In “Pinball Wizard – Parte Prima” è emersa una leadership che governa dinamiche vive: gravità, rimbalzi, imprevisti, moltiplicatori. In questa Parte Seconda la metafora operativa del flipper diventa design: leggere il campo, attivare le alette al momento giusto, prevenire il tilt.
Il confronto con il mondo videoludico offre lenti trasferibili: chi si occupa di management può ricavarne spunti interessanti su temi quali proporre alternative ai paradigmi dominanti, gestire pressione e priorità, sviluppare socialità e competenze collaborative, sostituire la gamification cosmetica con motivazioni intrinseche.
Più in generale, il Pop Management si ispira al gioco per riprogettare l’organizzazione: regole chiare, feedback rapidi, cicli brevi di apprendimento e una narrazione condivisa che rende l’azione comprensibile e sostenibile.
Ricordo che i protagonisti di questa Conversazione sono:
Francesco Toniolo: docente a contratto, si occupa di videogiochi all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e a NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano
Giulia Martino: giurista, scrittrice e critica videoludica. Collabora con il sito «FinalRound» e con il quotidiano «Il Manifesto».
Matteo Genovesi: docente all’Accademia di Belle Arti di Bari, in cui insegna Sceneggiatura per i videogiochi e Multimedialità per i beni culturali.
UnPadPerDue: Ambra (Itarille) e Fabio (Roxas) sono i content creator di UnPadPerDue. Sui social si occupano di horror e videogiochi.
Daniele Doesn’t Matter: al secolo Daniele Selvitella, è un content creator italiano attivo da molti anni sui social. Negli ultimi anni ha iniziato a sviluppare videogiochi horror.
Simone Baldetti: docente universitario esperto dei rapporti tra diritto, religione e videogiochi. Il suo progetto “Giochi Sacri” traduce la ricerca in strumenti pratici per l’industria creativa.
Francesco Toniolo Tra i tanti orrori della contemporaneità, soprattutto nel mondo del lavoro, troviamo quelli della mancanza di senso e dell’impossibilità di comunicare. Pensi che i videogiochi siano riusciti a raccontare questi argomenti? Possono fornirci delle risposte in un mondo che sembra sempre più spaesato?
Giulia Martino Oltre alla sensazione di una incomunicabilità delle nostre esperienze individuali, molti fra noi provano un senso di ineluttabilità verso il sistema in cui viviamo. È famosa la frase del filosofo marxista Fredric Jameson secondo cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Come evidenziato da Saitō Kōhei, che negli ultimi anni, insieme ad altri studiosi, sta curando l’edizione dell’opera omnia di Karl Marx (inclusi suoi appunti finora ignorati), dopo il collasso dell’Unione Sovietica il mondo si è convinto del definitivo fallimento del progetto marxista, e della necessità di risolvere ogni problema – dalla sostenibilità alla parità di genere – all’interno di un’economia di libero mercato. In realtà, delle alternative sono possibili, e filosofi contemporanei come Saitō Kōhei le stanno proponendo. Deforestazione, perdita di preziose nicchie ecologiche, sfruttamento di risorse e manodopera, persone costrette a lasciare la propria città perché non possono pagare l’affitto: sono questi i veri errori del contemporaneo, ma molte persone si sentono in difetto per non riuscire a far fronte alle richieste di un sistema che ci vuole lavoratori per gran parte delle nostre giornate e consumatori per tutto il resto del tempo. E i videogiochi, soprattutto le piccole produzioni, raccontano tutto questo: un esempio è Kentucky Route Zero[1], che nella sua messinscena ispirata al teatro nasconde elementi orrorifici veri e propri, come la trasfigurazione delle persone che non riescono a ripagare i propri debiti verso gli istituti di credito (l’opera tratta, con elementi di realismo magico, il tema della crisi economica del 2008 e dei suoi effetti devastanti sugli Stati Uniti d’America, e non solo) in scheletri.
Matteo Genovesi I videogiochi hanno considerevoli stimoli socializzanti, sia a livello produttivo (me ne rendo conto soprattutto nelle mie classi, quando gli studenti lavorano in gruppo a progetti videoludici simulando il lavoro di piccole compagnie indipendenti in fase di pre-progettazione) così come a livello di fruizione, perché molti titoli incentivano la costituzione di reti sociali attraverso social e blog vari in cui le persone si confrontano tra loro. Ciò vale sia per molti titoli che hanno apposite modalità online ma anche per svariati videogiochi orientati principalmente al single player.
UnPadPerDue Sicuramente ci provano, e ovviamente sta a noi far tesoro di quei messaggi. I videogiochi cercano spesso di proporci degli scenari tragici in cui il problema, grazie ai giocatori, viene risolto. Ci torna in mente l’esempio di Death Stranding: un mondo in cui le persone vivono ormai completamente isolate, e che solo grazie alla collaborazione (in questo caso asincrona), tra i corrieri possono tornare ad essere connesse le une alle altre.
Un bellissimo esempio a parer nostro dell’importanza di ricordarci che nel mondo non siamo soli, e che nonostante gli orrori spesso insensati che ci circondano, nel legame con gli altri possiamo trovare una soluzione.
Un altro titolo che riteniamo di poter inserire in questa piccola analisi è Persona 5 Royal[2], che ben tratta in alcuni momenti l’insensatezza di determinati eventi della vita, eventi che potrebbero portare chi li vive a farsi sopraffare dall’”oscurità”, ma allo stesso tempo presenta la soluzione tramite una comunicazione corretta tra i personaggi.
Daniele Doesn’t Matter Uno dei veri orrori moderni è la comunicazione che non comunica. Riunioni di due ore da cui esci senza aver capito nulla, email con 25 persone in copia in cui non c’è scritto niente di utile. I videogiochi questa sensazione la sanno rendere benissimo. Pensa a Inside[3]: corri e non sai mai perché. O ai miei fantasmi in Scary Shadow Spot[4]: parlano, ma non ti rispondono mai davvero. È la stessa frustrazione che provi con certi colleghi. E no, i videogiochi non ti danno risposte: ma ti allenano a sopravvivere al non-senso, a restare lucido nel caos. In poche parole, se riesci a finire Pathologic[5], puoi anche sopravvivere a una call di tre ore su Teams.
Simone Baldetti Sì, e francamente credo che siano il medium più adatto a farlo. A differenza di un film o di un libro, un videogioco, che ha dalla sua la peculiare e potentissima caratteristica dell’interattività può far vivere la mancanza di senso. Può costringere il giocatore a compiere per ore azioni ripetitive e apparentemente inutili, trasformando il “non-senso” da concetto narrato a esperienza vissuta. Penso a giochi come Death Stranding, la cui intera meccanica si basa sul ricollegare un mondo frammentato e privo di comunicazione, o a narrazioni minimaliste che lasciano al giocatore il compito di costruire un significato in un universo vuoto. I videogiochi non forniscono risposte facili, ma fanno qualcosa di più importante: creano spazi simulati in cui possiamo sperimentare la crisi di senso, e magari allenarci a costruire nuovi significati e nuove connessioni. In questo senso, hanno una funzione di supporto di quella “sostenibilità spirituale” che è stata proposta come la quarta dimensione dello sviluppo sostenibile, e comprende tradizioni culturali, il bagaglio di valori dell’individuo e la ricerca di senso in senso religioso o spirituale. In un mondo del lavoro come quello che hai giustamente descritto, penso che assuma un’importanza non più rimandabile di attenzione.
Francesco Toniolo Molti videogiochi, soprattutto survival horror, ci insegnano a gestire le risorse a nostra disposizione. Pensi che sia una “skill” esportabile? È possibile passare da una partita di Resident Evil a un manager aziendale?
Giulia Martino Non soltanto: molti giochi insegnano che lo scontro fisico non è l’unica possibilità a nostra disposizione, e ci interrogano chiedendoci un cambiamento radicale. Con sommo orrore, giocando a September 12th: A Toy World[6], creato nel 2003 da Gonzalo Frasca, scopriamo che non vi è alcuna possibilità di vittoria. Bombardando una città per sterminare i terroristi, risulta impossibile non coinvolgere anche i civili: i sopravvissuti si cambieranno d’abito e vestiranno la divisa che contraddistingue i terroristi. In September 12th, non esiste una condizione di vittoria: se continuiamo a sparare, i terroristi continueranno ad aumentare. Puro e semplice. Eppure, sembra che nel 2025 questo principio non sia stato ancora compreso. Videogiochi come quello di Gonzalo Frasca ci interrogano e ci permettono di alzarci dalla sedia con una maggiore consapevolezza, regalandoci la possibilità di agire nel mondo reale. Ricomprendo anche September 12th: A Toy World nella mia “atipica lista di videogiochi horror”, se vogliamo definirla così. In questo senso, media espressivi come letteratura e videogiochi possono certamente influenzare i nostri valori e le nostre abilità: in questo senso, tutto ciò che percepiamo e viviamo, anche in uno spazio virtuale, è “esportabile” nella nostra vita quotidiana.
Matteo Genovesi Assolutamente sì, e qui faccio una brevissima deriva teorica. Al di là del multitasking, termine ormai diventato di utilizzo comune, c’è n’è un altro altrettanto interessante che si chiama “telescoping”: in sintesi, questo termine nasce nella psicologia per indicare i processi mentali con cui il cervello umano ordina temporalmente certi impulsi. Nell’ambito videoludico, il telescoping può essere traslato a tutte quelle circostanze (tipiche dei survival horror, ma non solo) in cui l’utente deve gestire le risorse nell’immediato presente con un’ottica sempre proiettata al futuro. Per esempio, se mi trovo di fronte ad alcuni mostri non posso e non devo sprecare tutte le munizioni, perché non posso sapere se avrò la possibilità di trovare altri proiettili in vista dei pericoli successivi. La gestione delle risorse può essere altresì una soft-skill esportabile nella vita lavorativa quotidiana.
UnPadPerDue In realtà potenzialmente sì. Per quanto possa sembrare banale, la gestione di un inventario all’interno di un survival horror porta i giocatori a prendere delle decisioni da cui può dipendere l’esito della partita. I videogiochi possono insegnare tanto anche in relazione alle abilità più basilari. La pianificazione di una consegna in Death Stranding ad esempio richiede capacità organizzative. La semina in Stardew Valley[7] richiede che si tenga conto del passare delle stagioni. In un survival come The Forest la gestione delle risorse fa la differenza tra la vita e la morte.
Potremmo poi citare tutti quei videogiochi puramente gestionali che richiedono effettivamente di amministrare e far fiorire una città.
Esistono team che sviluppano videogiochi per le aziende mirati esclusivamente al team building.
Spesso purtroppo come ben sappiamo, i videogiochi vengono stigmatizzati e classificati come inutili passatempi, ma in realtà basta una minima immersione nel medium per rendersi conto che in realtà non è così.
Daniele Doesn’t Matter Il survival horror è forse la lezione di economia più spietata che ci sia. In Resident Evil se sprechi un’erba curativa troppo presto, poi arrivi al boss e sei condannato. È lo stesso principio che vale nel lavoro e nella vita: se consumi tutte le energie, il tempo o il budget subito, quando arriva la vera emergenza sei già fuori gioco. I survival ti insegnano che gestire le risorse non significa solo accumularle, ma capire quando e come spenderle. È la logica del “trade-off”: ogni scelta ha un costo e una conseguenza. E paradossalmente lo capisci molto meglio in un videogioco che non in un manuale di management, perché lì l’errore non resta teorico: diventa un “Game Over”.
Simone Baldetti Il passaggio diretto può apparire come una forzatura, ma la competenza che si sviluppa è assolutamente reale e trasferibile. La skill esportabile non è tanto la “gestione dell’inventario”, quanto la capacità di prendere decisioni strategiche in condizioni di alta pressione, informazione incompleta e risorse scarse. Il giocatore di un survival horror non sta solo contando proiettili; sta costantemente valutando rischi, pianificando percorsi, decidendo a cosa rinunciare per sopravvivere. È un potentissimo simulatore decisionale. Di certo un manager non imparerà a gestire un budget giocando a Resident Evil, ma può allenare la freddezza, la capacità di prioritizzazione e il pensiero a lungo termine che sono fondamentali in ogni crisi aziendale.
Francesco Toniolo Come pensi si evolverà il mercato del lavoro nei videogiochi? Negli ultimi due anni abbiamo assistito a numerosi licenziamenti e al fallimento di tante produzioni multimilionarie. Si sta riaprendo spazio per progetti più piccoli e mirati?
Giulia Martino Si parla in maniera costante di intelligenza artificiale applicata ai videogiochi soltanto nell’ultimo paio d’anni, ma in realtà le radici dell’utilizzo di IA nel mondo del lavoro videoludico sono molto più profonde. Una delle dimostrazioni sta nel fatto che il manuale più importante in materia, redatto dai professori Georgios N. Yannakakis e Julian Togelius, risale al 2018, ed è giunto alla seconda edizione proprio quest’anno. In realtà, da anni le IA vengono utilizzate in maniera importante per il testing e la generazione di contenuti audiovisivi per i videogiochi, specialmente per le grandi produzioni. Oggi sono anche un supporto importante per piccoli sviluppatori che desiderano creare, con poche risorse a disposizione, un pitch da sottoporre a un publisher. Le intelligenze artificiali stanno portando grandi cambiamenti in tutto l’universo lavorativo, e il settore videoludico non ne è immune, anche perché determinate aziende – come Microsoft, una delle principali Big Corp al mondo – non si occupano soltanto di videogiochi, e potrebbero decidere di contrarre sempre di più il relativo ramo d’azienda, a beneficio di altri settori più profittevoli. Nell’ottica di una decrescita economica controllata e di un radicale cambiamento di sistema – cosa che personalmente trovo essenziale per assicurare la sopravvivenza della specie umana e, in generale, la salute del nostro pianeta – credo che potremmo riscoprire la bellezza di opere più contenute, sviluppate con pochi mezzi e con un modesto dispendio di energie. Esistono già e sono, per me, uno squarcio di futuro.
Matteo Genovesi La situazione dell’industria videoludica sicuramente è molto delicata, ed è complicato immaginare concretamente scenari futuri dopo le ondate di licenziamenti che hanno fatto molto discutere la comunità mondiale. Intanto voglio comunque sperare che le persone che purtroppo hanno perso il lavoro in questo settore così competitivo possano ritrovare al più presto nuove possibilità. Poi ovviamente voglio sperare che gli sviluppatori indipendenti non perdano fiducia in loro stessi e continuino a sperimentare coraggiosamente come hanno sempre fatto. E preciso che non voglio assolutamente criticare le grandi compagnie solo perché preferiscono più spesso puntare su brand già famosi anziché rischiare con nuove IP, sia perché la fama positiva in questo settore va meritata, sia perché la realizzazione di un videogioco ormai può arrivare a costare tantissimi milioni.
UnPadPerDue È triste a dirsi, ma purtroppo ad oggi la creatività nelle produzioni ad altissimo budget, raramente viene premiata. Lo scenario cui ci troviamo sembra favorire le solite formule che hanno funzionato in passato, per paura di assumersi dei rischi. Se da un lato è comprensibile, dall’altro questa meccanica sta distruggendo l’industria dall’interno.
Allo stesso tempo, tuttavia, stiamo assistendo ad una fioritura incredibile del panorama indie, che di giorno in giorno presenta progetti sempre più freschi e audaci. Progetti in cui magari difficilmente in altri contesti si investirebbe, ma che infine si rivelano spesso e volentieri cavalli vincenti.
Da una parte abbiamo una ricerca spasmodica di realismo, dall’altra abbiamo più attenzione per la narrazione e per le meccaniche di gameplay.
Probabilmente se la sorte di Undertale[8] o di Five Nights At Freddy’s[9] fosse dipesa dalle decisioni di una fredda assemblea di investitori, oggi non avremmo due dei videogiochi che hanno aperto la strada al successo dell’indie.
Sì, lo spazio per i progetti più piccoli si sta riaprendo, e per quanto possa essere naive, speriamo che un giorno, anche tra le altissime sfere, le idee possano acquisire più importanza dei soldi.
Daniele Doesn’t Matter Il settore oggi è spaccato in due. Da una parte i giganti che fanno giochi enormi e rischiano di crollare sotto il loro stesso peso. Dall’altra i piccoli team che con due idee forti riescono a creare esperienze memorabili. È un po’ la differenza tra catena di montaggio e artigianato. E la verità è che sono spesso queste esperienze più piccole a restare impresse: i grandi blockbuster ti stupiscono per due settimane; il gioco indie giusto ti resta dentro per anni. È come la differenza tra un fast food e una cena cucinata da tua nonna.
Questo però non significa screditare le grandi produzioni: hanno risorse, talento e capacità che i piccoli studi si sognano. Ma è evidente che gli indie hanno più libertà di sperimentare, perché un loro eventuale flop non è un disastro economico. Al contrario, i colossi devono puntare sempre sul sicuro, perché ogni passo falso può tradursi in centinaia di milioni persi. Forse è anche per questo che figure come Hideo Kojima e colossi come Konami hanno finito per scontrarsi: Kojima spingeva verso la sperimentazione e l’autorialità anche dentro un titolo mastodontico come Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, mentre l’azienda aveva bisogno di garanzie, tempi e ritorni certi. Il risultato è stato un divorzio clamoroso che ha reso evidente quanto la libertà creativa e le logiche industriali possano cozzare tra loro in questo settore.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, la situazione riflette esattamente questa divisione. I grandi studi stanno vivendo una crisi di sostenibilità: basta un insuccesso per generare ondate di licenziamenti, e negli ultimi anni lo abbiamo visto chiaramente. Questo porta a un ambiente lavorativo spesso precario, con team enormi che si riorganizzano di continuo. Allo stesso tempo, però, il terreno fertile è quello degli studi più piccoli: lì i costi sono ridotti, la gestione più flessibile, e si aprono spazi creativi che prima non esistevano. È probabile che nei prossimi anni vedremo un mercato spaccato: grandi colossi sempre più simili a Hollywood, con produzioni miliardarie e rischi altissimi, e una galassia di piccoli team che sperimentano e che spesso lanciano le idee più innovative. In mezzo, purtroppo, rimane un vuoto difficile da colmare, che rende il lavoro nei videogiochi tanto affascinante quanto incerto.
Simone Baldetti Credo che stiamo assistendo non solo a una crisi economica, ma a una crisi del modello di produzione “AAA” basato su una crescita infinita e insostenibile. Questo modello, con i suoi cicli di sviluppo decennali e i suoi budget esorbitanti, rispecchia una logica di iper-produzione che sta mostrando tutti i suoi limiti, sia in termini di sostenibilità lavorativa (il “crunch” e i licenziamenti ciclici) sia di omologazione creativa. La contrazione attuale, per quanto dolorosa, sta forzatamente riaprendo spazi enormi per produzioni più agili, mirate e autoriali. Penso che il futuro vedrà – e forse dovrebbe veder – un ecosistema più diversificato, dove accanto a pochi colossi conviverà un tessuto vibrante di studi di medie e piccole dimensioni capaci di rivolgersi a nicchie specifiche con progetti innovativi e culturalmente più rilevanti.
Francesco Toniolo Chiudiamo con il Pop Management: approccio che fonde cultura pop, filosofia e strumenti narrativi per ripensare l’organizzazione aziendale. Il Pop Management si trova già ben legato al vasto e discusso mondo della gamification, ma può anche imparare qualcosa dai videogiochi? Possono emergere delle reali sinergie?
Un esperimento recente è quello della visual novel Ariminum Circus, tratta dall’omonimo libro di Marco Minghetti, che si inserisce in questo nuovo ibrido pop composto di quiz, interscambi e crossmedialità. Da professionista del mondo videoludico, come valuti simili operazioni?
Giulia Martino Un dialogo tra settori differenti non è soltanto auspicabile: è necessario. Una comunicazione orizzontale tra media, mondo del lavoro e giochi può creare nuovi spazi espressivi in ciascuno dei campi posti in correlazione. Credo che esperienze ludiche multigiocatore possano essere preziose per creare un senso di coesione sul posto di lavoro, e agevolare la conoscenza e la reciproca espressione di bisogni. Il tutto in un’ottica non meramente multidisciplinare, ma metadisciplinare. Con un ripensamento della leadership: leader non è un capo rigido e controllante, ma una persona in grado di creare un clima di collaborazione emergente da cui può nascere non soltanto “un buon lavoro” ma anche “un lavoro buono”, utile non soltanto al sostentamento dei lavoratori, ma anche alla collettività e al pianeta. Nel mondo della crisi climatica e dello sfruttamento delle energie del Sud globale, abbiamo bisogno di una visione a lungo termine per creare benessere, prosperità e accesso alle risorse necessarie per una vita degna per tutti noi, e anche per gli abitanti non umani di questo splendido pianeta.
Matteo Genovesi Questa domanda necessariamente richiama la gamification, uno dei termini più complessi e articolati nel campo dei game studies (e non solo). Creare applicazioni o altri progetti che ibridano prassi videoludiche con attività di vita quotidiana richiede moltissime competenze, ed ha necessariamente implicazioni sociali da tenere in considerazione. Personalmente mi pongo su una posizione intermedia tra coloro che vedono il fenomeno in ottica molto positiva e coloro che invece lo criticano parecchio. Sicuramente bisogna comunque ammettere che si tratta di un argomento assolutamente stimolante, anche perché tende ad essere spesso divisivo, quindi ben venga un progetto come quello di Ariminum Circus, poiché può stimolare ulteriori spunti di riflessione.
UnPadPerDue La gamification è per noi un approccio che può oggettivamente fare la differenza, se usato nel modo giusto, e allo stesso modo riteniamo che il Pop Management possa sicuramente trarre vantaggio dai videogiochi e ci troviamo particolarmente d’accordo con il punto di vista di Jane McGonigal. Il videogioco porta effettivamente ad un’immersione e ad un focus che in altri contesti difficilmente si otterrebbe, e logicamente riuscire ad introdurre meccaniche simili in un qualsiasi contesto di apprendimento o appunto di organizzazione aziendale, può davvero fare la differenza.
Tempo fa ci venne presentato un videogioco utilizzato in un contesto di team building all’interno delle aziende. Il compito dei dipendenti era rivestire i diversi ruoli all’interno di un’astronave e cooperare per far sì che il mezzo potesse arrivare a destinazione.
Ovviamente un approccio come questo si può estendere a qualsiasi età, e dunque potrebbe risultare estremamente efficace anche nelle scuole, ma nell’ambito del Pop Management, per quanto la filosofia alla base sia già interessantissima di per sé, può veicolare in maniera ancora più fluida i concetti e le nozioni.
Daniele Doesn’t Matter Operazioni come Ariminum Circus sono interessanti perché dimostrano che il videogioco può essere molto più di un “passatempo”. Può essere un laboratorio, un esperimento culturale. Le visual novel si prestano bene perché ti fanno vivere scelte e dialoghi, ti fanno riflettere senza metterti un fucile in mano. Nei miei giochi cerco di fare lo stesso: non ti do mostri da abbattere, ma storie da vivere, decisioni da sentire addosso. Il Pop Management, se vuole davvero imparare dai videogiochi, deve andare oltre la gamification da ufficio (“colleziona punti e vinci una tazza”) e abbracciare la parte più profonda: la capacità di farti vivere esperienze che ti cambiano prospettiva. Poi, certo, se ci fosse una classifica aziendale in cui il primo prende un power-up, non mi dispiacerebbe provarla…
Simone Baldetti Il Pop Management, a mio avviso, impara la sua lezione più importante dai videogiochi quando va oltre una “gamification” superficiale, fatta di punti e badge. Il vero insegnamento del videogioco per un’organizzazione aziendale non è come premiare, ma come progettare sistemi motivazionali intrinseci. Un buon gioco ci insegna che le persone si impegnano al massimo quando hanno un obiettivo chiaro (la mission), percepiscono di avere un impatto sul mondo (l’agency) e si sentono parte di una narrazione condivisa. Esperimenti che usano il linguaggio interattivo non per “addolcire la pillola”, ma per esplorare la complessità delle dinamiche umane e organizzative mettendo in scena tutte le potenzialità crossmediali, si rivelano assai preziosi.
Conclusioni
Riassumendo, in questa seconda parte della Conversazione ci siamo occupati di:
Mancanza di senso e incomunicabilità
I videogiochi rendono vivibile il non-senso e allenano a trovare significato in contesti caotici (esempi: Inside, Pathologic, Death Stranding). L’interattività trasforma il tema da racconto a esperienza e sostiene una “sostenibilità spirituale” utile anche nel lavoro.
Le piccole produzioni raccontano crisi sistemiche con linguaggi efficaci (es. Kentucky Route Zero), mentre opere come Persona 5 Royal mostrano come comunicazione corretta e legami sociali offrano vie d’uscita.
Gestione delle risorse come skill trasferibile
La lezione dei survival: la competenza chiave non è l’“inventario”, ma il decision-making sotto pressione con risorse scarse e informazione incompleta; ogni scelta ha costo e conseguenze (logica del trade-off).
Esempi applicativi: pianificazione consegne (Death Stranding), stagionalità (Stardew Valley), priorità e timing (Resident Evil).
Evoluzione del mercato del lavoro nei videogiochi
Settore spaccato: blockbuster ad altissimo rischio e mondo indie in forte vitalità; grandi studi più esposti a licenziamenti e riorganizzazioni, piccoli team più flessibili e innovativi.
Ruolo dell’IA già profondo (testing, generazione contenuti, supporto ai pitch); scenario verso opere più contenute e sostenibili.
Gamification, sinergie e Ariminum Circus
Sinergie reali quando si va oltre punti/badge: il valore sta in obiettivi chiari, agency, narrazione condivisa.
Ariminum Circus come caso utile: ibrido pop e interattivo che stimola riflessione, coesione e sperimentazione metadisciplinare; le visual novel permettono scelte e dialoghi significativi.
Applicazioni: team building, spazi espressivi trasversali, leadership che abilita collaborazione emergente e impatto sociale.
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[1] Un’avventura “on the road” in cui si incontrano misteriosi e bizzarri personaggi durante un viaggio lungo un’autostrada segreta.
[2] Videogioco di ruolo giapponese appartenente alla serie Persona, nota per le sue storie elaborate e per le numerose ispirazioni che trae dal pensiero di Jung.
[3] Un videogioco ambientato in un mondo distopico, in cui si gioca nei panni di un ragazzo in fuga.
[4] Una serie di videogiochi horror sviluppata da Daniele Doesn’t Matter. Al momento conta due episodi: Ultimo Addio e Bicchiere Amaro.
[5] Inquietante e bizzarro videogioco ambientato in un paese delle steppe russe, colpita da un morbo misterioso.
[6] Serious game in cui, nei panni di un soldato, bisogna eliminare dei terroristi con dei missili. Ben presto ci si rende conto che i missili sono volutamente imprecisi e mietono anche vittime civili. I civili superstiti si trasformano in terroristi quando vedono morire i loro cari.
[7] Un videogioco in cui si gestisce una fattoria, alternando le attività lavorative e chiacchierate con gli abitanti del vicino villaggio.
[8] Videogioco indipendente di enorme successo, prodotto da Toby Fox. Si gioca nei panni di un umano che finisce in un mondo di mostri bizzarri e bisogna decidere se combatterli o no.
[9] Nota serie di videogiochi realizzata da Scott Cawthon, da cui sono poi stati tratti anche romanzi e film. Bisogna sopravvivere in una pizzeria popolata da animatronics assassini.
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