Nel suo contributo ai Prolegomeni al Manifesto del Pop Management, Luca Cavallini, Managing Partner di Arteficegroup e portavoce del Branding HUB di UNA, sottolinea l’importanza dello storytelling nel branding moderno. Mostra come le marche, attraverso narrazioni coinvolgenti, possano creare legami emotivi sia all’interno dell’azienda che con i consumatori.
Luca cita l’esempio delle M&M’s per illustrare come una strategia di comunicazione efficace possa trasformare un prodotto in un’icona culturale, enfatizzando l’importanza di una proposta di valore unica (Unique Selling Proposition) nel posizionamento del brand.
In sintesi, Luca indica la strada che porta a un ripensamento del Branding alla luce delle proposte portate dal Pop management per costruire e mantenere relazioni significative tra le marche e le persone.
In questa Seconda Conversazione Collaborativa sul Pop Branding approfondisce queste tesi dialogando con:
Ruben Abattista – Esperto Comunicazione e PR
Maurizio Bramezza – Responsabile Comunicazione Euromaster
Valentina Campana – Capo di Gabinetto Città di Torino
Michele Cornetto – Founder Tembo
Simona Quaglia – Responsabile Ufficio Comunicazione Urmet Spa
Valerio Saffirio – CEO Black Engeneering.
Segnalo anche che i White Paper i report delle 2 Conversazioni Collaborative sul Pop Branding sono stati pubblicati sulla pagina del Branding HUB di UNA e sono scaricabili qui.
Luca Cavallini: Quali sono gli elementi Pop, sia in termini di strumenti sia in termini di valori veicolati dai contenuti, che rendono riconoscibile un brand?
Abbatista: Un brand è un soggetto sociale e ha una responsabilità verso il contesto in cui opera. Per questo i valori che trasmette devono essere ispirati da autenticità e trasparenza, favorendo lo sviluppo di fiducia ed empatia da parte degli stakeholders. Gli strumenti da utilizzare devono quindi da un lato essere fortemente emozionali e dall’altro permettere un’interazione diretta e dinamica con i pubblici di riferimento.
Bramezza: un brand Pop è un marchio fluido: adattabile, morbido, anticipatore e che ammette anche di sbagliare, accetta l’errore. E’ un marchio che non ha paura di provare nuove strade, di ri-disegnarsi e scrivere una strada diversa ogni (almeno) sei mesi.
Campana: Nel contesto contemporaneo, una comunicazione istituzionale che voglia essere efficace non può che essere “pop” nel senso più alto del termine: popolare, accessibile, partecipativa e culturalmente rilevante. Essere “pop” non significa banalizzare, ma al contrario saper interpretare i codici del tempo presente, rendendo i messaggi istituzionali vicini alla vita delle persone. L’anima pop si esprime attraverso una narrazione che parte da valori fortemente identitari come l’autenticità, la cura, la trasparenza, la fiducia e l’empatia. Questi valori sono resi tangibili attraverso linguaggi semplici ma mai semplicistici, capaci di attivare un dialogo reale con tutti gli stakeholder.
Essere “pop” oggi significa anche accettare la sfida della contemporaneità, intercettare linguaggi emergenti, contaminarsi con le culture giovanili, con l’arte urbana, con i linguaggi del design e della creatività.
Cornetto: Viviamo in un’epoca in cui i brand non vengono più giudicati solo in base a ciò che vendono, ma in base a come abitano il mondo. E per essere ascoltati, occorre parlare la lingua della cultura contemporanea, quella fatta di contenuti accessibili, formati brevi, ritmo visivo, ma anche — e soprattutto — di autenticità. Un brand oggi è riconoscibile se riesce a costruire relazioni autentiche su canali e formati che il pubblico già frequenta e riconosce come propri. Non si tratta più di lanciare messaggi, ma di creare continuità: tra un podcast e un’interfaccia, tra un reel e un packaging, tra una visione e un gesto quotidiano. Un brand diventa realmente pop quando riesce a restituire valore culturale. Quando dimostra attenzione per il contesto, capacità di leggere i segnali deboli, di stare in una conversazione anche senza dominarla. Un brand è pop quando è capace di fidarsi del proprio pubblico, lasciandogli la possibilità di riscrivere parti della propria identità. Ecco perché oggi parliamo sempre più di co-creazione, di esperienze predittive, di trasparenza nei dati, di empatia generazionale.
Quaglia: Un brand è pop, se prima di tutto, è pop l’azienda. L’azienda intesa come capitale umano, dai manager agli impiegati. Non è solo una questione di campagne ben riuscite o di claim memorabili: essere pop significa essere rilevanti, accessibili, autentici, riconoscibili. Il pop management è un modo di pensare e di fare impresa che parte dall’interno, dai valori, dalle relazioni, dalle pratiche quotidiane. Un’azienda pop è un’organizzazione che sa mettersi in discussione, ridefinirsi, coinvolgere davvero chi ne fa parte.
Saffirio: Essere POP non significa “diventare popolari”, ma assumere una postura culturale e relazionale radicalmente nuova. Gli strumenti POP non sono canali, sono formati culturali. I brand realmente POP non comunicano attraverso i media: li abitano. Non si limitano a usare strumenti (podcast, reel, videogiochi, TikTok), ma li curano come linguaggi, li plasmano come esperienze considerando il formato come un messaggio. I brand POP non fanno branded content ma fanno cultura. E lo fanno accettando il rischio della contaminazione, dell’errore, dell’ironia. I valori POP sono umani e quindi sono imperfetti. Essere riconoscibili oggi non passa dal logo, ma dalla capacità di incarnare valori comprensibili, urgenti e condivisibili come l’Autenticità, l’Empatia sistemica – non solo verso il cliente, ma verso il contesto, la comunità, il pianeta. La Cura e fiducia – che si costruiscono nel tempo, non si dichiarano in un manifesto. La Cultural awareness.
Un brand è POP quando non ha più bisogno di spiegare se stesso, ma si riconosce nella vita, nei codici e nei desideri delle persone.
Luca Cavallini: In che modo il brand si differenzia dai competitor? Quali sono gli asset di marca distintivi? Quali strategie creative adotta?
Abbatista: Un brand si può distinguere dai competitor attraverso la definizione di un’identità unica e distintiva, che possa combinare l’espressione dei propri valori, uno storytelling emozionale e l’esperienza dell’utente. Importante sottolineare il fatto che le strategie creative più efficaci devono puntare non solo su contenuti emozionali, ma anche sulla co-creazione dei contenuti stessi con la community di appartenenza.
Bramezza: Un vero brand non dovrebbe differenziarsi ma creare nuovi territori, è questo secondo me il vero paradigma, la nuova strada. Per farlo è però necessario che il Manager Pop, sappia assumersi responsabilità, accettare l’errore, dedicare risorse economiche a test, prove e ricerche.
E’ necessario saper guardare oltre, non lavorare solo per il risultato a corto ma soprattutto a lungo termine, un arco temporale di almeno 5 anni.
Campana: Il brand urbano diventa uno strumento strategico di posizionamento, e non solo di rappresentazione. Per questo motivo, Torino sta lavorando per costruire un city brand che sia capace di distinguersi rispetto a città comparabili, investendo in una narrazione coerente, attrattiva e riconoscibile. Ciò che rende Torino diversa è la combinazione unica tra identità culturale forte e capacità trasformativa: questo equilibrio tra tradizione e innovazione, tra concretezza e creatività, è un asset di marca distintivo che stiamo mettendo a fuoco con il lavoro sul city branding. Un altro asset distintivo è il lavoro sulla governance del brand: il percorso che abbiamo avviato con l’indagine demoscopica e il coinvolgimento degli stakeholder non è solo propedeutico alla definizione del brand, ma getta le basi per una gestione condivisa e duratura della narrazione della città.
Cornetto: Un brand si differenzia dai competitor nel momento in cui riesce a trasformare la propria identità in un sistema coerente di valori, linguaggi, relazioni. E questo richiede due cose: consapevolezza interna e intelligenza culturale esterna. Gli asset distintivi di un brand non sono oggetti o tratti grafici, ma comportamenti riconoscibili. Una marca è riconoscibile quando parla sempre la stessa lingua — anche se cambia tono a seconda del contesto. Quando riesce ad abitare luoghi diversi, senza perdere coerenza. Dal punto di vista creativo, questo significa lavorare per sistemi, non per singole campagne. Vuol dire costruire formati narrativi, rituali comunicativi, elementi identitari capaci di vivere nel tempo e nelle mani delle persone.
Quaglia: Avere una storia fa la vera differenza. Una storia vissuta. Aver fatto parte della storia (o per brand più recenti, farne parte ora). Un brand si differenzia quando può dire: oggi ci sono perché i miei prodotti e servizi si portano dentro l’esperienza, i valori, le fatiche e i successi del passato. Essere un marchio distintivo oggi significa saper rileggere il proprio percorso alla luce del presente.
Saffirio: I brand non si distinguono più perché non rischiano più e finiscono per somigliarsi sempre più. Stessi claim, stessi codici visivi, stesse campagne “valoriali” preconfezionate da agenzie che scrivono “diversità” col font Helvetica e inseriscono una modella di colore in post-produzione per parlare di inclusività. Differenziarsi oggi significa non controllare la narrazione. Un brand che si differenzia oggi è un brand che accetta la vulnerabilità. Che non teme l’errore comunicativo, ma lo integra come parte del racconto. Nel mondo del POP management, la trasparenza è l’unico posizionamento rilevante. Tutto il resto è packaging. Le strategie creative? Curare le crepe, non nasconderle. Un brand oggi non dovrebbe creare campagne, ma aprire contesti. Un brand oggi è davvero riconoscibile solo se smette di essere una macchina di promesse e diventa una piattaforma di domande e di dubbi. Il vero asset oggi è il coraggio. E il coraggio, come il POP, non si può pianificare: si agisce.
Luca Cavallini: In cosa consiste l’unicità di un brand e come può “incorporarla”nel prodotto o servizio che offre? In che modo il prodotto/servizio di un brand può attivare pratiche di co-creazione del valore o, nel linguaggio del Pop management, attivare l’Intelligenza Collaborativa delle persone cui si rivolge?
Abbatista: L’unicità di un brand non risiede solo nel prodotto, ma nella narrazione, nei valori e nelle emozioni che trasmette. Pepsi e Coca-Cola, per esempio, si differenziano per posizionamento e storytelling: Coca-Cola evoca tradizione e momenti di condivisione, Pepsi punta su innovazione e cultura giovanile. E’ importante per l’azienda stimolare delle attività di co-creazione di valore e ciò avviene quando i pubblici di riferimento partecipano alla costruzione dell’identità del brand, attraverso engagement digitale, contenuti generati dagli utenti e interazioni dirette.
Bramezza: L’unicità di un brand è la “verità, la trasparenza verso il consumatore”. In un mondo di fake news ed immagini fallaci, ciò che fa la differenza è dire le cose in modo chiaro, semplice, concreto: questo è emozionante.
Campana: L’unicità di un (city) brand non è qualcosa che si “aggiunge” alla città come una patina estetica, ma è qualcosa che si estrae e si riconosce nella sua cultura, nel suo immaginario, nella sua storia sociale e produttiva. È un lavoro di design civico, dove ogni touchpoint urbano può diventare un’occasione per raccontare la città attraverso la sua unicità. Il passo successivo, ancora più ambizioso, è quello di attivare processi di co-creazione del valore. Attivare l’intelligenza collaborativa vuol dire creare le condizioni perché il brand (Torino) non sia proprietà dell’amministrazione, ma patrimonio condiviso, capace di essere usato, reinterpretato,amplificato da chiunque senta di appartenere. È qui che entra in gioco la potenza del transmedia storytelling: Torino può raccontarsi in modo coerente ma plurale, connettendo spazi fisici e canali digitali, storie individuali e visione collettiva, istituzioni e comunità. L’unicità, quindi, non è data una volta per tutte: è un processo in divenire, alimentato da chi contribuisce a viverla e raccontarla ogni giorno.
Cornetto: La vera USP contemporanea non è più un attributo, ma un racconto relazionale, una visione che le persone possono riconoscere, fare propria, persino reinterpretare. Ed è qui che la co-creazione entra in gioco. Un brand oggi deve essere progettato non come una narrazione chiusa, ma come un’architettura aperta. Attivare l’intelligenza collaborativa significa quindi accettare che la marca non è più il centro, ma il perimetro entro cui le persone possono agire, creare, reinterpretare.
Quaglia: Oggi la differenza non si gioca sulla USP ma su come coinvolgiamo le persone. Questo è il terreno dell’intelligenza collaborativa: non vendiamo solo “un prodotto”, vendiamo un’esperienza configurabile, partecipata e riconoscibile. Per chi è pronto, possiamo creare un’esperienza di relazione, evoluzione e co-partecipazione, non solo di acquisto. Partecipazione al risultato, alla creazione del prodotto o almeno alla sua personalizzazione. Coinvolgere i clienti significa creare esperienze rilevanti e flessibili, adattabili nel tempo.
Saffirio: La formula sostitutiva che più mi convince è la UCP (Unique Cultural Proposition). Oggi nessun prodotto è unico. L’unicità non risiede nel prodotto, ma nella cultura che quel prodotto abita. Non nel beneficio, ma nel codice culturale che quel beneficio attiva. Parlare ancora di “Unique Selling Proposition” oggi significa non intercettare i cambiamenti. Il brand POP del futuro lavora sulla sua UCP: un posizionamento non commerciale, ma esperienziale, identitario, aperto alla co-creazione.
Un brand è unico quando non offre solo un oggetto o un servizio, ma un ambiente di senso. Il packaging diventa manifesto. L’esperienza d’uso diventa performance. Il customer care diventa dialogo umano e narrativo. L’interfaccia digitale diventa editoria interattiva. Come si attiva l’intelligenza collaborativa? Rendendo il prodotto modificabile o reinterpretabile. Invitando alla narrazione, creando co-design dei servizi con le community.
Luca Cavallini: Quali sono gli strumenti che un’azienda utilizza per rendere la propria comunicazione efficace e coinvolgente per un pubblico ampio? Come può un brand utilizzare il transmedia storytelling per creare un’esperienza comunicativa integrata e coinvolgente?
Abbatista: I pubblici di riferimento di un’azienda possono essere numerosi e variegati, dal momento che quando parliamo di pubblici non parliamo solo dei clienti, ma di tutti quei soggetti che stanno attorno all’azienda stessa. Per parlare ad un pubblico ampio è comunque necessario utilizzare un linguaggio inclusivo, accessibile e il più possibile coinvolgente. Ogni strumento utilizzato deve aggiungere un tassello alla narrazione, creando un ecosistema comunicativo unificato ed omogeneo.
Bramezza: Con la“coerenza”. Il mercato ed i consumatori cambiano, la coerenza premia. La coerenza è rafforzata dall’arte della ripetizione: esprimere un concetto una volta non è sufficiente, l’essere umano è ripetitivo: percorriamo le stesse strade ogni giorno. Abbiamo tutti un bisogno smodato di sicurezza, ripetizione. Un vero marchio POP, può assolvere questo bisogno del consumatore.
Campana: Comunicare in modo efficace e coinvolgente significa attivare una relazione continua e autentica con pubblici ampi e differenziati, unendo coerenza narrativa e capacità di adattamento. Gli strumenti oggi a disposizione – social media, podcast, video brevi, affissioni, eventi, contenuti interattivi – devono essere utilizzati non come canali isolati, ma come tessere di un racconto unitario e distribuito, dove ogni mezzo aggiunge un punto di vista e una tonalità propria. Non si tratta di replicare lo stesso messaggio su più canali, ma di costruire un ecosistema narrativo in cui ogni piattaforma – dal social post al podcast, dall’evento fisico alla campagna urbana – racconta una sfaccettatura diversa dell’identità (di Torino). Un’identità che non è monolitica, ma plurale, viva, in divenire.
Cornetto: Una comunicazione aziendale è davvero “pop” quando smette di pensarsi come trasmissione e inizia a comportarsi come racconto. Quello che davvero fa la differenza è la capacità di progettare una narrazione che abbia senso, risonanza e continuità. Questo è il punto: la continuità. Perché lo storytelling pop, se vuole essere efficace, deve avere un respiro lungo e insieme un linguaggio breve. Deve saper vivere nei cinque secondi di uno swipe, ma anche lasciare tracce nel tempo, come fanno le canzoni che associ a un momento della tua vita. In questo senso, il transmedia storytelling non è una tecnica, ma una struttura. È il modo in cui un brand costruisce un’esperienza coerente sfruttando la specificità di ogni canale.
Quaglia: ll transmedia storytelling – una narrazione distribuita su più canali (eventi, social, video, podcast, stampa, ecc.) – può creare esperienze immersive e coinvolgenti.
Saffirio: Oggi molte aziende confondono la comunicazione POP con l’infantilizzazione del pubblico. Pensano che per coinvolgere servano lacrime, musica in crescendo, copy da Baci Perugina. Una vera comunicazione POP non emoziona per convenzione ma perché intercetta con precisione i codici emotivi e culturali del presente. È codifica culturale ad alta intensità. Essere POP significa usare la grammatica giusta per parlare la lingua delle persone. È un lavoro culturale, non cosmetico. Transmedia storytelling – quando il brand è un universo, non una campagna. Il transmedia storytelling non è moltiplicare i post sui social ma creare un mondo coerente e vivo, in cui ogni canale racconta un pezzo di verità, con la propria lingua. Il sito è l’enciclopedia. TikTok è la voce interna ironica. L’evento è il corpo vivo del brand. Il customer care è il luogo dell’empatia vera. L’advertising tradizionale è solo l’invito al viaggio. E un brand è veramente transmediale quando non racconta una storia, ma invita le persone a viverne una.
Luca Cavallini: Come può il brand adottare un linguaggio autentico che favorisca relazioni genuine e promuova il bene comune?
Abbatista: Ancor prima di prendere in considerazione il linguaggio, per stabilire relazioni genuine il brand deve dimostrare coerenza tra la propria identità e i propri comportamenti. Conseguentemente potrà adottare un linguaggio autentico e inclusivo, mettendo al centro in modo credibile trasparenza, empatia e partecipazione. Attraverso uno storytelling emotivamente coinvolgente, il brand può diventare un catalizzatore di esperienze condivise, creando un ecosistema dinamico, dove la co-creazione con il pubblico valorizza le singolarità e al contempo la dimensione comunitaria.
Bramezza: Con la semplicità: se siamo in Italia parliamo in italiano!
Campana: Un linguaggio autentico e inclusivo non è solo uno strumento comunicativo, ma rappresenta una scelta strategica e culturale, soprattutto per un brand urbano. Significa costruire una relazione di fiducia, che non si limita a trasmettere messaggi ma si fonda sull’ascolto, sulla trasparenza e sulla partecipazione. Un brand che vuole promuovere relazioni genuine deve quindi adottare un linguaggio che sia al tempo stesso istituzionale e umano, capace di raccontare la complessità con semplicità e rigore, senza perdere empatia. È così che si promuove il bene comune: non con slogan, ma con conversazioni vere.
Cornetto: adottare un linguaggio autentico e inclusivo non è una scelta di tono, ma una decisione etica. Significa accettare che chi riceve il messaggio abbia la possibilità di riscriverlo, reinterpretarlo, restituirlo in forma nuova. Significa rinunciare all’unilateralità, e accettare la contaminazione come forma di crescita. L’inclusione, in questa prospettiva, non è più un gesto concessivo. È il riconoscimento che il valore nasce dall’incontro, dalla differenza, dalla molteplicità.
Quaglia: Il linguaggio è vero se il contenuto è vero. Prima la sostanza e poi la tendenza. Il linguaggio è autentico se l’azienda è autentica, è inclusivo se l’azienda è inclusiva. “raccontare è il modo in cui diamo senso alla nostra esistenza”. Ed è solo parlando CON le persone, non a loro, che i brand possono essere davvero rilevanti.
Saffirio: La vera inclusione non è aggiungere un target. È togliere il centro. Il brand autentico non parla: ascolta, agisce, si sveste. Un linguaggio autentico non si scrive nei manuali di comunicazione. Il brand non comunica “verso” qualcuno. Comunica con: in contesti, in prossimità, in ascolto. E se vuole promuovere il bene comune, deve smantellare la propria centralità, creare spazi condivisi, e lasciare che siano le persone a ridefinire i confini della marca.
Luca Cavallini: Quanto tutto questo influenza lo sviluppo delle strategie creative di marca? E qual è, e sarà in futuro, l’impatto delle nuove tecnologie di Intelligenza artificiale?
Abbatista: L’evoluzione della tecnologia e conseguentemente del linguaggio digitale ridefinisce le strategie comunicative dei brand, rendendole più immediate e interattive, ma soprattutto determinando il fatto che la comunicazione dei brand sia definita anche grazie all’interazione della comunità a cui fa riferimento, che influenza contenuti e tono di voce. L’Intelligenza Artificiale sta accelerando questa trasformazione, personalizzando contenuti, analizzando trend e automatizzando interazioni, favorendo così lo sviluppo di esperienze immersive, dove il brand dialoga in modo fluido con il suo pubblico.
Bramezza: E’ vero, il nostro linguaggio è cambiato, si è in parte impoverito ma anche arricchito di immagini e termini onomatopeici che lo rendono più umano, al passo con i tempi. Le parole determinano i pensieri: è importante continuare a leggere, studiare e conversare. L’AI potrà certamente aiutare l’uomo ma abbiamo bisogno di Manager Pop intelligenti per sfrutrare l’AI. Il loro compito sarà di intercettare nuove attività che l’AI (per ora e forse per un po’ di anni) non sarà in grado di fornire: emozioni, amore, affetti e pensieri.
Campana: Le strategie creative di marca, oggi più che mai, sono il risultato di un equilibrio delicato tra visione e ascolto. La creatività, (in ambito pubblico), non è una questione estetica ma relazionale. Serve a generare connessione, fiducia, riconoscimento. Per questo, il brand Torino non cercherà mai solo lo stupore, ma l’identificazione. Non cercherà il consenso immediato, ma la costruzione di un legame duraturo. In questo contesto, le nuove tecnologie – in particolare quelle legate all’Intelligenza Artificiale – non sostituiscono il pensiero umano, ma possono amplificarlo in direzione di una comunicazione più personalizzata, accessibile e tempestiva. Tuttavia, l’intelligenza artificiale può essere davvero utile solo se guidata da una visione politica chiara e da una responsabilità etica forte.
Cornetto: Questa nuova grammatica, ereditata dal mondo dei social network, ha abbattuto definitivamente la distanza tra “comunicazione interna” e “comunicazione esterna. Le stesse dinamiche che regolano una community aziendale — like, reazioni, micro-feedback — sono ormai parte integrante anche del modo in cui un brand si presenta al mondo. Ecco perché oggi una strategia creativa deve essere un sistema modulare, poroso, adattabile. Un design della relazione, più che un piano di comunicazione. L’AI cambierà davvero il branding nel momento in cui diventerà parte attiva del sistema relazionale, influenzando l’esperienza, personalizzando il messaggio, apprendendo comportamenti, ottimizzando percorsi. Il punto non è usare l’AI per scrivere uno script, ma per costruire un rapporto dinamico e predittivo tra brand e persona. Il linguaggio si sta frammentando, i formati si stanno evolvendo, gli attori della comunicazione stanno cambiando. Ma ciò che resta — e resterà — è la necessità di una marca coerente, empatica, reattiva. Una marca progettata non solo per comunicare, ma per co-esistere in un mondo fatto di relazioni, algoritmi e significati che si scrivono insieme, giorno dopo giorno.
Quaglia: Oggi rischiamo di raccontare storie anche valide, perfino rilevanti, ma destinate a passare inosservate se non vengono contaminate dal linguaggio che le persone usano ogni giorno — parole, immagini, codici culturali. Se restano confinate su media poco frequentati, o vengono narrate senza coerenza con il contesto, perdono potere, connessione, vita.
Osserviamo meglio ciò che accade attorno a noi. Ascoltiamo di più. Lasciamoci contaminare. Facciamoci influenzare ed evolviamo il nostro linguaggio di comunicazione. Le tendenze non sono solo mode: sono segnali. Anche l’AI è una nuova lingua da imparare. Apre porte a nuovi linguaggi creativi: video generativi, avatar, interfacce conversazionali.L’AI è potentissima, è un driver di crescita.
Saffirio: l’Intelligenza Artificiale? È un detonatore culturale. L’IA non è (solo) uno strumento produttivo. È un cambio di paradigma: frantuma l’idea di originalità – tutto è remixabile, tutto è generabile. Sconvolge i tempi della creatività – l’istantaneità rimpiazza la pianificazione. Sfida l’identità del brand – chi ha scritto questo post? Un copywriter? ChatGPT? Un fan? Il futuro non è “IA che scrive al posto nostro”. Il futuro è brand che convivono con milioni di micro-intelligenze distribuite — umane, artificiali, collettive. Usare l’IA non per produrre di più, ma per pensare diversamente.
Brand-as-a-platform – non un’identità fissa, ma una struttura narrativa generativa, in grado di ospitare IA, utenti, artisti, deviant thinking, memetica, microstorie. L’IA non serve a fare di più – serve a rompere lo spartito. A trasformare il brand da autore a jam session sociale. Il brand POP del futuro non è né umano né artificiale: è transumano, corale, aperto.
124 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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