La terza e ultima parte di questa Conversazione Collaborativa si concentra sul futuro del lavoro e sul ruolo delle organizzazioni come comunità generative di senso, in un contesto in cui l’identità individuale potrebbe progressivamente sganciarsi dal lavoro come suo fondamento.
Curata da Valerio Flavio Ghizzoni, ha coinvolto:
Stefano Bottaro – HR Director, Avio
Mihaela Gavrila – Professoressa di Media Studies, Università La Sapienza di Roma
Michela Matarazzo – Professoressa Ordinaria di Management e Marketing Internazionale, UniMarconi
Fabrizio Tripodi – Global People Leader, Brown-Forman (Jack Daniel’s)
Roberto Zecchino – Senior HR Advisor, docente e formatore.
Marco Minghetti: La rapida diffusione di tecnologie come l’intelligenza artificiale e l’automazione sta ridisegnando il lavoro e il suo ruolo nella costruzione dell’identità personale e collettiva. Questo potrebbe aprire uno spazio di vuoto narrativo: se il lavoro non è più il perno dell’esistenza umana, quale sarà la nuova base per costruire senso e coesione sociale?
Se il lavoro perdesse il suo ruolo centrale nella costruzione dell’identità umana, quale sarebbe il ruolo dell’organizzazione nel costruire appartenenza e scopo? Dobbiamo riscoprire narrazioni antiche o inventarne di completamente nuove?
Stefano Bottaro – HR Director, Avio
La domanda è molto interessante, perché tocca il cuore delle trasformazioni sociali e organizzative in atto. Se il lavoro sta perdendo la sua centralità come pilastro dell’identità umana – un’ipotesi sempre più plausibile in un’epoca segnata da automazione, flessibilità e dalla ricerca di significato anche al di fuori della professione – allora il ruolo dell’organizzazione nel costruire appartenenza e scopo diventa ancora più critico, ma anche profondamente diverso.
Tradizionalmente, l’organizzazione ha offerto appartenenza attraverso un’identità professionale condivisa (“Siamo ingegneri”, “Siamo consulenti di X”, “Lavoriamo per l’azienda Y”) e uno scopo legato agli obiettivi aziendali (produrre, vendere, innovare in un certo settore). Ma se il lavoro si sfilaccia da queste definizioni identitarie, l’organizzazione deve evolvere in qualcosa di più simile a una comunità di scopo, che trascende la mera attività lavorativa.
Non si tratterebbe più solo di un luogo dove si “guadagna la vita”, ma anche di uno spazio dove si può “vivere la vita” in modo più pieno. Questo implica offrire opportunità di sviluppo personale – dalle soft skills al benessere, dalla crescita individuale alla sperimentazione – che risuonino con i valori delle persone, anche se non direttamente legate al core business.
Se l’identità non è più definita dal ruolo, l’appartenenza si costruisce attraverso la qualità delle relazioni umane. L’organizzazione dovrebbe facilitare legami autentici, reti di supporto, amicizie, creando spazi – fisici e digitali – per l’interazione informale, la collaborazione su progetti non strettamente lavorativi (come iniziative di CSR o club di interesse) e la celebrazione delle diversità individuali.
Lo scopo, inoltre, non può più essere solo il profitto o la crescita del mercato. Deve diventare un “perché” che risuona con un impatto positivo sul mondo, sulla società o sull’ambiente. Questo scopo, per quanto ambizioso, deve essere abbastanza flessibile da adattarsi al cambiamento, ma anche sufficientemente radicato da fungere da faro stabile in un mondo fluido. È un proposito che dà energia, piuttosto che drenarla.
L’appartenenza nasce così dal sentirsi parte di un’entità che valorizza non solo il contributo lavorativo, ma anche il percorso di crescita personale di ciascuno. L’organizzazione diventa una piattaforma per l’apprendimento continuo, la sperimentazione di nuove identità e ruoli, e il supporto reciproco nella scoperta del proprio significato. In questo contesto, il purpose diventa un faro che guida l’individuo all’interno dell’organizzazione.
Michela Matarazzo – Professoressa Ordinaria di Management e Marketing Internazionale, UniMarconi
Secondo il rapporto di Goldman Sachs (2023) 300 milioni di posti di lavoro saranno automatizzati, ma si creeranno anche molti nuovi lavori e, per effetto dell’aumento esponenziale della produttività, i lavoratori dismessi usufruiranno di nuove opportunità di lavoro. Questo quadro depone a favore di scenari che ancora conservano una componente umana prevalente, sebbene concepibile sempre più in costante interazione con la macchina. L’automazione dei processi decisionali richiede un ripensamento profondo dei modelli di business: dalla digital alla business transformation.
I vertici aziendali dovranno impegnarsi nella definizione di una leadership rinnovata educando i manager a pensare in modo strategico all’adozione dell’intelligenza artificiale, guidando i loro team nel processo decisionale basato sull’intelligenza artificiale e nella trasformazione del flusso di lavoro. Sarà di cruciale importanza investire in programmi di riqualificazione per ruoli emergenti: a mano a mano che l’intelligenza artificiale automatizza le attività routinarie e ripetitive emergeranno nuovi ruoli alimentati dalla creatività umana, dalla risoluzione dei problemi e dalla supervisione.
L’impresa deve essere in grado di rapportarsi al mercato del lavoro in maniera proattiva, anticipando il futuro e immaginando le nuove esigenze di lavoro e i percorsi che consentono ai lavoratori di progredire verso lavori di alto valore, non automatizzabili (abilità di sviluppare capitale sociale, interazioni umane complesse basate sull’empatia, capacità decisionale e di giudizio, capacità creative). In questa nuova complessità la componente umana diventa più rilevante che mai, perché non più relegata a ruoli ripetitivi e, come tali, automatizzabili, ma promossa a ruoli di alto profilo ed elevata qualificazione che si alimentano del pensiero creativo e proattivo e di schemi mentali ispirati al paradosso (paradoxical frame).
Anche la narrazione dovrebbe ispirarsi al paradosso, ricomponendo ad unità logica la contraddittorietà degli elementi, bilanciando l’automazione con la supervisione umana: gli individui, siano essi lavoratori o consumatori vogliono sentirsi compresi e rispettati. Per questo la narrazione deve basarsi su intelligenza emotiva, autenticità e processo decisionale etico, elementi che da sola l’IA non può garantire.
Mihaela Gavrila – Professoressa di Media Studies, Università La Sapienza di Roma
Per quanto ultimamente sembriamo programmati per funzionare e un po’ meno per esistere, mi piace pensare a un’inversione di tendenza e a un ritorno agli insegnamenti della filosofia classica, che vede l’essere umano immerso in un continuo percorso di negoziazione, di scelta e di costruzione del proprio senso nel mondo. E questo percorso non passa solo per il lavoro – per quanto siamo stati abituati a considerarlo una dimensione fondamentale del nostro cammino identitario – ma si nutre anche della qualità delle relazioni con sé stessi, con gli altri e con il mondo.
Un riequilibrio tra il tempo del lavoro e quello della riflessività e della dimensione ludica – che condivide alcune caratteristiche con il lavoro, ma è più intrinsecamente legata al piacere – potrebbe giovare sia alle persone che alle organizzazioni, offrendo lo spazio per staccarsi dal presentismo (Morin, 1967) e tornare a progettare e a sognare.
Nel lavoro di riprogettazione organizzativa, molto passa per il recupero e la valorizzazione delle narrazioni: quelle antiche, spesso custodite nei ricordi delle persone o nei cassetti impolverati dei musei d’impresa, e quelle più recenti, disperse nell’archivio digitale della memoria collettiva. Le vecchie storie ci ricordano quanto fosse faticoso sognare in tempi dominati dall’etica del lavoro e del risparmio. Eppure, non si smetteva di progettare, e si aveva il coraggio di assumersi il rischio dell’impresa.
Oggi, in una fase in cui si prospetta la possibilità di lavorare meno e vivere di più, possiamo provare a liberare le menti dalle narrazioni divisive e a generare storie che uniscano. La storia imprenditoriale italiana è ricca di esempi di “lavoro dopo il lavoro”: pensionati che continuano a offrire tempo, esperienza e saggezza alle comunità aziendali che sentono come casa. Perché non prendere spunto da queste esperienze, raccontarle e renderle esemplari?
Recuperare il valore dell’ozio creativo, in pieno spirito demasiano (De Masi, 2002), potrebbe aprire le porte a un nuovo modo di vivere le organizzazioni. Magari lasciando ai robot i compiti più rischiosi e ripetitivi, e restituendo alle persone lo spazio per coltivare la coscienza critica. Così, le organizzazioni potrebbero smettere di essere cimiteri di idee e diventare vere e proprie sale parto (Eco, 1968) per la progettualità futura.
Fabrizio Tripodi – Global People Leader, Brown-Forman (Jack Daniel’s)
Ci troviamo di fronte a una trasformazione epocale. L’Intelligenza Artificiale e l’automazione stanno rivoluzionando il modo in cui lavoriamo, spingendoci a riflettere sul ruolo futuro del lavoro come pilastro della nostra identità e della coesione sociale. Se il lavoro dovesse perdere la sua centralità, si aprirebbe un “vuoto narrativo” che, come organizzazioni, dobbiamo essere pronti a colmare.
La domanda fondamentale è: quale sarà il ruolo dell’azienda nel costruire appartenenza e scopo in un mondo dove il lavoro è meno centrale? Dobbiamo attingere al passato o guardare a un futuro completamente nuovo?
In questo nuovo contesto, il nostro compito sarà riscoprire il valore umano oltre la mansione. Le aziende dovranno valorizzare qualità come creatività, pensiero critico, empatia, capacità di risolvere problemi complessi. Il lavoro potrebbe non essere più il “chi siamo”, ma il “cosa facciamo per contribuire”. La narrazione aziendale dovrà mostrare come queste qualità generano valore non solo per il business, ma anche per la società.
Le narrazioni centrate sullo scopo diventeranno fondamentali. Le organizzazioni dovranno rafforzare la propria “ragione d’essere” al di là del profitto. Missione, impatto sociale e ambientale, contributo alla comunità: saranno questi i temi centrali per creare senso. Anche in un contesto di automazione, i dipendenti cercheranno significato nel proprio contributo. Comunicare chiaramente perché esistiamo e quale differenza facciamo sarà essenziale.
In un mondo dove il lavoro non è più l’unica fonte di identità, l’azienda può diventare un luogo di connessione. Favorire reti, iniziative sociali, spazi per lo sviluppo personale, anche al di fuori della job description, sarà parte integrante della nuova narrazione. Le persone cercheranno luoghi dove crescere, imparare, sentirsi parte di una comunità.
Se il lavoro diventa più fluido, sarà cruciale promuovere lo sviluppo continuo e riconoscere la capacità di adattamento. Celebrare non solo i risultati, ma anche la crescita personale e la resilienza, contribuirà a costruire fiducia e motivazione.
Possiamo anche costruire un ponte tra antico e nuovo: recuperare narrazioni legate alla maestria, alla cura, alla collaborazione, e allo stesso tempo abbracciare nuove visioni che integrano uomo e macchina, creatività aumentata e lavoro come espressione personale.
In conclusione, il futuro non ci chiede di abbandonare il valore del lavoro, ma di ridefinirlo. Non sarà più la mansione o il numero di ore a definire chi siamo, ma la qualità del nostro contributo, la forza dello scopo condiviso e la capacità di costruire comunità. Come Direttori Risorse Umane, il nostro compito sarà guidare questa transizione, facendo in modo che l’azienda resti un luogo dove le persone trovano significato, connessione e senso, anche in un mondo del lavoro in continua evoluzione.
Roberto Zecchino – Senior HR Advisor, docente e formatore
Se il lavoro perde la sua centralità nell’identità umana a causa dell’Intelligenza Artificiale e dell’automazione, le organizzazioni si troveranno a dover colmare un vuoto narrativo cruciale per mantenere appartenenza e scopo.
Non si tratta semplicemente di recuperare vecchie storie o inventarne di nuove, ma di ripensare profondamente il ruolo delle narrazioni nel generare significato. Le organizzazioni dovranno innanzitutto elevare il proprio scopo oltre il profitto, trasformandosi in veicoli di impatto positivo per la società, il pianeta e le comunità. Questo scopo trascendente potrà diventare il nuovo perno dell’identità collettiva, capace di attrarre chi cerca significato oltre la mera occupazione.
L’appartenenza non sarà più legata alle mansioni, ma all’allineamento con i valori etici e culturali dell’organizzazione. Le narrazioni dovranno celebrare la comunità interna come luogo di crescita personale, apprendimento continuo e supporto reciproco, indipendentemente dai ruoli formali.
Sarà essenziale incentivare la co-creazione di senso: offrire spazi dove le persone possano costruire insieme nuove narrazioni, legate alle proprie passioni, ai talenti emergenti e ai contributi non necessariamente connessi al lavoro. Questo include il sostegno a progetti personali, iniziative creative o attività di volontariato, integrandole nella storia collettiva dell’organizzazione.
Infine, sarà importante riscoprire e reinterpretare l’eredità umana. Possiamo attingere a narrazioni antiche – come quelle legate all’artigianato o alla cura – non per tornare indietro, ma per proiettarle in un futuro post-lavoro intensivo. Allo stesso tempo, dovremo inventare narrazioni nuove, che celebrino la creatività, la curiosità, l’apprendimento continuo e la collaborazione come nuove forme di valore e realizzazione personale, slegate dall’attività retribuita.
In sintesi, le organizzazioni del futuro saranno costruttrici di significato, non solo produttrici di beni o servizi. La loro narrazione dovrà evolvere per offrire identità, comunità e impatto, combinando la saggezza del passato con la visione di un futuro radicalmente diverso.
Conclusioni
Marco Minghetti: Immaginando un nuovo paradigma organizzativo che trascenda il lavoro tradizionale, quali sarebbero i tre principi fondamentali su cui definirlo?
Stefano Bottaro – HR Director, Avio
Per me, i principi fondamentali potrebbero essere:
L’organizzazione come un ecosistema realizzativo. Questo approccio riconosce che l’essere umano cerca significato e realizzazione in molteplici sfere della vita, ben oltre la dimensione professionale. L’organizzazione non è più solo il luogo dove si scambiano tempo e competenze per un salario, ma diventa un ambiente che sostiene la crescita e l’espressione autentica dell’individuo in tutte le sue dimensioni: intellettuale, emotiva, sociale. Offre risorse, connessioni e opportunità per l’apprendimento continuo, lo sviluppo di passioni personali, il benessere emotivo e il contributo a cause significative, interne ed esterne.
Delineazione di uno scopo (purpose o why). In questo nuovo paradigma, lo scopo dell’organizzazione non è più guidato solo da metriche finanziarie, ma nasce da una visione collettiva di impatto positivo, in risonanza con i valori dei suoi membri e del mondo esterno. Questo scopo è co-creato attraverso un dialogo continuo e inclusivo, permettendo a ciascuno di trovare un proprio significato personale all’interno dell’organizzazione. È un proposito trasformativo, capace di generare valore per la società, l’ambiente e le generazioni future, e sufficientemente flessibile da adattarsi ai cambiamenti.
Organizzazione interconnessa. L’organizzazione si configura come una comunità dinamica fondata su fiducia, trasparenza e interdipendenza, capace di apprendere e adattarsi rapidamente. L’appartenenza non deriva da una gerarchia, ma dalla partecipazione attiva a una rete di relazioni autentiche e di supporto reciproco. Le identità professionali diventano mobili, favorendo la condivisione di conoscenze e una cultura della sperimentazione e del “fare insieme”. È un luogo dove la vulnerabilità è accettata e la diversità celebrata come fonte di forza e innovazione.
Questi principi delineano un’organizzazione meno simile a una macchina produttiva e più a un organismo vivente, un catalizzatore di significato e connessione umana, dove il lavoro è solo una delle tante espressioni di un’identità e di uno scopo più ampi.
Michela Matarazzo – Professoressa Ordinaria di Management e Marketing Internazionale, UniMarconi
Andando sinteticamente per punti:
- Agilità strategico-organizzativa
- Pensiero creativo e proattivo
- Paradoxical frame
Mihaela Gavrila – Professoressa di Media Studies, Università La Sapienza di Roma
Immaginando un nuovo paradigma organizzativo che trascenda il lavoro tradizionale, i tre principi fondamentali potrebbero essere:
- Fiducia / Diversità
- Etica / Creatività
- Sicurezza / Responsabilità diffusa come piattaforma del benessere
Fabrizio Tripodi – Global People Leader, Brown-Forman (Jack Daniel’s)
Come principi guida suggerirei i seguenti:
Scopo (Purpose) al Centro. Invece di concentrarsi primariamente sul “cosa facciamo” in termini di mansioni o prodotti, il nuovo paradigma dovrebbe essere definito dal “perché lo facciamo”. Le organizzazioni diventeranno catalizzatori per raggiungere uno scopo significativo che risuoni con i valori delle persone, non solo con gli obiettivi di profitto. Questo significa che le nostre narrazioni, le nostre strutture e le nostre decisioni saranno guidate dall’impatto positivo che vogliamo generare nel mondo, sia per i nostri collaboratori che per la società.
Sviluppo Umano Integrale. Se il lavoro perde centralità, l’organizzazione deve assumere un ruolo più ampio nel sostenere la crescita e il benessere totale dell’individuo, non solo le sue competenze professionali. Questo include il benessere fisico, mentale ed emotivo, lo sviluppo di capacità trasversali (come creatività, intelligenza emotiva, pensiero critico) e la possibilità di esplorare interessi al di fuori della sfera lavorativa tradizionale. L’azienda diventa un ambiente che nutre la persona nella sua interezza, riconoscendo che un individuo realizzato è anche un contributore più prezioso.
Comunità di Contributo e Appartenenza. Il focus si sposta dalla “forza lavoro” a una “comunità di individui che scelgono di contribuire”. L’appartenenza non deriverà più solo dalla mansione o dallo stipendio, ma dalla condivisione di valori, dalla partecipazione a progetti comuni e dalla costruzione di relazioni significative. L’organizzazione faciliterà la creazione di reti, lo scambio di conoscenze e l’espressione autentica di sé, diventando un luogo dove le persone si sentono parte di qualcosa di più grande, un ecosistema in cui il valore è generato dalla collaborazione volontaria e dalla ricchezza delle diverse prospettive.
Questi principi ci permetterebbero di costruire un’organizzazione resiliente, etica e profondamente umana, pronta ad affrontare un futuro in cui il significato e la connessione supereranno la mera funzione produttiva.
Roberto Zecchino – Senior HR Advisor, docente e formatore
Immaginare un nuovo paradigma organizzativo che trascenda il lavoro tradizionale significa ripensare le basi su cui costruiamo le nostre comunità professionali e sociali. Se il lavoro, inteso come occupazione retribuita e perno dell’identità, dovesse perdere la sua centralità, le organizzazioni del futuro dovrebbero fondarsi su principi che generino valore, appartenenza e scopo in modi radicalmente diversi. Ecco tre principi fondamentali:
- In un futuro dove l’automazione e l’intelligenza artificiale svolgono gran parte delle mansioni tradizionali, il valore di un’organizzazione e dei suoi membri non potrà più essere misurato primariamente dalla quantità di “lavoro” svolto nel senso convenzionale, né dalla produzione di beni fisici. Il focus si sposterà sulla capacità di generare valore in senso più ampio.
Questo significa che le organizzazioni dovranno:
Definire e comunicare un impatto trasformativo. Il loro scopo principale non sarà più il profitto fine a se stesso o la produzione efficiente, ma il contributo tangibile al benessere della società, alla sostenibilità ambientale, alla risoluzione di problemi globali o alla promozione della conoscenza. La narrazione organizzativa si baserà su “quale futuro stiamo co-creando” e non su “quali prodotti stiamo vendendo”.
Valorizzare la creatività, l’innovazione e il problem-solving umano. Le attività in cui l’essere umano eccelle – pensiero critico, empatia, intuizione, creatività e la capacità di connettere punti apparentemente scollegati – diventeranno le valute più preziose. Le organizzazioni saranno piattaforme che catalizzano queste qualità, non solo per il business, ma per il progresso collettivo.
Misurare il successo attraverso metriche di impatto sociale ed ecologico: L’efficienza economica rimarrà un fattore, ma sarà subordinata a indicatori di benessere diffuso, rigenerazione ambientale e contributo alla conoscenza umana.
- Se il lavoro non definisce più l’identità, il senso di appartenenza non potrà più derivare principalmente dal ruolo professionale o dalla gerarchia. Sarà invece costruito attorno a un profondo allineamento con lo scopo dell’organizzazione e alla qualità delle relazioni umane al suo interno.
Ciò implica che le organizzazioni dovranno:
Coltivare un’identità collettiva attorno a valori e una visione etica. L’appartenenza non sarà una questione di “fare parte di un team che lavora a X”, ma di “fare parte di una comunità che crede in Y e si impegna per Z”. I valori diventeranno il tessuto connettivo più forte, attirando individui che si riconoscono in quel credo.
Prioritizzare lo sviluppo personale e relazionale. Le organizzazioni diventeranno luoghi di crescita olistica, dove si investe nello sviluppo di competenze umane (intelligenza emotiva, pensiero sistemico, apprendimento continuo) e nella costruzione di relazioni significative. Il benessere psicologico e la connessione sociale saranno considerati obiettivi primari, non solo strumenti per la produttività.
Promuovere la fluidità dei ruoli e la diversità di contributo. Senza l’ancora del lavoro tradizionale, le persone potranno esplorare diversi modi di contribuire all’organizzazione, basandosi sui loro interessi e talenti emergenti. L’organizzazione sarà un ecosistema dinamico di individui con competenze e passioni variegate, tutti uniti da uno scopo superiore.
- In un futuro dove la sopravvivenza non è più esclusivamente legata al “lavoro” in senso stretto (immaginando un reddito di base universale o sistemi di sicurezza sociale robusti), la partecipazione alle attività organizzative potrebbe diventare sempre più guidata dalla scelta e dalla ricerca di autorealizzazione.
Questo significa che le organizzazioni dovranno:
Attirare i contributi attraverso la risonanza dello scopo. Le persone sceglieranno di “partecipare” a un’organizzazione non per necessità economica, ma perché il suo scopo risuona con i loro valori e offre un percorso per esprimere le proprie potenzialità. Il “contratto” sarà più un’adesione volontaria a una visione che un impiego formale.
Offrire percorsi di autorealizzazione non lineari. L’identità non sarà più fissata da una carriera verticale. Le organizzazioni dovranno proporre opportunità flessibili per l’apprendimento, la sperimentazione e la contribuzione a diversi progetti o aree di interesse, permettendo agli individui di evolvere continuamente.
Riconoscere e valorizzare ogni forma di contributo. Che si tratti di ideazione, mentorship, problem-solving creativo o facilitazione di relazioni, ogni forma di apporto che promuove lo scopo dell’organizzazione sarà riconosciuta e celebrata, al di là delle definizioni tradizionali di “lavoro” o “mansione”.
Questo nuovo paradigma organizzativo si allontanerebbe dalla logica industriale del “lavoro” per abbracciare quella del “contributo significativo”. Le organizzazioni diventerebbero piattaforme abilitanti per la realizzazione umana e per la generazione di valore collettivo, fondate su un’etica di scopo, comunità e autorealizzazione, ridisegnando radicalmente il nostro rapporto con il tempo, il talento e la nostra identità. Disegnando radicalmente il nostro rapporto con il tempo, il talento e la nostra identità.
Marco Minghetti: Da questa conversazione corale, il Pop Management si conferma come una nuova grammatica del lavoro capace di rispondere alle sfide della contemporaneità. In un’epoca segnata dalla modernità liquida, dalla trasparenza radicale e dalla trasformazione del lavoro, il paradigma pop si propone come un approccio integrato e umanistico, in grado di restituire senso, identità e coesione alle organizzazioni.
La narrazione, in questo contesto, non è solo uno strumento comunicativo, ma un atto generativo. È attraverso storie autentiche, co-create e polifoniche che le organizzazioni possono costruire appartenenza e significato, evitando il rischio di manipolazione o retorica vuota. La narrazione pop, radicata nei valori e aperta alla pluralità delle esperienze, diventa così un telaio dinamico su cui tessere identità fluide ma coerenti, capaci di adattarsi al cambiamento senza perdere autenticità.
La cultura pop, con i suoi simboli, miti e linguaggi condivisi, si rivela un potente alleato per il management contemporaneo. Se usata con consapevolezza, può rafforzare la connessione tra persone, generazioni e contesti culturali diversi, rendendo l’organizzazione un luogo vivo, riconoscibile e aperto. Tuttavia, come sottolineato da più voci, è fondamentale evitare derive estetizzanti o superficiali: il simbolo pop deve essere ancorato a un purpose profondo, capace di veicolare valori e visioni trasformative.
La leadership, in chiave pop, si declina come intelligenza collaborativa e convocativa. Il leader non è più solo colui che decide, ma colui che ascolta, facilita, orchestra. In un mondo complesso e incerto, la capacità di alternare orizzontalità e verticalità, di promuovere fiducia e responsabilità diffusa, diventa essenziale. La leadership pop è situazionale, empatica, capace di attivare l’intelligenza collettiva e di guidare con autenticità anche nei momenti di crisi.
L’etica della narrazione è un altro pilastro imprescindibile. In un’epoca di iper-narrazione digitale, dove ogni messaggio può diventare strumento di persuasione, è necessario promuovere una comunicazione trasparente, partecipativa e rispettosa della diversità di pensiero. Le storie aziendali devono essere costruite con e per le persone, riflettendo la complessità del reale e valorizzando anche le vulnerabilità, i fallimenti, i percorsi di apprendimento.
Infine, il futuro del lavoro – e della narrazione – ci invita a ripensare radicalmente il ruolo dell’organizzazione. Se il lavoro perde la sua centralità identitaria, l’impresa deve diventare un ecosistema realizzativo, un luogo di crescita personale, di connessione autentica, di contributo significativo. Le organizzazioni del futuro saranno piattaforme abilitanti, capaci di generare valore collettivo e di offrire spazi per l’autorealizzazione, la creatività e la costruzione di senso.
Il Pop Management, in sintesi, non è una moda effimera, ma un paradigma trasformativo. È un invito a ripensare il management come pratica culturale, etica e narrativa. È una proposta per costruire organizzazioni più umane, più aperte alle diversità, più consapevoli. È, soprattutto, un progetto collettivo, da scrivere insieme, giorno dopo giorno, con le parole, i simboli e le azioni che danno forma al nostro lavoro e alla nostra vita.
130 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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