il suo impatto, è fondamentale per generare senso e appartenenza.
Le narrazioni devono celebrare la diversità, valorizzando le differenze come risorsa. Devono creare spazi sicuri dove le persone possano esprimere la propria autenticità e vulnerabilità, senza timore. Devono includere anche fallimenti e apprendimenti, perché è nella trasparenza che si costruisce fiducia.
È importante evidenziare le connessioni tra le parti dell’organizzazione, promuovendo collaborazione, supporto e la costruzione di ponti tra i silos. I leader devono farsi narratori, mentori, facilitatori. Condividere esperienze, sfide e lezioni crea continuità e ispirazione.
Anche il linguaggio deve riflettere apertura: parole come “viaggio”, “crescita”, “trasformazione” parlano di un’organizzazione viva, in movimento.
Infine, le narrazioni devono guardare al futuro. Non basta celebrare il passato: occorre orientarsi verso il potenziale, verso ciò che si può diventare insieme. In sintesi, costruire narrazioni efficaci oggi significa abbandonare l’approccio top-down, per abbracciare una logica partecipativa, dinamica e centrata sul significato. Un vero telaio narrativo, capace di contenere la complessità e il cambiamento, e di offrire a ciascuno la possibilità di tessere la propria storia, trovando autenticità e appartenenza.
Michela Matarazzo – Professoressa Ordinaria di Management e Marketing Internazionale, UniMarconi
Nello scenario attuale caratterizzato da cambiamenti disruptive, gli assetti organizzativi tendono ad essere profondamente instabili, inducendo i manager a ripensare continuamente le architetture organizzative e, di conseguenza, a ridisegnare i ruoli e le posizioni nell’organigramma aziendale. In questo vortice turbolento di innovazioni radicali che spesso generano l’affermazione di nuovi paradigmi, l’impresa rischia di essere travolta dal suo stesso processo decisionale, che può diventare nevrotico nel tentativo di adattamento continuo a cambiamenti profondi, fino a snaturarsi in mancanza di una narrazione coerente e di una chiara consapevolezza della propria identità più intima.
Un ruolo di fondamentale importanza assume la narrazione di ciò che si vuole essere nel futuro prossimo come in quello più remoto, che non può prescindere dalle radici dell’organizzazione, dalla sua storia e dai valori che da sempre l’hanno ispirata e che rappresentano i pilastri immutabili su cui si fonda la sua identità.
È nell’incessante e reiterato tentativo di tracciare la rotta facendo riferimento ai valori universali e, perché tali, immutabili, che le identità degli individui che compongono l’organizzazione possono trovare quella stabilità emotiva che li sostiene e li supporta nel continuo, alle volte immane, sforzo di cambiamento che sono quotidianamente chiamati a compiere. La narrazione si fa autentica quando è ispirata alla concezione profonda dell’impresa che si lega alla logica di medio-lungo termine della costruzione di senso, di significati, rifuggendo la logica speculativa di breve termine.
L’imprenditore/manager non è un investitore/speculatore perché imposta il lavoro nei termini di un processo continuo di co-creazione di valore duraturo e sostenibile nel tempo, a cui partecipano attivamente tutti gli stakeholder dell’impresa, primi tra tutti gli individui che, sposandone i valori universali, alimentano volontariamente ed attivamente la creazione di valore con le loro passioni, emozioni, idee e azioni quotidiane.
Mihaela Gavrila – Professoressa di Media Studies, Università La Sapienza di Roma
C’è un concetto dei media studies che restituisce il senso che dovrebbero prendere le narrazioni organizzative ambientate ai tempi della mutevolezza e della fluidità. Si tratta del mainstream, termine utilizzato da George Gerbner, studioso della Annenberg School of Communication dell’Università della Pennsylvania, per dimostrare la funzione di coltivazione di un comune sentire, di credenze e di opinioni, svolta dall’esposizione ai media e, in particolare, alla televisione. Per meglio evocare la forza travolgente del mainstream, Gerbner utilizza le metafore acquatiche. Nella cultura anglo-americana il mainstream è il contrario di backwaters, cioè le zone del fiume lasciate indietro dalla corrente, dove non c’è il ricambio dell’acqua, dove la vita ristagna (De Domenico, 2013, pp. 115-116).
Declinando tutto questo sul contesto organizzativo, possiamo sostenere che, nella costruzione di narrazioni organizzative efficaci, il mainstream è necessario, ma non va inteso come una semplice somma delle diverse voci e delle molteplici identità presenti in azienda. Piuttosto, rappresenta quell’insieme condiviso di valori, significati e pratiche che, pur accogliendo la diversità interna e le nuove tendenze, funge da riferimento comune e punto di coesione per tutti i membri dell’organizzazione.
Questo nucleo narrativo centrale non annulla le differenze, ma le integra e le valorizza, offrendo una base stabile su cui costruire senso di appartenenza e orientare l’evoluzione collettiva. Il suo funzionamento è paragonabile a quello di un’orchestra, che si nutre della varietà di suoni, esperienze e prospettive presenti nell’organizzazione, illuminando e dando spazio al momento giusto a ciascuno di loro e, quando si vuole garantire più intensità, all’insieme, senza appiattirle su un’unica identità (Schutz, 1951, pp. 76-97).
Fabrizio Tripodi – Global People Leader, Brown-Forman (Jack Daniel’s)
Vorrei riportare il focus della nostra conversazione sul fatto che oggi l’identità è diventata fluida: ne consegue che la vera sfida per noi, direttori HR di aziende multinazionali, non è più quella di fissare rigidamente i profili dei nostri collaboratori, ma di valorizzarne la molteplicità e il cambiamento continuo. L’obiettivo è costruire un senso di appartenenza e significato che sia autentico, lontano da qualsiasi percezione di manipolazione.
Per riuscirci, dobbiamo superare le narrazioni monolitiche e promuovere approcci più dinamici e co-creati. Le narrazioni devono essere diversificate e polifoniche, capaci di dare voce a ogni collega: ogni storia personale, ogni percorso unico, ogni diversità culturale arricchisce il tessuto dell’organizzazione. Non si tratta di raccontare una sola “storia aziendale”, ma di intrecciare un mosaico di esperienze.
È fondamentale enfatizzare il futuro e la capacità di adattamento. Le narrazioni devono celebrare l’evoluzione, l’apprendimento e la proiezione verso ciò che verrà. Il cambiamento non è un ostacolo, ma un’opportunità di crescita, sia per l’individuo che per l’organizzazione. Comunicare come l’azienda si adatta e prospera in un mondo in trasformazione, restando fedele ai propri valori, è essenziale.
Infine, l’autenticità nasce dalla condivisione dell’esperienza reale. Non possiamo imporre una narrazione dall’alto: dobbiamo creare spazi e processi che permettano ai team di costruire insieme le proprie storie.
Roberto Zecchino – Senior HR Advisor, docente e formatore
Nell’epoca della modernità liquida, come descritta da Bauman, e della società della trasparenza di Han, l’identità si presenta come fluida e precaria. Su questo, mi sembra, siamo tutti d’accordo. In questo contesto, creare narrazioni organizzative capaci di generare appartenenza senza cadere nella rigidità o nella manipolazione diventa una sfida cruciale.
Per affrontarla, è fondamentale ancorarsi a valori condivisi e a uno scopo aziendale chiaro, piuttosto che ai ruoli, sempre più soggetti a trasformazione. Il “perché” dell’organizzazione diventa così una bussola stabile, in grado di orientare il significato collettivo oltre i singoli compiti.
Come ha ricordato anche Fabrizio, è necessario abbracciare la polifonia e la co-creazione: non una voce unica, ma un insieme di storie intrecciate, un mosaico di esperienze che costruiscono l’identità in modo dinamico. La narrazione, in questo senso, è un processo vivo, in continua evoluzione, che include apprendimento e adattamento. Coinvolgere i collaboratori nella costruzione di questo racconto rafforza il senso di partecipazione e di proprietà (vedi su questo 106– FORMAZIONE POP. PARTE PRIMA e 107– FORMAZIONE POP. PARTE SECONDA, NdR),
Infine, l’autenticità è possibile solo se accompagnata da trasparenza e coerenza. Le parole devono corrispondere ai fatti: se si afferma qualcosa e se ne fa un’altra, la credibilità si perde. Ammettere vulnerabilità ed errori rende la narrazione più umana e onesta. Ascoltare il feedback e adattarsi dimostra rispetto e costruisce fiducia.
In sintesi, si tratta di creare cornici narrative flessibili in cui ogni identità possa trovare spazio e significato all’interno di un progetto comune, in costante trasformazione. Workshop di storytelling, piattaforme interne dedicate e la valorizzazione dei nostri “ambasciatori interni” sono strumenti essenziali per far emergere queste voci.
Soprattutto, occorre garantire trasparenza e onestà. In un mondo liquido, la credibilità è tutto. Dobbiamo essere trasparenti sulle sfide e le complessità che affrontiamo. Riconoscere le incertezze e mostrare come l’organizzazione le gestisce in modo proattivo rafforza la fiducia. Questo dimostra che siamo consapevoli del contesto.
La Cultura Pop come linguaggio universale
Marco Minghetti: Il Pop Management propone di semplificare il complesso attraverso simboli e narrazioni tratti dalla cultura popolare. Tuttavia, questa pratica affronta due grandi sfide: la frammentazione culturale, che rende difficili riferimenti universali, e la polarizzazione politica e sociale, che trasforma anche simboli apparentemente innocui in campi di battaglia ideologici. In questo contesto, l’uso della cultura pop come strumento manageriale rischia di diventare un’arma a doppio taglio.
Come si bilancia l’uso di simboli pop per costruire connessione con il rischio di alienare segmenti della propria comunità organizzativa o di ridurre la complessità concettuale ad un’estetica superficiale?
Stefano Bottaro – HR Director, Avio
Bilanciare l’uso dei simboli pop per creare connessione è una sfida delicata, ma fondamentale per le organizzazioni che aspirano a una narrazione autentica e accogliente. I simboli pop, per loro natura, sono strumenti potenti: evocano familiarità, leggerezza e immediatezza. Tuttavia, proprio questa forza può diventare un punto debole se non gestita con consapevolezza.
Prima di adottarli, è importante comprenderne i rischi. Un simbolo pop, per quanto diffuso, è sempre legato a un contesto culturale, generazionale o demografico specifico. Usarlo senza criterio può escludere chi non lo riconosce o non lo sente proprio (vedi su questo: Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 79, NdR).
Inoltre, la loro attrattiva può portare a scelte superficiali, dettate dalla moda o dalla viralità, piuttosto che da un reale allineamento con i valori dell’organizzazione. Se percepiti come forzati o strumentali, questi simboli rischiano di compromettere la credibilità del messaggio. E poiché la cultura pop è per sua natura effimera, basare su di essa l’identità aziendale può rendere la narrazione rapidamente obsoleta.
Per sfruttare davvero il potenziale dei simboli pop, serve un approccio strategico. Prima di tutto, è essenziale conoscere le persone a cui ci si rivolge: ascoltarle, coinvolgerle, capire quali riferimenti culturali risuonano con loro. Coinvolgere i dipendenti nella scelta o nella creazione dei simboli rafforza il senso di partecipazione e rende la narrazione più autentica.
Inoltre, ogni simbolo dovrebbe essere ancorato a un purpose profondo, legato a una missione chiara e coerente. Non basta mostrarlo: bisogna raccontarne il significato, spiegare perché è stato scelto e come si collega alla cultura aziendale. È altrettanto importante affiancare ai simboli pop narrazioni più profonde, testimonianze reali e contenuti che esplorino la complessità dei temi trattati.
In conclusione, l’uso dei simboli pop non è né buono né cattivo in sé. La sua efficacia dipende dalla strategia, dalla trasparenza e dalla capacità di usarli con intelligenza. Se ben gestiti, possono essere strumenti potenti per creare connessione e vitalità; se usati con superficialità, rischiano di svuotare la narrazione proprio quando c’è più bisogno di profondità.
Michela Matarazzo – Professoressa Ordinaria di Management e Marketing Internazionale, UniMarconi
Uno studio da me coordinato e presentato lo scorso anno all’American Marketing Academy, dedicato alla comunicazione della sostenibilità sociale ispirata ai valori universali dell’emancipazione femminile, ha analizzato una campagna pubblicitaria lanciata da Prada su X, in occasione di un evento a Bangkok. Never the same always myself è il claim della campagna, che racconta la storia di un’attrice che evolve nel ruolo di regista, restando sempre fedele alla propria identità.
La protagonista è Emma Watson, icona globale grazie al ruolo di Hermione Granger nella saga di Harry Potter, un fenomeno di cultura pop intergenerazionale che ha influenzato milioni di persone attraverso cinema, libri e merchandising. Successivamente, Watson è diventata ambasciatrice di buona volontà per UN Women, distinguendosi per il suo attivismo nel campo della sostenibilità sociale e ambientale. Nel messaggio pubblicitario, come nella vita, la sua immagine trascende ogni tendenza, raggiungendo un livello di universalità che supera i simboli del momento.
L’uso di celebrity, icone e simboli è una pratica consolidata nel marketing e nella comunicazione, perché consente di lanciare segnali capaci di parlare a una comunità ampia e transnazionale. Questo è particolarmente rilevante in un mondo segnato da crescente mobilità globale e dall’emergere di giovani cosmopoliti, biculturali e appartenenti alla cosiddetta “terza cultura”, che mettono in discussione i modelli identitari nazionali a favore di riferimenti globali.
La forza di campagne come quella di Prada risiede nella capacità di allineare i valori del brand con quelli della celebrity, fino al punto in cui la voce di Watson diventa la voce stessa del marchio, che assume così tratti quasi antropomorfi. Per evitare il rischio di messaggi sterili o artificiosi, è fondamentale distinguere tra il livello strategico di definizione dei valori e quello operativo dell’uso dei simboli pop, che devono restare strumenti per veicolare contenuti di ordine superiore.
Solo così l’impresa può davvero incidere nella società contemporanea, contribuendo a quel modello che la letteratura di management definisce marketing trasformativo, capace di generare impatto anche nei contesti in cui certi valori non sono ancora pienamente assimilati.
Mihaela Gavrila – Professoressa di Media Studies, Università La Sapienza di Roma
Anche in questo caso, mi permetto di richiamare i classici, in particolare Murray Edelman, che nel suo saggio Gli usi simbolici della politica (1987) sostiene che la politica non si limita alla gestione concreta del potere, ma opera soprattutto attraverso simboli, miti, rituali e narrazioni, capaci di influenzare ciò che le persone desiderano, temono e percepiscono come possibile. I leader, secondo Edelman, utilizzano i simboli per generare consenso, rassicurare, orientare l’opinione pubblica e legittimare il proprio ruolo, spesso più attraverso la costruzione di significati condivisi che tramite azioni concrete.
I simboli, infatti, risiedono nella cultura pop e il loro risveglio, quando immersi nella vita delle organizzazioni, può diventare uno strumento attuativo della leadership. Significa riconoscere il loro potere nel mobilitare emozioni, costruire identità e orientare comportamenti. La cultura popolare, viva e in continua trasformazione, è plasmata da rappresentazioni sociali, pratiche mediali e tecnologie. Con i suoi riferimenti immediati e il suo linguaggio universale, può diventare un alleato prezioso per chi guida un’organizzazione, capace di creare comunità o, al contrario, divisioni.
Quando un leader cita un film amato da tutti, usa una metafora tratta da una serie TV o condivide un meme, non sta solo rompendo il ghiaccio: sta attivando elementi identitari, creando ponti e un terreno comune dove le persone si sentano comprese e parte di qualcosa di più grande. In questi momenti, la leadership si fa più vicina, più umana, più autentica. La cultura pop può aiutare il leader a parlare la stessa lingua del team, a motivare con storie condivise e a rendere accessibili anche i concetti più complessi.
Tuttavia, è necessario un uso consapevole e critico di questi strumenti. Una narrazione simbolica mal gestita può diventare una maschera vuota, generare esclusione o persino una perdita di legittimità. Non tutti condividono gli stessi riferimenti: lo ricordava prima Stefano Bottaro, ciò che fa sentire “a casa” alcuni, può lasciare altri esclusi. Se il leader si affida troppo ai simboli pop, rischia di semplificare eccessivamente problemi profondi o, peggio, di manipolare le emozioni del gruppo.
Inoltre, non tutti i modelli offerti dalla cultura pop sono positivi: alcuni comportamenti o stili di leadership proposti possono rivelarsi dannosi o divisivi. Il vero equilibrio sta nell’autenticità. Un leader che sa usare la cultura pop con intelligenza, sensibilità e rispetto per le differenze può rafforzare il senso di appartenenza e motivazione. Ma è fondamentale non perdere mai di vista il contesto e la complessità delle relazioni: la cultura pop è uno strumento, non una scorciatoia.
La vera leadership è quella che si interroga, ascolta, elabora anche narrazioni simboliche per generare quel collante sociale che manca in tempi di compulsività digitale e narrazioni polarizzanti.
Fabrizio Tripodi – Global People Leader, Brown-Forman (Jack Daniel’s)
Sono molto d’accordo con Mihaela: nello scenario globale attuale, l’uso della cultura pop come linguaggio universale nel management rappresenta un’opportunità potente, ma anche una lama a doppio taglio. La nostra sfida, come Direttori HR in contesti multinazionali, è quella di bilanciare connessione ed engagement con il rischio di superficialità o esclusione.
Per affrontare questa complessità, è fondamentale adottare una contestualizzazione intelligente e una segmentazione mirata. Non esiste un “pop” universale: dobbiamo comprendere le specificità culturali dei nostri team e mercati, evitando approcci standardizzati. I simboli devono risuonare con i diversi segmenti della nostra comunità organizzativa, anche a livello locale.
Un approccio stratificato è essenziale: il simbolo pop può fungere da “gancio” per catturare l’attenzione, ma deve condurre a contenuti più profondi. Una metafora tratta da una serie TV, ad esempio, può introdurre un concetto di leadership, ma va poi sviluppata con esempi concreti e strumenti pratici.
È altrettanto importante mantenere flessibilità e apertura al feedback. Alcuni simboli possono generare reazioni inaspettate: dobbiamo essere pronti ad ascoltare, adattare o persino ritirare ciò che non funziona. Questo rafforza la percezione di autenticità e la volontà di ascolto.
Infine, il vero potere della cultura pop risiede nella sua capacità di veicolare valori e aspirazioni condivise. Non conta solo cosa usiamo, ma perché lo usiamo e a quale significato profondo ci riconduce. Se ben gestiti, i simboli pop possono diventare strumenti efficaci per creare connessione e vitalità all’interno delle organizzazioni.
Roberto Zecchino – Senior HR Advisor, docente e formatore
Ha ragione Fabrizio: usare la cultura pop nel Pop Management è una risorsa potente, ma anche rischiosa in un mondo sempre più frammentato. La vera sfida è riuscire a creare connessione senza cadere nel rischio di alienare o banalizzare.
Per farlo, è fondamentale conoscere il proprio pubblico. L’empatia è essenziale: ascoltare attivamente e raccogliere feedback aiuta a capire cosa davvero risuona. Non esiste un “pop” universale, quindi è necessario agire con cautela.
Il pop deve essere un ponte, non un fine. Può servire da metafora per introdurre temi complessi, ma va sempre accompagnato da contenuti sostanziali. La chiave è non fermarsi alla superficie, ma guidare le persone verso significati più profondi.
Perciò credo sia importante evitare simboli polarizzanti e preferire riferimenti archetipici o atemporali. Creare un “pop interno”, radicato nella storia e nei valori dell’organizzazione, può rafforzare il senso di appartenenza.
In sintesi, l’uso della cultura pop richiede equilibrio, sensibilità e una strategia consapevole. Se ben gestita, può diventare uno strumento efficace per rafforzare la narrazione e stimolare coinvolgimento autentico.
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Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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