Introduzione
Questo Prolegomeno ospita la Parte Prima di una conversazione a più voci che mette in corto circuito videogiochi e lavoro. Il focus è operativo: capire come il medium videoludico illumini pratiche, limiti e possibilità dell’organizzazione contemporanea—produttività, gestione delle risorse, collaborazione, leadership, costruzione di senso.
Il formato è quello collaborativo ormai noto ai lettori. Ricordo comunque che è ispirato a un metodo Delphi adattato: prospettive differenti vengono sollecitate dalle stesse domande per far emergere convergenze, divergenze e punti ciechi. In questo caso, coordinati da Francesco Toniolo, il più noto esperto di videogiochi italiano, che insegna all’Università Cattolica del Sacro Cuore e a NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) , intervengono:
Giulia Martino: giurista, scrittrice e critica videoludica. Collabora con il sito «FinalRound» e con il quotidiano Il Manifesto.
Matteo Genovesi: docente all’Accademia di Belle Arti di Bari, in cui insegna Sceneggiatura per i videogiochi e Multimedialità per i beni culturali.
UnPadPerDue: Ambra (Itarille) e Fabio (Roxas) sono i content creator di UnPadPerDue. Sui social si occupano di horror e videogiochi.
Daniele Doesn’t Matter: al secolo Daniele Selvitella, è un content creator italiano attivo da molti anni sui social. Negli ultimi anni ha iniziato a sviluppare videogiochi horror.
Simone Baldetti: docente universitario esperto dei rapporti tra diritto, religione e videogiochi. Il suo progetto “Giochi Sacri” traduce la ricerca in strumenti pratici per l’industria creativa
Il sottotitolo “Pinball Wizard” (che fa rifermento al noto pezzo di Elton John in Tommy, la rock opera degli Who) indica un principio di leadership preciso: attenzione distribuita, decisioni rapide sotto vincoli, correzioni continue guidate dal feedback. Il flipper non promette controllo totale: chiede tatto, timing, lettura del campo. È una buona immagine di come oggi si guida un team o un progetto: più orchestrazione che comando.
Le tre domande che aprono il confronto toccano nodi cruciali. Primo: il rapporto tra videogiochi e produttività—tra allenamento all’efficienza e capacità critica verso l’iperproduttività. Secondo: l’evoluzione dell’horror come laboratorio narrativo e tecnologico, con ricadute sulla percezione sociale del rischio. Terzo: la figura del “non-eroe” gettato nella complessità, specchio di ingressi lavorativi senza strumenti adeguati e della necessità di apprendere in corsa.
Dalla discussione emergono pattern utili a chi progetta organizzazioni: chiarezza degli obiettivi e dei feedback, progettazione di ambienti che favoriscano curiosità e responsabilità, consapevolezza dei costi umani dell’iper-ottimizzazione, dignità dell’errore come informazione. È il primo passo per una Leadership Pop che attinge alla cultura videoludica non per imitazione, ma per trarne strutture di pensiero e pratiche verificabili.
Francesco Toniolo. Molti giochi premiano l’efficienza, la produttività, il multitasking continuo. Pensi che i videogiochi possano aiutarci in modo positivo a riflettere sul nostro rapporto con la produttività? O finiscono solo per essere l’ennesimo strumento che ci abitua all’iperproduttività?
Giulia Martino Nell’ambito dei cosiddetti “cozy videogames” (potremmo tradurre l’espressione come “videogiochi rilassanti”) sta guadagnando sempre più spazio la nicchia dei simulatori di lavoro. Per fare un esempio recente: nel videogioco Tiny Bookshop[1] gestiamo un piccolo baracchino che vende libri usati in una splendida cittadina sul mare. In sostanza, molte persone desiderano lavorare all’interno dei videogiochi dopo aver passato una giornata a lavoro: non dimentichiamo che l’età media dei videogiocatori è di 34 anni, ben più alta di ciò che molti pensano. Credo che il fenomeno possa essere spiegato (almeno in parte) con la ricerca di un appagamento che spesso nella vita non otteniamo: la chiara connessione tra sforzo e risultato che si ottiene all’interno di molti spazi virtuali. In altre parole, solitamente nei videogiochi sappiamo che a una determinata azione corrisponderà un effetto di un certo tipo. Questa “chiarezza” manca completamente nel mondo del lavoro contemporaneo, anche in professioni un tempo considerate “sicure”. Il caso dei simulatori di lavoro è per me emblematico quando si parla di produttività e videogiochi, ma naturalmente non è l’unico esempio possibile, né tantomeno l’unico ambito da analizzare: esattamente come cinema e letteratura, anche il mondo dei videogiochi è uno spazio artistico che riflette le contraddizioni dell’essere umano come singolo e come collettività.
Matteo Genovesi Certo, la fruizione videoludica può sicuramente condurre a dei benefici che hanno potenzialità trasversali nella vita quotidiana, incluso quello relativo ad una maggiore produttività legata all’abitudine di gestire un grande numero di stimoli audiovisivi contemporaneamente. Tuttavia, è importante sottolineare che un utilizzo eccessivo di qualsiasi medium può avere l’effetto opposto: da grande appassionato e docente videoludico, sottolineo spesso di bilanciare la fruizione videoludica con altre attività per evitare qualsiasi rischio di potenziale dipendenza.
UnPadPerDue Il tema dell’iperproduttività, neanche a farlo apposta, è forse ciò che maggiormente nell’ultimo periodo ha caratterizzato la nostra esperienza videoludica.
Il ritorno di Death Stranding[2] ci ha messi nuovamente nei panni di Sam Porter Bridges, e ci ha dunque reinseriti in quel circolo vizioso di consegne, ricostruzioni stradali e conseguenti scariche di dopamina. Ci siamo trovati spesso a chiederci perché consegnare un pacco smarrito o ricostruire un binario della monorotaia ci facesse sentire così soddisfatti, talmente soddisfatti, alle volte, da dimenticarci di proseguire con la trama principale.
Probabilmente nel momento in cui si gioca non ci si pensa, ma esperienze come Death Stranding possono effettivamente diventare uno specchio dell’approccio alla vita.
Esistono i giocatori più sbrigativi, che vanno dritti al punto, come esistono i giocatori più meticolosi, che vogliono dare il massimo anche se si tratta di un videogioco, e magari nel mezzo troviamo invece quei giocatori che lavorano quel tanto che basta a facilitarsi la vita e portare a casa la pagnotta. Capire in quale categoria ci si inserisca può già di per sé diventare una riflessione sul proprio rapporto con la produttività.
In risposta alla domanda, ci troviamo decisamente più vicini al considerare i videogiochi un aiuto positivo in termini di conoscenza di sé. La cosa importante, a nostro parere, è cercare di essere sempre giocatori “attivi”. Eseguire sì i compiti richiesti dal gioco, ma provare a farlo con curiosità, ponendosi domande sul perché si stia magari scegliendo la soluzione A, rispetto alla soluzione B.
Evitare dunque di giocare in “pilota automatico”, ma prendere il gioco come un’ulteriore occasione per conoscere sé stessi.
Daniele Doesn’t Matter Molti giochi ti spingono a fare sempre di più, più in fretta e con meno errori. È la stessa logica che troviamo nel lavoro: obiettivi, performance, multitasking. Il rischio è quello di diventare l’ennesimo ingranaggio che macina ore. Però c’è anche il lato opposto: i videogiochi possono farti riflettere su quanto sia alienante vivere solo per essere efficienti. Nei miei horror, ad esempio, non vinci correndo o facendo mille cose insieme: vinci fermandoti, osservando, leggendo tra le righe. Se un gioco riesce a rallentarti, a farti domandare “perché sto facendo questo?”, allora non ti abitua all’iperproduttività, ma ti offre un antidoto.
E poi c’è un paradosso personale che ho vissuto anch’io: spesso, per mancanza di tempo, ci si rifugia nel giochino “casual” da smartphone, pensando che rubi solo due minuti. In realtà sono proprio quelli che finiscono per risucchiarti più ore. Ti obbligano a vedere pubblicità per ottenere risorse, ti chiedono di collegarti più volte al giorno a orari precisi, ti spingono a tornare continuamente per non perdere progressi. Alla fine diventano un secondo lavoro mascherato: azioni da ripetere, notifiche da inseguire, routine da rispettare. È assurdo, ma un titolo “leggero” da telefono può diventare molto più impegnativo e stressante di un gioco tradizionale da console o PC, che almeno ti chiede una sessione concentrata e finita. Ed è lì che ti accorgi di come certi meccanismi non ti stiano intrattenendo, ma allenando all’iperproduttività senza che tu te ne renda conto.
Simone Baldetti In teoria, i videogiochi svolgono un doppio ruolo, quasi ambivalente. Da un lato, molte meccaniche di gioco, specialmente nei generi strategici o gestionali, siano vere e proprie palestre di ottimizzazione: ci addestrano a massimizzare i risultati minimizzando le risorse e il tempo. In questo senso, possono certamente rinforzare una mentalità iperproduttivista. D’altro canto, e questo è l’aspetto che trovo più interessante, i videogiochi sono anche uno degli strumenti culturali più potenti per una critica radicale a quella stessa iperproduttività. Penso a giochi che rendono il “grind”, la ripetizione ossessiva di compiti, una meccanica volutamente alienante, costringendo il giocatore a interrogarsi sul senso del proprio agire, o a quei titoli in cui è il contesto narrativo a rendere esplicito al giocare un contesto di insensata iperproduttività. Traslato nel contesto lavorativo, la storia del videogioco NieR: Automata[3] ci mostra delle vere e proprie macchine in forma umana (gli androidi) che sentono la necessità di scopi e bisogni che vadano oltre il loro “lavoro”. In questo, le chiavi di lettura che consente il videogioco agiscono come uno specchio critico. Ci permettono di riflettere sulle storture di un sistema lavorativo che spesso ci chiede di essere macchine efficienti, dimenticando i nostri bisogni come esseri umani complessi.
Parliamo di videogiochi horror, visto che da sempre sono una fucina di narrazioni e un interessante specchio della società. Come si stanno evolvendo? Secondo te quali percorsi esploreranno in futuro?
Giulia Martino Posso parlare delle mie speranze: un horror che finalmente riesca ad affrancarsi dall’immaginario lovecraftiano – che trovo dominante nelle esperienze appartenenti a questo genere – per trovare strade diverse, magari legate a temi sociali. Negli ultimi anni, ho maturato la convinzione che il vero orrore non sia tanto in mostri provenienti dalle ombre (magari dotati di un numero disturbante di tentacoli), ma nel mondo del lavoro, nella nostra gestione delle risorse planetarie, in un sistema economico che cerca di proiettare i suoi problemi e contraddizioni nel Sud globale, in modo tale da renderli invisibili a chi beneficia dello sfruttamento di manodopera a basso costo. Quando ho giocato Phone Story[4], videogioco prodotto dal collettivo Molleindustria che svela il lato oscuro di ogni smartphone, ossia il processo produttivo dei nostri telefoni cellulari, mi sono trovata inorridita e spaventata dai quattro scenari rappresentati. E, di recente, mi sono trovata a pensare che in realtà Phone Story potrebbe rappresentare un punto di riferimento per un nuovo modo di intendere l’orrore videoludico: una sfida al genere e ai giocatori stessi, e alla nostra capacità, come esseri umani, di guardare le reali condizioni del mondo in cui viviamo, senza proiettare i nostri timori in scenari oscuri e astratti, che spesso risultano molto ripetitivi.
Matteo Genovesi Rispondere sinteticamente a una domanda simile è un’impresa molto ardua, dal momento che una cospicua parte della mia passione videoludica è cresciuta attraverso la saga di Resident Evil[5]: in estrema sintesi, posso dire che tradizionalmente l’horror è sempre stato un macro-genere che si è sempre legato necessariamente agli studi culturali, e che la declinazione videoludica dei survival-horror non è mai stata da meno, anzi. Inoltre, come poi ho avuto modo di evidenziare nel mio articolo “L’ottovolante della paura: un’analisi tra spazio e tempo nella saga di Resident Evil”, la sensazione della paura è talmente profonda al punto che ogni survival horror può incentivarla attraverso variegate strategie di design, accomunate dall’obiettivo di far percepire una delle più ancestrali sensazioni umane. L’esistenza sempre più numerosa di survival horror che da un lato stimolano paura in contesti narrativi dove i protagonisti sono armati, così come la presenza di altri videogiochi che dall’altro lato incentivano paura attraverso situazioni in cui i protagonisti sono costantemente disarmati, sottolineano che le potenzialità di questo genere videoludico sono ampie.
UnPadPerDue Per rispondere a questa domanda, dobbiamo sicuramente volgere lo sguardo alle produzioni indipendenti. Se è vero che da una parte abbiamo titoli che ben conosciamo e che nel bene o nel male, pur evolvendosi in determinati aspetti, non osano più di quel tanto, dall’altra abbiamo un’evoluzione nell’indie horror che ha portato a tanti piccoli capolavori.
Abbiamo tentativi sempre più violenti di rottura della quarta parete, e probabilmente la direzione che si cercherà di prendere in futuro andrà sempre più in quella direzione. Ormai per spaventare il giocatore non si può più contare sul mero spavento, le persone sanno bene di essere al sicuro nelle proprie case. Se fossimo noi stessi sviluppatori, prenderemmo come sfida per il futuro proprio la distruzione di quella certezza di sicurezza.
Daniele Doesn’t Matter L’horror nei videogiochi è cambiato tantissimo. Prima c’erano zombie e munizioni contate, oggi ci sono soprattutto silenzi, attese e inquietudine. Il punto di svolta lo ha segnato Silent Hills P.T.[6] di Kojima, che con un semplice corridoio ripetuto all’infinito ha riscritto le regole: non servono più boss enormi o arsenali, ma un’atmosfera che ti entra sotto pelle. Dopo quel momento sono nati tantissimi cloni, tutti basati su ambienti angoscianti e un horror più psicologico che survival. È difficile immaginare il futuro, ma una cosa è certa: l’horror ha sempre lavorato con la “pancia”, con i sensi. Quindi è facile pensare a giochi che sfrutteranno ancora di più microfono, webcam, file del tuo PC… esperienze in cui non sei tu a giocare con il gioco, ma è il gioco a giocare con te.
Simone Baldetti L’evoluzione del videogioco horror è affascinante perché segue di pari passo l’evoluzione delle nostre paure collettive. Siamo passati dall’orrore di “mostri” in senso fisico (numerosissimi sono i videogiochi lo zombie è il mostro per antonomasia), a un orrore sempre più interiorizzato, psicologico ed esistenziale. Credo che nei prossimi anni il genere esplorerà sempre di più le paure immateriali: l’orrore della disinformazione e di non poter distinguere il vero dal falso, della perdita di identità in un mondo digitale, al terrore di essere “cancellati” o di diventare irrilevanti. Dal mio punto di vista, vedo una convergenza tra l’horror e le questioni di convivenza nelle moderne società multiculturali: la paura non nascerà più solo dal “diverso” mostruoso, ma dalla disintegrazione dei sistemi di regole e di valori condivisi che tengono insieme una società, lasciando l’individuo solo e senza punti di riferimento in un mondo incomprensibile.
Francesco Toniolo Molti protagonisti dei giochi horror non sono eroi classici, ma persone normali messe in situazioni estreme. Questo è coerente col senso di difficoltà e di minaccia che devono evocare.
Ti sembra che questo tipo di narrazione rispecchi certe esperienze lavorative in cui si viene “gettati nella mischia” senza strumenti adeguati?
Giulia Martino Come spiegavo sopra, tendo a ricondurre al genere horror anche esperienze che non sono considerate tali dalla maggioranza del pubblico. Includo in questo ambito un videogioco in cui interpretiamo un lavoratore, precisamente un ispettore di frontiera addetto al controllo immigrazione nello Stato fittizio di Arstotzka. Il gioco si chiama Papers, Please e, man mano che le giornate di lavoro proseguono, scopriamo quanto è difficile coniugare lo svolgimento dei controlli secondo le direttive date dal regime del nostro Paese con la nostra personale bussola morale. E se commettiamo degli errori o comunque decidiamo di non rispettare le regole – magari per assicurare un ricongiungimento familiare che altrimenti sarebbe impossibile – il nostro stipendio decresce, e possiamo trovarci ad affrontare la morte dei nostri cari per fame o per il freddo. Ecco, trovo che più che per “inadeguatezza dei mezzi” tra i giovani vi sia un crescente rigetto del mondo del lavoro per come quest’ultimo è strutturato: tra molte persone matura la consapevolezza della completa futilità dei compiti dati (presentazioni PowerPoint che in realtà non interessano a nessuno; raccolte di dati al servizio di compagnie che non hanno a cuore la salute e il benessere delle persone a cui i loro servizi sono destinati; e molto altro ancora). E quindi: il vero orrore risiede in molte sezioni del mondo del lavoro stesso, e Papers, Please è un esempio ludico chiaro di come le energie lavorative possano essere impiegate in maniera perversa e dannosa. Credo che questa consapevolezza faccia maturare un senso di rigetto in molti lavoratori capaci e consapevoli dei propri mezzi.
Matteo Genovesi Molti survival horror effettivamente gettano nella mischia in situazioni di immediato pericolo, come accade nell’avvio del mio amatissimo Resident Evil 2. In tali casi, così come i nostri personaggi sono chiamati a fare tesoro dei pochi strumenti che hanno, il giocatore deve velocemente abituarsi alle meccaniche per arrivare a performare dinamiche utili alla sopravvivenza. Bisogna inoltre precisare che spesso le strategie di design nei survival-horror hanno giustamente enfatizzato il potenziale senso di inadeguatezza del nostro personaggio di fronte a certi pericoli: anche quando per esempio prendiamo il controllo di un ormai esperto, abile e armatissimo agente come Leon Scott Kennedy in Resident Evil 4, ritrovarsi di fronte a creature enormi, veloci e potenti ci fa sentire eccome in pericolo. Valorizzare le nostre risorse in brevi archi temporali sotto pressione è una delle potenzialità trasversali che a partire dai videogiochi possono effettivamente essere applicate a molti contesti lavorativi.
UnPadPerDue Assolutamente sì! Abbiamo vissuto esperienze del genere in prima persona. La scuola nella maggior parte dei casi non prepara assolutamente al mondo del lavoro, e per una persona, soprattutto se alla prima esperienza, può tramutarsi in un vero e proprio incubo. Tutto ovviamente dipende anche dall’empatia del datore di lavoro, ma il più delle volte ci si trova di fronte a sfide più grandi di noi, e l’unico modo per superarle è rimboccarsi le maniche e cercare la soluzione.
In un periodo come questo personaggi “incapaci” sono forse la scelta migliore, poiché tutti noi lo siamo, e nessuno ha bisogno di un eroe senza difetti né paure che possa addirittura farci sentire in difetto.
Certo l’utilizzo di personaggi impauriti e impreparati non è una novità, basti pensare a Jennifer di Rule of Rose[7], ma presumibilmente all’epoca, complice un gameplay oltremodo legnoso, il massimo sentimento che poteva suscitare nel giocatore era una forte irritazione.
Il fatto è che forse quello semplicemente non era il periodo giusto per una protagonista del genere. Oggi forse empatizzeremmo maggiormente con lei, proprio perché il periodo storico in cui ci troviamo ci rende molto più affini ad una Jennifer, piuttosto che ad un Chris Redfield (uno dei protagonisti di Resident Evil).
Daniele Doesn’t Matter Ecco perché l’horror funziona: i protagonisti sono persone normali buttate in situazioni folli. Non supereroi, ma gente che potrebbe essere il tuo vicino di casa. È la stessa sensazione che provi quando al lavoro ti dicono “ti occupi tu di questo progetto?” e tu non hai idea neanche di cosa stiano parlando. Nel mio gioco di prossima uscita Ramona c’è Samuel, un giornalista normale, che entra in una casa e si trova davanti un incubo. È come se ti invitassero a una riunione “tranquilla” e ti ritrovassi a dover parlare di budget internazionali. Lì capisci che l’ansia di un corridoio buio e l’ansia di una riunione senza strumenti… sono sorelle gemelle.
Simone Baldetti L’analogia è – tristemente – calzante. Il protagonista dell’horror che si risveglia in un luogo sconosciuto, senza strumenti e con regole incomprensibili, ricorda il senso di horror vacui (appunto) di affronta per la prima volta il mondo del lavoro dopo la fine di un percorso di studi, o di chi si ritrova in un ambiente aziendale, istituzionale o professionale sconosciuto.
“Troverò un lavoro? Ho fatto abbastanza o sto facendo abbastanza per farmi notare e selezionare?” sono domande tipiche di chi si affaccia nel mondo del lavoro e che sembrano non avere mai una risposta soddisfacente, come accade quando ci si affronta con orrori e abomini dell’ignoto di un videogioco come Bloodborne[8].
Rispetto ai nuovi ambienti di lavoro, spesso si viene “gettati nella mischia” con aspettative di performance immediata, ma senza un’adeguata formazione, senza un chiaro sistema di supporto, in particolare per quei casi in cui si affrontano apparati istituzionali davvero intricati e che possono apparire arcani per chi li vede da fuori. Penso alle esperienze dei praticanti avvocati e allo straniamento “orrorifico” di chi affronta per la prima volta le intricate formalità delle cancellerie dei tribunali, o degli uffici della Procura in cui occorre prestare l’attenzione che merita il luogo dove si esercita l’azione penale. Si impara cammin facendo e si cerca di sopravvivere, non sempre essendo dotati dei mezzi necessari. Ancora una volta, un po’ come in Bloodborne.
Conclusioni
Questa prima tappa della conversazione collaborativa che indaga i nessi fra leadership e pratiche videoludiche ha messo in luce tre aspetti:
1) Produttività: strumento e antidoto.
I videogiochi possono rafforzare l’iper-ottimizzazione (loop di compiti, premi, routine), ma possono anche renderla visibile e quindi discutibile. Il valore organizzativo sta nel progettare feedback chiari, cicli brevi di apprendimento, pause intenzionali e limiti espliciti al “grind”.
2) Horror come laboratorio.
Dal mostro all’inquietudine, dall’azione al dubbio: l’horror videoludico evolve con le nostre paure sociali. Per il lavoro significa allenarsi a leggere segnali deboli, gestire l’incertezza, riconoscere quando la promessa di sicurezza è una convenzione di design.
3) Il non-eroe competente.
Personaggi ordinari in contesti straordinari rispecchiano ingressi professionali senza strumenti adeguati. Serve un onboarding che combini regole minime, tutoraggio leggero e spazi di prova sicuri, trasformando l’errore in informazione e non in colpa.
[1] Un videogioco gestionale narrativo in cui gestiamo una piccola libreria vicino al mare.
[2] Un videogioco ambientato in un mondo postapocalittico in cui dobbiamo consegnare merci in luoghi isolati e riconnettere gli Stati Uniti. Qualche mese fa è stato pubblicato Death Stranding 2.
[3] Un videogioco di fantascienza in cui un gruppo di androidi combatte le macchine aliene che hanno invaso il pianeta. NieR: Automata è famoso per l’abbondanza dei temi filosofici citati al suo interno.
[4] Un videogioco per smartphone che critica la filiera produttiva dei telefoni cellulari. Viene spesso citato come esempio di videogioco che utilizza appositamente il medium stesso a cui muove delle accuse.
[5] Una delle più famose saghe horror videoludiche, su cui sono stati anche realizzati diversi film. Nei giochi che compongono la serie bisogna sopravvivere combattendo zombie e mostri mutanti.
[6] Un videogioco mai pubblicato, di cui era presente solo una demo (una ridotta versione di prova). Nonostante questo, P.T. ha riscosso un enorme successo e ha fortemente plasmato l’immaginario dei videogiochi horror dopo il 2014.
[7] Videogioco horror del 2006 in cui si gioca nei panni di Jennifer, un’adolescente bullizzata da altre ragazze.
[8] Videogioco ispirato al gotico e ai racconti di H.P. Lovecraft in cui bisogna combattere orribili creature nelle strade di una cupa città immaginaria.
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