Il Pop Opinionist di turno è Simone Vigevano, diciotto anni passati a costruirsi il lavoro di Digital e Brand Strategist per poi scoprire che nei dieci anni di volontariato di competenza si nascondeva una professione che univa le skill acquisite e la passione per trovare soluzioni a beneficio di tutte le persone, il Disability Manager. Riparte quindi dalla formazione post-laurea e co-fonda Bello E Accessibile Società Benefit, con lo scopo di unire un modo rigenerativo e socialmente sostenibile di fare impresa con questa nuova figura professionale, un facilitatore trasversale e multidisciplinare per promuovere accessibilità ed equità sociale nelle aziende.
Dal 2023 partecipa ad un progetto della Federazione Disability Management (Fe.D.Man.) nella Pubblica Amministrazione per sviluppare linee guida utili a far redigere il documento P.E.B.A. (Piano Eliminazione Barriere Architettoniche) in modo innovativo, aggiungendo alle barriere architettoniche anche le caratteristiche delle barriere invisibili e culturali.
Nel 2024 diventa direttore del dipartimento “Accessible AI for Inclusive Workplaces” dell’Ente Nazionale per l’Intelligenza Artificiale E.N.I.A. con lo scopo di sviluppare progetti, ricerche e proposte normative che favoriscano lo sviluppo delle nuove tecnologie di intelligenza artificiale in modo nativamente accessibile e a tutela delle persone fragili e delle minoranze.
Per una cultura rispettosa dei diritti delle persone con disabilità
Simone Vigevano
Né abilismo, né inspiration porn
In ambito aziendale, quando si cerca di introdurre il disability management, solitamente otteniamo reazioni che variano dall’evitamento totale all’eccessiva empatia. Entrambi gli approcci sono inadeguati: il primo ignora il problema, mentre il secondo invade lo spazio personale, provocando reazioni di repulsione.
Tra i due litiganti, chi non gode è sempre la persona più fragile. La soluzione sta in un equilibrio che normalizzi la disabilità, riconoscendo che ogni individuo, indipendentemente dalle sue caratteristiche, appartiene alla sfera della normalità.
L’approccio corretto alla disabilità richiede un equilibrio tra empatia e normalizzazione. Questo significa che l’abilismo, che si concentra sulle abilità di una persona, e l’inspiration porn, che glorifica le persone con disabilità come eroi, sono entrambi dannosi.
Per i non addetti ai lavori, è forse il caso di illustrare meglio questi concetti. L’abilismo è un paradigma culturale che considera il corpo-mente non disabile come la norma, relegando chi si discosta da essa a una condizione inferiore e meno valorizzata. Questo accade perché si fonda sul pregiudizio implicito che sia etico fare confronti tra esseri umani sulla base delle abilità, ovvero porre l’asticella della normalità sulla capacità di poter fare qualcosa, mentre chi non è in condizione di poterla fare, o ancor peggio, può farla ma in modo diverso, magari utilizzando degli ausili, è “diversamente abile”. È una delle peggiori applicazioni del concetto di diversità.
Il termine “inspiration porn” è stato coniato dalla comica e attivista australiana Stella Young nel 2012. In un suo famoso TED Talk, Young ha spiegato che l’inspiration porn consiste nell’oggettivare le persone con disabilità per il beneficio emotivo delle persone senza disabilità. Il termine “porn” è usato deliberatamente per sottolineare come queste rappresentazioni riducano le persone con disabilità a oggetti di ispirazione, privandole della loro umanità e complessità.
L’inspiration porn si manifesta attraverso storie e immagini che glorificano le persone con disabilità per il semplice fatto di vivere la loro vita quotidiana o di superare ostacoli legati alla loro condizione. Questi racconti spesso includono frasi come “se ce l’ha fatta lui/lei, non hai scuse” o “nonostante la sua disabilità, ha raggiunto grandi risultati”.
L’inspiration porn, in altre parole, è una narrazione che utilizza le storie di successo delle persone con disabilità per ispirare chi non ha disabilità, spesso senza il consenso degli interessati. In ogni caso, riduce le persone con disabilità a modelli eroici, ignorando le loro reali esigenze ed esperienze.
Un modello di Apertura alla diversità
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006 promuove un modello biopsicosociale che pone la persona al centro, indipendentemente dalla sua condizione di vita. Indica così la via per relazionarsi alla disabilità, consistente nell’accettazione del fatto che per il solo fatto di esistere si è nella sfera della normalità: ogni altra caratteristica – di genere, culturale, di salute – non è rilevante per l’instaurarsi di un qualsiasi rapporto sociale o lavorativo.
Più specificamente, stabilisce che le persone:
- hanno i medesimi diritti a prescindere dalla loro condizione di vita;
- non possono essere connotate dalla loro disabilità;
- devono poter esprimere il loro potenziale essendo poste in una condizione di equità (non di uguaglianza).
Vi è dunque da tempo una chiara indicazione sui modelli da seguire. Tuttavia, il contesto comunicazionale ne ostacola la comprensione. Facciamo due esempi. L’infobesità, o eccesso di informazioni, e il nudging, ovvero l’influenza “gentile” delle decisioni.
L’infobesità seppellisce le informazioni importanti tra miliardi di dati inutili, rendendo difficile la verifica delle fonti e la comprensione della realtà. L’eccesso di informazioni ha soppiantato la censura, producendo gli stessi effetti: mentre la censura cancellava ciò che non si voleva far sapere, ora lo si seppellisce in mezzo a miliardi di altre informazioni inutili o leggermente modificate. In questo modo la comprensione della realtà è ostacolata dalla mancanza di tempo, sempre più necessaria per poter verificare le fonti tra tutti i materiali disponibili.
Il nudging, invece, di fatto è una forma di manipolazione: influenza le decisioni attraverso suggerimenti “gentili”, spesso facendo leva su pregiudizi e paure comuni.
Questi fenomeni ostacolano la comprensione dei diritti delle persone con disabilità e la generazione di politiche adeguate al loro rispetto. Di fatto, producono le dinamiche di tifo calcistico che hanno invaso la rete: politiche sull’inclusione sì o no, persone con disabilità su palcoscenici di media prestigiosi oppure no, e così via.
Inoltre, comprendere un cambiamento complesso è un atto faticoso, se poi riguarda le persone, incrinando alcuni canoni culturali su cui si radica il nostro senso di appartenenza sociale, lo è ancor di più.
Un esempio di come si potrebbe procedere è riportato nel Prolegomeno 86, dove Alice Siracusano afferma di voler utilizzare i propri privilegi per dar voce a chi non ne ha.
Ma al momento si tratta di situazioni ancora troppo isolate. Se osserviamo le lotte sociali dal dopoguerra, ci appaiono comprensibili: penso alla partecipazione sociale delle donne, i diritti dei lavoratori, il movimento studentesco; però dopo decenni di miglioramenti, sia normativi che sociali, si è arrivati ad un punto in cui le esigenze, per le quali alcuni gruppi sociali lottano e che per questi portatori di interesse rappresentano dei macigni enormi, risultano incomprensibili agli altri, o al più vengono liquidate come semplici mode passeggere – “ma con tutti i problemi importanti…”
Le direttive europee
Eppure, l’Europa sta chiedendo sempre di più di cambiare, con direttive che gli stati membri devono recepire, con un processo di adeguamento che spinge verso un cambiamento radicale nelle aziende. Vediamone due.
L’EAA (European Accessibility Act) è la direttiva europea che dal 28 giugno 2025 porterà un cambiamento importante per prodotti e servizi, che ricorderà probabilmente il trambusto dell’entrata in vigore del Regolamento generale per la protezione dei dati (noto come GDPR) nel 2018.
È conosciuta come la “legge europea sull’accessibilità”, e semplificando comporta la modifica dei prodotti digitali informativi e di pagamento di moltissime aziende, oltre che di tutti i nuovi prodotti introdotti successivamente, in favore di una migliore accessibilità nel rispetto delle linee guida WCAG (Web Content Accessibility Guidelines) e della norma UNI CEI EN 301549.
L’accessibilità, che tra l’altro non è sinonimo di usabilità ma solamente di accesso all’informazione o allo strumento, è la condizione minima per poter raggiungere gli utenti che hanno determinate esigenze.
Questo ambito esula dalle sole persone con disabilità, perché include nel bacino di beneficiari anche persone che a livello legislativo non sono incluse nella condizione di disabilità, come ad esempio persone anziane, persone con vari tipi di daltonismo, di neurodiversità o anche tutte quelle persone che per motivi linguistici, culturali o di scarsa alfabetizzazione digitale troverebbero giovamento da una comunicazione semplificata.
Per inciso, l’EAA porterà nuovi clienti a tante aziende che non consideravano le persone con esigenze particolari come possibili consumatori di prodotti e servizi.
La CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) che introduce il concetto di doppia materialità, affiancando al valore economico dell’impresa, fino ad ora unico vero elemento di misura di ciò che un’impresa è e produce, i valori ambientali, sociali e di governo, diventa un nuovo strumento di evoluzione, anche se imposto dall’alto.
D’altronde i criteri ESG per misurare questi valori esistevano già da tempo, utilizzati prima dalla CSR (Corporate Social Responsibility) per pubblicizzare le proprie virtù omettendo i difetti, per poi trovare un’espressione migliore con le B Corporation e le Società Benefit, che forse in qualche modo hanno influenzato proprio la direttiva europea – che difatti indica come finalità della norma la trasparenza, caposaldo di queste nuove aziende rigenerative.
Nonostante tutto ciò, non sono ancora stati sviluppati a livello internazionale degli indici (KPI) condivisibili e calcolabili dalla maggior parte delle imprese, per monitorare le azioni concrete che vengono prese in favore delle persone che lavorano, degli stakeholder e anche delle persone nel territorio in cui l’attività economica opera.
Il Pop Management può aiutare a identificarli. Dal Prolegomeno N.77, ad esempio, si possono prendere molti spunti su cosa significhi porsi come obiettivo l’employee engagement e il job crafting, affinché non siano meri strumenti di washing.
Il Disability Manager
Le direttive europee richiedono un cambiamento radicale nelle aziende, che devono adattarsi a nuove norme di trasparenza e accessibilità anche per tutte le pratiche sociali dell’organizzazione. Nel Prolegomeno N.67 si sottolinea che quello che conta davvero non è l’inclusività, ma l’apertura alla diversità, un approccio in cui ogni persona è riconosciuta per la propria unicità, senza bisogno di essere “inclusa” in un sistema predefinito.
Questo cambiamento culturale e sociale è necessario per promuovere il rispetto dei diritti di tutte le persone, anche quelle con disabilità. Per questo stanno emergendo nuove figure professionali, come i Disability Manager, fondamentali per sviluppare in azienda nuove competenze e adattarsi alle nuove tecnologie e normative. Per quanto possa sembrare inaspettato dato il nome della professione, il Disability Manager non si occupa delle patologie né della disabilità in sé, ma delle persone. La sua competenza risiede principalmente nella conoscenza approfondita relativa alle esigenze specifiche degli individui, traducendola in indirizzi operativi specifici, ad esempio di accessibilità, policy, inserimenti lavorativi, accomodamenti ragionevoli, personalizzati per il contesto organizzativo.
Il Disability Manager, più in generale, lavora per garantire che le persone con disabilità abbiano accesso equo a risorse, servizi e opportunità. Questo professionista si occupa di coordinare e implementare politiche e pratiche che promuovano l’inclusione e l’accessibilità. Il suo obiettivo è creare ambienti di lavoro e comunità più eterogenei, dove le persone con disabilità possano partecipare pienamente e senza barriere avendo quindi la possibilità di portare ricchezza e valore come chiunque altro. Questo può accadere solo se si sposta il paradigma dal dover assumere persone con disabilità per obbligo di legge al creare realmente una cultura aziendale che consenta la piena espressione del potenziale delle proprie persone.
A titolo esemplificativo, le responsabilità di un Disability Manager includono:
- valutazione delle necessità: identificare le esigenze specifiche delle persone con disabilità all’interno dell’organizzazione o della comunità, compresi caregiver;
- sviluppo di politiche: creare e implementare politiche che promuovano l’inclusione e l’accessibilità, aggiornando i processi aziendali e tenendo fede ai valori del brand;
- formazione e sensibilizzazione: educare il personale e i membri della comunità sulle questioni relative alla valorizzazione della diversità e all’importanza del rispetto delle esigenze personali;
- coordinamento dei servizi: collaborare con altri professionisti, come medici del lavoro, tutor ed educatori, per garantire che le persone con disabilità ricevano il supporto necessario per migliorare le proprie competenze e il percorso lavorativo;
- monitoraggio e valutazione: valutare l’efficacia delle politiche e delle pratiche implementate e apportare modifiche quando necessario.
Il Disability Manager svolge dunque un ruolo cruciale nel promuovere l’apertura alla diversità e l’equità, garantendo i diritti di tutti, in modo che le persone con disabilità abbiano le stesse opportunità di partecipare alla vita aziendale e sociale.
93 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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