Dalla poesia una nuova etica manageriale
Oggi pomeriggio avrò l’opportunità di contribuire alla tre giorni di ETHICAL HR 2025 con un reading di poesie tratte dal volume Nulla due volte. Il Management attraverso la poesia di Wislawa Szymborska (Scheiwiller, 2006). Un volume che purtroppo non ha ancora trovato un editore disponibile a pubblicarne una nuova versione, nonostante le numerosissime richieste che sono giunte da una vasta cerchia di potenziali lettori.
Il senso della proposta era stato ben compreso dall’autore della recensione comparsa sul Corriere della Sera ai tempi della sua uscita in libreria. Ne riporto uno scampolo: «Con ironia ricca di grazia e di spine, Wislawa Szymborska, poetessa polacca premio Nobel per la letteratura nel 1996, mette alla berlina la pretesa delle statistiche di affidare ai numeri l’interpretazione del mondo.
Un’illusione a cui dedica anche una poesia, Un contributo alla statistica, una delle bellissime 25 che Marco Minghetti e Fabiana Cutrano raccolgono e commentano in un libro appena pubblicato da Scheiwiller: Nulla due volte. Il libro ha un sottotitolo che sembra fuori luogo “il Management attraverso la poesia di Wislawa Szymoborska”, ma che invece permette agli autori di utilizzare i versi della poetessa per condurre una crociata contro il cosiddetto Scientific Management e a favore di un’auspicabile avvento dello Humanistic Management.
Perché la mania per i numeri dei manager vecchio stampo, che usano le statistiche a scapito degli uomini, porta a una gestione fallimentare delle imprese. “L’inimmaginabile e immaginabile”, avverte invece Szymborska, nella Fiera dei miracoli, e solo seguendo questa possibilissima impossibilità, dando spazio alla creatività dei propri dipendenti, l’azienda può sperare di eccellere in un mondo in balia di un incessante cambiamento.
Se invece i manager gestiscono gli uomini come Gli animali del circo, ammazzeranno creatività e amore per il lavoro:
“Divertimento pessimo quel giorno:
gli applausi scrosciano a cascata,
benché la mano più lunga di una frusta
gettasse sulla sabbia un’ombra affilata”».
Mi sembrano considerazioni di una straordinaria attualità, in un momento storico caratterizzato dallo strapotere degli algoritmi e dall’avvento inarrestabile dell’Intelligenza Artificiale.
Poiane, sciacalli e tafani
In questo quadro, credo sia utile rileggere un’altra delle 25 poesie, dal titolo apparentemente bizzarro: Lode della cattiva coscienza di sé.
La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.
Il cuore dell’orca pesa cento chili
ma sotto un altro aspetto è leggero.
Non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita
sul terzo pianeta del Sole.
In questi versi le considerazioni sugli esseri umani appaiono decisamente dolenti, ancor più accorate e compassionevoli di quanto accada ne Gli animali del circo, se possibile: benché, grazie alla magia di cui solo Szymborska detiene il segreto, al tempo stesso assuma quel caratteristico tono lievemente beffardo e come distaccato da quanto avviene in questa valle di lacrime.
L’uso dell’enumerazione “zoologica” in uno stile surrealmente favolistico, aleggiante come uno strano uccello fra un impossibile ricordo del Manuale di zoologia fantastica di Borges (che Szymborska ammette di conoscere ma sostiene di non avere mai letto) e un’oscura affinità sentimentale con il Bestiario di Cortázar, è un altro modo per ottenere straniamento coniugato all’evocazione di una emozione intensa, immediatamente condivisa con il lettore. Che, mentre legge i versi della Lode (ironico riferimento, credo, al Cantico dei Cantici), può quasi sentire in sottofondo salire rombando l’irridente saluto del mitico Axel Rose: Welcome to the jungle….
In quelle tenebre
Poiché tuttavia penso si possa ragionevolmente escludere che Szymborska sia una estimatrice dei Gun’n Roses, per quanto abbia dichiarato che «quella cantata nei concerti rock è una delle molte forme possibili di poesia», mi sembra più probabile che dietro questi versi vi sia ben altro. Esaminiamo una delle settanta interviste che Gitta Sereny fece a Franz Stangl, direttore generale del campo di sterminio di Treblinka, raccolte in un libro che ha per titolo In quelle tenebre (Adelphi).
Troviamo che alla domanda: «Che cosa provavate quando compivate quegli eccidi?», Franz Stangl risponde: «Quello era il nostro lavoro. Il lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinquemila e in alcuni campi fino a ventimila persone in ventiquattro ore esigeva il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti. Questo era il sistema. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile».
Prima di indignarci di fronte a una simile difesa, nota Galimberti, dovremmo considerare che «gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro senza i quali l’ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell’esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi è invitato a comportarsi quando inizia il suo lavoro in un’organizzazione…
La divisione del lavoro che vigeva nell’apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vive in ogni struttura aziendale fa sì che all’interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l’operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non ha più niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli è tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei proessi lavorativi, di intendere realmente l’esito ultimo a cui porterà la sua azione.
Così l’operatore non solo diventa irresponsabile, ma gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto, indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti circoscritti previsti dall’apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una fornitura alimentare». Non c’è nulla di più animale / della coscienza pulita / sul terzo pianeta del Sole…
L’incapacità di pensare
Lo spietato paragone fra campi di sterminio nazisti e attuali organizzazioni imprenditoriali può disturbare, ma senza dubbio possiede un forte valore esplicativo. Peraltro, le osservazioni di Galimberti non fanno che confermare le tesi di Hannah Arendt sulla “banalità del male”, titolo dell’opera che riprende i resoconti che l’autrice pubblicò come corrispondente del settimanale New Yorker durante il processo ad Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato nel 1960 e giudicato a Gerusalemme nel 1961.
Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era stupidità, ma la pura incapacità di pensare. Eichmann agiva all’interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Era una persona completamente calata nella realtà che aveva davanti: lavorare, cercare una promozione, riordinare numeri sulle statistiche.
Quanti di noi condividono questi comportamenti? Il punto è che, se sono disgiunti da una continua riflessione sulle loro finalità, divengono la componente fondamentale di una “cieca obbedienza” che, nei contesti caratterizzati dalla gestione scientifica e totalitaria del potere, appare normale. Perché lo Scientific Management, in ogni sua forma, non ti chiede di pensare al contenuto delle regole, ma di applicarle incondizionatamente.
Eichmann ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Come Szymborska, Arendt vede in Socrate il modello da seguire per sfuggire a un tale intorpidimento della sensibilità morale. Non è difficile capire perché. Nelle Disputazioni tuscolane Cicerone scrive che «Socrate fu il primo a richiamare la filosofia dal cielo, a collocarla nelle città, a introdurla nelle case e a costringerla a occuparsi della vita, dei costumi e delle cose buone e cattive».
Si impegna dunque in una indagine non prevalentemente incentrata sulla natura fisica del mondo, come i presocratici, né prioritariamente finalizzata alla riflessione politica (Platone) o alla costruzione di una metafisica (Aristotele), ma sulla ricerca morale.
Conoscenza, consapevolezza, responsabilità
Una morale simile a quella di Amleto (anch’egli convinto che ci siano più cose in terra che nei sogni della filosofia), da attuare non attraverso la volontà, come sarà detto da tutte le morali insegnate e praticate in Occidente, ma attraverso la conoscenza. Socrate è infatti convinto che la migliore maniera per prevenire il male è rintracciabile nel processo del pensare. Il pensare socratico provoca essenzialmente una ironica perplessità, che ha il potere di creare un distacco fra gli individui e le loro regole di comportamento.
Pone quindi l’uomo di fronte a un quadro bianco, senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli di deliberare un giudizio circa quanto accade nel mondo, assumendo la responsabilità dei propri comportamenti. Essere capaci di pensare significa essere responsabili. Essere responsabili significa fare scelte consapevoli. Assumersi il carico, fino in fondo, delle proprie scelte significa essere liberi. E in questo consiste la nostra umanità.
Lo spiega bene Platone con il mito di Er che chiude La Repubblica: la libertà di ciascuno si esprime prima di nascere nella preferenza per la vita in cui calarsi ma, dopo, l’essere umano che sia veramente tale (e non uno sciacallo o una poiana travestiti) non può più sottrarsi alle conseguenze della decisione presa.
E nella coscienza delle conseguenze delle proprie scelte, abbinata all’assunzione di responsabilità anche rispetto a tutti i “danni collaterali” che tali scelte possono determinare, sta anche il vero discrimine fra noi esseri umani e le Intelligenze Artificiali, che tale consapevolezza non hanno.
Una consapevolezza che ovviamente non deve essere solo individuale, ma collettiva. Questo, in chiusura, mi offre anche l’opportunità di osservare che il World Economic Forum 2025 si è svolto all’insegna della Collaboration in the intelligent age. Un riconoscimento del fatto che l’Intelligenza Collaborativa è la chiave di volta per affrontare i problemi più importanti dell’umanità: facendo scelte frutto della collaborazione fra Intelligenze anche Artificiali (vedi su questo Prolegomeni 40), ma la cui responsabilità finale resta integralmente umana.
76 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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