La comunicazione d’impresa in un mondo che cambia
Questo Prolegomeno di Salvatore Ricco arriva nel momento giusto. Da tempo sostengo, con il Pop Management, che la comunicazione non sia un accessorio decorativo del business, ma uno dei luoghi in cui oggi si decide il destino delle organizzazioni. Ricco, con l’autorevolezza di chi ha attraversato venticinque anni di trasformazioni – dall’esordio dei social media all’irruzione dell’AI – e con l’esperienza di Direttore Comunicazione di un’azienda globale come Amplifon, porta dentro i Prolegomeni al Manifesto del Pop Management una prospettiva “dal fronte”, concreta, misurata, radicalmente contemporanea.
Nel suo libro La comunicazione d’impresa nel mondo che cambia (Franco Angeli) Ricco mostra come la comunicazione sia passata dallo status di “costo accessorio” a quello di asset strategico, capace di incidere sulla reputazione, quindi sul valore di mercato e sulle possibilità di crescita delle imprese. In questo Opinion Piece, quel passaggio viene ulteriormente precisato e, direi, politicizzato in senso pop: la comunicazione non è solo una funzione che “serve” il business, ma uno spazio in cui si costruiscono fiducia, senso condiviso, legittimazione sociale. È qui che il suo percorso incontra naturalmente il Pop Management, che fin dall’inizio lavora sull’intreccio fra immaginario, pratiche organizzative e forme della cultura popolare.
Quando parliamo di Storytelling Pop e Pop Branding, non ci riferiamo a una semplice veste narrativa ammiccante da applicare a messaggi vecchi. Ricco lo dice con chiarezza: le aziende oggi non competono solo sul mercato dei prodotti, ma nel campo dell’attenzione e dell’immaginario, accanto a serie TV, podcast, videogiochi, reel. Ciò che chiamiamo Pop Branding è la scelta – impegnativa, non cosmetica – di trasformare l’identità aziendale da monologo top-down a relazione viva con gli stakeholder, fatta di linguaggi riconoscibili, storie condivise, coerenza tra dichiarato e agito. Lo Storytelling Pop è l’architettura di questa relazione: non un racconto che “spiega” l’azienda, ma un dispositivo che invita le persone a entrarci dentro, a riconoscersi, a metterci del proprio.
Questo porta dritti a uno dei principi cardine del Pop Management: l’autenticità. In queste pagine, Ricco insiste sul fatto che la moneta più preziosa oggi non è l’originalità estetizzante, ma l’allineamento sostanziale tra ciò che il brand dice, ciò che l’organizzazione fa e ciò che le persone che ci lavorano vivono ogni giorno. Laddove il Manifesto del Pop Management parla di intelligenza collaborativa e di co-costruzione del senso, Ricco mostra come la comunicazione interna e l’employer branding diventino, di fatto, Pop Communication: ogni dipendente può essere – e sempre più è – un medium del brand, un nodo di una narrazione diffusa che o è autentica, o semplicemente non regge.
Un altro punto di convergenza riguarda la leadership. Nel Prolegomeno 112 abbiamo introdotto la figura del CEOPop: un leader che non si limita a “rappresentare” l’azienda, ma ne incarna visione e responsabilità, accettando di esporsi nello spazio pubblico, anche digitale, come soggetto narrante. Ricco approfondisce questo passaggio parlando di reputazione “binaria” – azienda e vertice – e ricordando come i profili social dei CEO siano ormai fonti primarie di valutazione per candidati e stakeholder. Qui il Pop Management vede confermata una sua intuizione: la leadership del XXI secolo è anche una pratica comunicativa, che va progettata e curata tanto quanto la strategia industriale o finanziaria.
Infine, c’è la sfida dell’intelligenza artificiale. Nel Manifesto del Pop Management parliamo di Intelligenza Collaborativa come esito maturo dell’incontro tra intelligenza umana, collettiva, connettiva ed emotiva (ad esempio in Prolegomeni 134). Ricco, con grande lucidità, rifiuta sia il catastrofismo sia il trionfalismo tecnologico: se, come ricorda citando Sam Altman, una parte consistente del lavoro “standard” potrà essere svolta dall’AI, la differenza continuerà a farla la capacità umana di leggere i contesti, cogliere le sfumature, generare esclusività e senso. È esattamente la posta in gioco dell’Intelligenza Collaborativa: usare l’AI come leva per amplificare la creatività e la responsabilità, non per sostituirle.
Di particolare interesse, per il Pop Management, è l’attenzione che Ricco dedica al non profit e ai progetti a impatto sociale, come l’esperienza “Gentilezza” di Fondazione Amplifon (vedi su questo anche Prolegomeni 144 e 145). Qui la comunicazione Pop mostra la sua dimensione più politica (nel senso alto del termine): non solo strumento per informare, ma pratica di coinvolgimento delle comunità, di costruzione di appartenenza, di diffusione di nuovi comportamenti. È la prova che una comunicazione davvero strategica non si limita a raccontare il mondo dell’organizzazione, ma contribuisce a trasformarlo.
Per tutte queste ragioni considero questo Prolegomeno un tassello essenziale del Manifesto del Pop Management. Non è un esercizio teorico, ma la voce di un comunicatore che ha scelto di leggere il proprio mestiere come responsabilità sistemica: verso l’azienda, verso gli stakeholder, verso la società. È un invito implicito a comunicatori, manager, leader e giovani professionisti a prendere sul serio la comunicazione come investimento sul futuro: futuro del business, certo, ma anche futuro della convivenza, della fiducia, della qualità del dibattito pubblico.
È in questo crocevia – tra reputazione e immaginario, tra AI e sensibilità umana, tra strategia e cultura popolare – che il Pop Management riconosce la propria casa naturale. Le pagine che seguono lo dimostrano con chiarezza.
La comunicazione strategica
Salvatore Ricco
Salvatore Ricco, 49 anni, pugliese, è giornalista pubblicista con una laurea in Scienze Politiche e un Master in Relazioni Internazionali. Dopo alcune esperienze giornalistiche a livello locale e nazionale (ha collaborato anche con il gruppo il Sole 24 Ore), ha lavorato con una borsa di studio all’ufficio stampa del Parlamento europeo a Bruxelles e succesivamente intrapreso una carriera nella comunicazione di impresa, con esperienze in Ketchum, Sia (oggi Nexi), Pirelli, Cir e Snam. In quest’ultima azienda, ha anche ricoperto l’incarico di CEO di Arbolia, società benefit impegnata nella realizzazione di boschi urbani. Attualmente è Chief Communication Officer di Amplifon e membro del Consiglio di Amministrazione di Fondazione Amplifon.
Mai come oggi la comunicazione è motore di fiducia e reputazione per le aziende. E fiducia e reputazione sono componenti sempre più strategiche per il loro business.
Mi occupo di comunicazione d’impresa esattamente da 25 anni. Ho iniziato la mia carriera di comunicatore agli albori dell’era dei social media e festeggio il quarto di secolo di attività professionale agli albori dell’era dell’intelligenza artificiale (AI). In questo arco di tempo, il mestiere di chi si occupa di comunicazione, pur mantenendo alcune caratteristiche e skill destinati a sopravvivere nel tempo, è stato ridisegnato e un po’ rivoluzionato da un’onda continua di trasformazioni epocali. Non solo quelle tecnologiche – dall’avvento di internet e dei social media fino alla prepotente irruzione dell’AI – ma anche crisi economiche, conflitti e cambiamenti geopolitici nonché una pandemia che ha rimesso in discussione ogni certezza.
Nel libro “La comunicazione d’impresa nel mondo che cambia”, edito da Franco Angeli, racconto questa evoluzione, ma soprattutto condivido con professionisti, manager e nuove generazioni una riflessione fondamentale: il ruolo della comunicazione e quindi del comunicatore, nell’impresa ma non solo, non è mai stato così strategico come oggi.
La ragione principale che mi ha spinto a scrivere non è solo sottolineare l’importanza della professione del comunicatore, soprattutto a beneficio dei giovani che si accingono a intraprenderla, ma anche provare a raccontare ai non addetti ai lavori – imprenditori, manager di altre funzioni, consulenti – perché la comunicazione è un fattore cruciale, funzionale al mantenimento e alla crescita della fidicia e della reputazione aziendale e, dunque, al raggiungimento degli obiettivi di business.
La comunicazione da “costo accessorio” ad “asset strategico”
Per troppo tempo, la comunicazione d’impresa è stata vista come un’attività, per usare il gergo aziendale, non business critical, una sorta di “costo accessorio”. Spesso è stata percepita come una funzione meramente relazionale, slegata dal cuore pulsante del business. Il libro cerca di smentire questa vecchia percezione, sostenendo che la comunicazione è oggi un investimento strategico in grado di creare reputazione e valore, mitigare rischi e costruire relazioni solide con tutti gli stakeholder, interni ed esterni all’organizzazione.
Pur essendo un asset cosiddetto intangibile, la reputazione è direttamente collegata al valore di mercato di un’azienda. Secondo Echo Research, la reputazione equivale in media a circa un terzo della capitalizzazione delle imprese dell’indice borsistico americano S&P 500. La reputazione aziendale è l’insieme di percezioni che gli stakeholder hanno dell’organizzazione, può modificarsi nel tempo ed è più sensibile agli sviluppi negativi che a quelli positivi. In un mondo sempre più volatile, incerto e complesso, la reputazione di un’impresa, faticosamente costruita nel tempo, può essere distrutta in cinque minuti, come evidenzia una celebre frase attribuita al finanziere Warren Buffett.
La trasformazione digitale ha moltiplicato le piattaforme, trasformando le aziende stesse in una sorta di media, creando nuove opportunità, ma ha contestualmente reso la comunicazione più rischiosa e le imprese decisamente più esposte al giudizio in tempo reale degli stakeholder. Le aziende che sanno comunicare in modo coerente, tempestivo ed efficace, gestendo bene le crisi e correndo ai ripari in caso di errori, sono quelle che possono consolidare un vantaggio competitivo sostenibile.
Il comunicatore è sempre più un manager, un professionista in grado di gestire situazioni complesse, ben lontano dallo stereotipo di donna o uomo impegnato solo a curare relazioni (il cosiddetto “pierre”). Per essere efficaci, i professionisti della comunicazione devono essere al centro del processo decisionale dell’impresa, sapendo “cosa bolle in pentola” fin dal primo momento in modo da essere utili e strategici. Per questa ragione, sempre più i comunicatori di impresa sono collocati organizzativamente a riporto del CEO o comunque dei vertici aziendali e non è ormai raro che professionisti della comunicazione siedano all’interno di Consigli di Amministrazione di aziende quotate e non quotate, anche grazie al loro bagaglio professionale.
Storytelling Pop e Pop Branding con un unico obiettivo: l’autenticità
La necessità di evolvere non si ferma all’organizzazione interna. Essa si estende al modo in cui l’azienda si posiziona nel panorama competitivo e culturale contemporaneo. Ed è qui che la visione del libro si incrocia con i concetti sviluppati nei Prolegomeni al Manifesto del Pop Management, in particolare con il Prolegomeno 80 – Storytelling Pop. Verso il Pop Branding (parte prima). La sfida del ventunesimo secolo per le aziende non è solo comunicare, ma competere per l’attenzione e l’immaginario con i formati della cultura popolare: podcast, serie TV, videogiochi e reel. Non si tratta di abbassare il livello, ma di ripensare la propria narrativa aziendale. Il Pop Branding non è una strategia di marketing superficiale; è l’impegno a trasformare l’identità aziendale da un mero messaggio top-down a una relazione viva e a un linguaggio condiviso con i propri stakeholder. Lo Storytelling Pop, come sottolineato nel Prolegomeno 80, è l’arte di costruire una narrazione che inviti, coinvolga e chiami le persone a entrare in una visione condivisa. È l’opposto del tradizionale modello di comunicazione verticistica. Richiede forte coerenza valoriale e sostanziale in tutti gli asset aziendali. Solo attraverso questa coerenza è possibile rafforzare la personalità del brand in modo solido e duraturo. È la cosiddetta “comunicazione integrata”, la cui coerenza – all’interno delle aziende – è in qualche modo assicurata da una funzione comunicazione e da comunicatori in grado, se non di gestire, quantomeno di essere coinvolti in tutte le attività di relazione con i principali stakeholder.
In questo contesto, la moneta più preziosa è l’autenticità. Non solo il brand deve essere autentico, ma ogni dipendente può e deve incarnare i valori dell’azienda e raccontarli in modo autentico. Per questo anche la comunicazione interna all’impresa assume un ruolo sempre più strategico. Le storie di collaborazione reale, di valore umano, sono ciò che crea il senso collettivo e rafforza il brand ben oltre l’effetto di qualsiasi campagna pubblicitaria tradizionale.
La Leadership per l’era contemporanea
Un’azienda capace di abbracciare lo Storytelling Pop e un modello di comunicazione strategica e autentica non può prescindere dalla leadership. Il mio libro evidenzia che la trasformazione deve necessariamente coinvolgere i vertici aziendali, specie in un’era nella quale i CEO comunicano anche attraverso i social media e le aziende sono in qualche modo identificate con i loro leader. Sempre più si parla di reputazione “binaria”, ovvero di reputazione di un’azienda frutto dell’associazione tra la propria reputazione e quella del proprio vertice. Non è un caso ad esempio che, secondo il Financial Times, il profilo LinkedIn del CEO di un’impresa sia la seconda fonte di informazione più ricercata da un candidato dopo il sito ufficiale.
Questo, peraltro, è il cuore della riflessione sviluppata nel Prolegomeno 112 – Leadership Pop. Il ritorno del CEOPOP: il CEO non è un leader carismatico nel senso tradizionale del termine, ma una figura con una visione ampia e lungimirante della reputazione e della credibilità aziendale. La sua voce è fondamentale perché è autorevole e deve esprimere una posizione proiettata al futuro, offrendo una prospettiva chiara dentro e fuori l’organizzazione.
Un recente report di Mc Kinsey dal titolo “The CEO’s role as chief storyteller”, evidenzia come un amministratore delegato oggi abbia il compito di guidare le aziende non solo con i numeri ma anche con il racconto. Perché le imprese non sono più torri d’avorio e i loro leader sono chiamati a parlare a pubblici diversi e spesso in tensione. In questo contesto, il CEO deve essere una sorta di “narratore-in-capo”; cioè colei o colui che tiene insieme i pezzi e dà coerenza alla storia dell’azienda. Un discorso che non riguarda solo i vertici ma anche tutto il management, il cui ruolo nella comunicazione aziendale è sempre più prezioso in un’era caratterizzata da trasformazione digitale, continui cambiamenti di scenario, forte competizione per l’attrazione dei talenti e abbattimento delle barriere tra comunicazione interna ed esterna.
Il futuro del comunicatore nell’era dell’AI
Oltre a quelle del linguaggio e dell’organizzazione, un’altra chiara e radicale sfida che il nostro mestiere ha di fronte è rappresentata dall’intelligenza artificiale. Nei mesi scorsi, Sam Altman di Open AI ha affermato che il 95% di ciò che i professionisti della comunicazione cercano dalle agenzie pubblicitarie potrà essere in futuro gestito facilmente dall’AI. Ma se l’AI è in grado di generare messaggi gradevoli e tecnicamente perfetti, ciò che farà la vera differenza sarà l’originalità e la capacità di far percepire esclusività.
Il comunicatore, alla luce di queste sfide, deve essere un manager strategico. Deve cogliere e interpretare i cambiamenti d’umore degli stakeholder, difendere la reputazione in un mondo pieno di insidie e trarre vantaggio dalle rivoluzioni tecnologiche, ma senza disperdere il valore insostituibile dell’intelligenza e della sensibilità umana.
Il mio libro si chiude con una certezza: la comunicazione d’impresa e il mestiere del comunicatore non solo sopravvivranno alla rivoluzione dell’AI, ma potranno uscirne rafforzati, a patto che si accettino le nuove regole del gioco: accogliere i cambiamenti (anche tecnologici), essere vicini al business (a tutta l’azienda e non solo al vertice), essere managerialmente competenti, e operare secondo i principi di autenticità, relazione costruttiva, trasparenza e coerenza, che sono poi tra i fondamenti del Pop Management.
Ciò non vale solo nella comunicazione d’impresa ma in tutte le forme di comunicazione, da quella istituzionale e politica a quella nel non profit. In quest’ultimo caso, come evidenziato nel Prolegomeno 118 – Una comunicazione Pop per il non profit, la comunicazione non è più solo uno strumento per informare, ma diventa leva strategica per coinvolgere le comunità, rafforzare il senso di appartenenza, fare cultura e riflettere sui comportamenti. Un caso interessante, citato nel Prolegomeno 118, è quello del progetto “Gentilezza” di Fondazione Amplifon, ideato e citato dalla collega Maria Cristina Ferradini, consigliera delegata dell’ente, al quale ho avuto il piacere di contribuire.
Quello di gentilezza è un concetto che può essere applicato anche all’impresa. In Amplifon, ad esempio, cerchiamo di declinarlo come condivisione di valori essenziali: trasparenza, eticità, spirito di squadra, apertura alla diversità e all’aiuto reciproco e ambiente nel quale l’errore non viene punito ma considerato una occasione di apprendimento. Come evidenzia spesso il nostro CEO Enrico Vita, non cerchiamo solo persone brave ma anche brave persone.
La comunicazione che crea il futuro
Il libro La comunicazione d’impresa nel mondo che cambia, in sintesi, aspira a essere un manifesto in favore di un mestiere che ho visto evolvere in modo straordinario, ferma restando la necessità di continuare a farlo con doti umane come empatia, capacità di relazione e di diplomazia, sensibilità e senso della notizia. Doti che neanche le macchine più sofisticate potranno mai avere. Il libro è un invito a comunicatori, leader e manager, nonché alle nuove generazioni, a non temere il cambiamento, ma a cavalcarlo, perché in un mondo dove la fiducia è la moneta più preziosa, la comunicazione è un investimento che crea il futuro.
148 – continua
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