Immagine di Marcello Minghetti per Ariminum Circus Stagione 1

Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 81 – Storytelling Pop. Verso il Pop Branding (parte seconda)

In vista dell’evento Pop, condotto da me con Matteo Lusiani, Il Branding e il Marketing nella Società 5.0 (Hyper Smart Society), che si  svolgerà il 26 febbraio dalle 17.00 alle 19.00 con light dinner a seguire, presso Google Italia in Via Confalonieri, 4 – Milano, gratuitamente ma  rigorosamente in presenza e a numero chiuso (per iscriversi prima che i posti si esauriscano occorre compilare il modulo a questo link), pubblichiamo la seconda parte della conversazione condotta da Luca Cavallini con:

Nello Barile, Pop Opinionist e docente di Sociologia dei Media e di Politiche per la cultura presso l’Università IULM

Wiebke Klaass, Marketing Director di Lactalis Italia

Matteo Lusiani, Pop Opinionist e autore del libro Il brand, raccontato. Cosa sono i brand e che ruolo hanno nelle nostre vite

Edoardo Morelli, Pop Opinionist e Responsabile Marketing di Timenet

Cristian Voltolini, Director of Global Brand Marketing and Communication di Dr. Schär.

Luca Cavallini: Quali sono gli strumenti che la tua azienda utilizza per rendere la propria comunicazione efficace e coinvolgente per un pubblico ampio? Come il tuo brand utilizza il transmedia storytelling per creare un’esperienza comunicativa integrata e coinvolgente?

Cristian Voltolini: Schär è presente dove i consumatori ci cercano e, talvolta, anche dove non si aspettano di trovarci. Quest’anno, sia a Milano, in via Ripamonti, che in Spagna, abbiamo realizzato un grande murale temporaneo per amplificare la campagna “Con il Meglio di Noi”. Protagonista è stato il sorgo, un cereale minore senza glutine e amico della biodiversità, nonché ingrediente prezioso dei nostri prodotti.

Dal pack nel punto vendita in poi, non tralasciamo nulla e comunichiamo i nostri messaggi in modo coerente ai consumatori. Coinvolgiamo tanti micro-influencer nella costruzione della nostra narrativa,  che diventano parte attiva nella produzione del contenuto di marca.

Da prima che diventasse un hype, ci avvaliamo anche dell’Intelligenza Artificiale, con il nostro chatbot nutrizionista Noa che supporta i nostri utenti.

Edoardo Morelli: Potrebbe sembrare più difficile parlare di transmedialità a basso budget. Quando si pone il termine transmedialità si pensa a media importanti e classici come TV, radio e grandi diffusioni di advertising.

Ma un media di per sé è qualunque cosa sia in grado di portare un messaggio, se riflettiamo in questi termini ci possiamo rendere conto che il concetto di transmedialità si può applicare anche su scala semplificata.

Noi lo interpretiamo grazia ad alcuni strumenti tattici principali: SEO, LinkedIn, video, newsletter, eventi, comunicati stampa e persone.

La narrazione attraversa in modo coerente tutti questi supporti. Questo non vuol dire raccontare le stesse cose in ogni supporto ovviamente ma declinare e selezionare quel che è più adatto a quel tipo di audience restando fedeli alla personalità Timenet.

A me viene bene pensare al brand come fosse una persona. Se personifichi un’azienda è più semplice vederla parlare e muoversi in modo coerente. Avere un carattere da esprimere e delle idee da perseguire. Questo genera una coerenza in modo naturale e fa capire alle nuove persone che entrano in reparto che il Brand è “da conoscere”, proprio come una persona. E per conoscerla a fondo ci devi vivere a fianco, saggiarne pregi e difetti così da poterli esprimere al meglio e da quanti più angoli possibile.

La nostra comunicazione viaggia verso due pubblici: i clienti e i rivenditori. A loro volta quelli in essere e quelli potenziali.

Rivolgendoci a contesti puramente aziendali abbiamo selezionato LinkedIn come piattaforma madre, il tipo di contenuto e di atteggiamento è quello che più si adatta ai nostri contenuti, interagiamo qui con pubblico potenziale ed esistente oltre che con la popolazione aziendale.

Utilizziamo contenuti sul sito e la SEO per intercettare pubblico potenziale in fase di ricerca, abbiamo fatto un grande lavoro a partire dal 2018. Una delle mie volontà fin dall’inizio per poter gestire obiettivi di crescita futuri e budget contenuti è stato quello di investire nell’organico, usando investire non a caso perché consapevole dei ritorni sul lungo periodo.
Ma a oggi ci garantisce un 30% dei lead in ingresso e di una buona qualità, specie lato rivenditori (che sono il nostro target principale in termini di lead generation).

Da subito per agire sul breve periodo abbiamo affiancato la partecipazione agli eventi di settore, per intercettare sul campo il target rivenditore in modo diretto.

Tramite video distribuiti settimanalmente teniamo vivo il coinvolgimento del parco rivenditori, pillole di pochi minuti in cui distribuiamo spunti formativi su temi di varia natura.

La newsletter assolve alle cosiddette comunicazioni di servizio, ma lo fa sempre in stile molto Timenet e con il tono di voce caratteristiche che, quando si rivolte ai rivenditori, diventa ancora più goliardico in quanto la grande confidenza lo permette ed è coerente con quanto trovano quando entrano in contatto con i loro referenti aziendali.

Come già raccontato la nostra partecipazione agli eventi cerca sempre di lasciare un segno il più indelebile possibile, a partire dagli interventi fino ai gadget al desk.

A oggi i comunicati stampa si rivolgono al pubblico più corporate, potremmo dire che sono la voce “del CDA” verso l’esterno e che vanno solitamente a popolare testate finanziarie e, in alcuni casi di cronaca: locale o nazionale.

Il media che nel nostro caso credo faccia molta differenza nella relazione sono proprio le persone.
La persona diventa un media nel momento in cui è formata per esserlo.

Se una persona incarna i valori e la vision aziendale diventa per sua natura ambasciatrice del marchio e, dunque, un media.

Essendo il nostro reparto commerciale e il nostro reparto assistenza quelli più a contatto con l’esterno (oltre a essere quelli più numerosi), sono sicuramente un media di punta per comunicare il Brand e per fidelizzare clienti e partner.

Come il reparto amministrazione o il reparto network lo sono nei confronti dei fornitori. Non lo dimentichiamo, il Brand deve essere coerente in ogni suo punto per essere efficace. Come ti comporti con un cliente devi fare con un fornitore.

Un esempio di questa importanza lo posso testimoniare in modo molto poetico se vogliamo, diciamo romantico. Il 17 novembre 2024 un incendio ha raso al suolo una delle nostre sedi, c’erano gli uffici direzionali e il magazzino. Il magazzino, quello da cui partono modem e router destinati ai clienti per attivare le linee.

Succede di sabato. La domenica il titolare di un’azienda fornitrice ha riempito la sua macchina di apparati ed è venuto fino da noi per portarci quel che aveva disponibile la domenica.
Risultato: il lunedì nessun cliente ha risentito di questo avvenimento. Abbiamo subito un incendio, ci abbiamo rimesso una sede, nessuno si è accorto di niente.
Questo perché 1 ora dopo l’incendio un gruppo di circa 15 persone era attivo e insieme per capire cosa fare e come comunicarlo. I fornitori sono stati attivi e hanno ricambiato anni e anni di buoni rapporti.
In sintesi, coltivare certi valori e radicarli in azioni ha creato un ecosistema decisamente preparato.
Perché nessun incendio ti trova ponto, di certo non te lo aspetti, ma se si è preparati la risposta che nasce davanti all’imprevisto risulta efficace.

La storia che raccontiamo è quella di ogni imprenditore che debba usare Internet o mezzi affini.
Quella delle aziende moderne che, ormai, senza Internet vedono molte persone ferme alla scrivania o in produzione.

Quella di un imprenditore che ha la missione di far crescere la sua azienda.
Quella di un imprenditore che, nel momento del bisogno, spesso viene lasciato solo dai call center.
Quella di un imprenditore sempre più esposto ai crimini informatici che può trovare nel suo operatore uno scudo ulteriore.

Quella di un imprenditore travolto da una digitalizzazione sempre più veloce e può trovare nel binomio Timenet-Rivenditore una squadra vicina sul territorio e in grado di sostenerlo nella sua crescita.
Perché l’imprenditore sarà veramente soddisfatto se potrà restare concentrato su quello che ama di più: il suo lavoro.

Matteo Lusiani: Oggi comunicare è più complesso che mai, perché la multicanalità ha raggiunto un livello talmente vasto da rendere davvero difficile mantenere la propria identità in ogni media e in ogni canale.

Una risposta efficace è usare un contenuto eroe o un evento come piattaforma, per poi raccontarlo su ciascun canale con il linguaggio specifico di quel canale. Ad esempio, su YouTube sarà, ad esempio, un video più lungo con un suo storytelling interno, mentre su TikTok sarà una serie di micro-video dove lo storytelling è praticamente assente.

Come ha ricordato Edoardo, ovviamente pochi brand hanno la forza di gestire questa complessità. Per tutti gli altri l’unica soluzione è scegliere quali canali presidiare e quali no.

Personalmente, ho scelto la seconda strada: il mio “transmedia storytelling” si sviluppa esclusivamente su LinkedIn (ho abbandonato tutti gli altri social media) e tramite newsletter.

Wiebke Klaas: Il nostro invece è un pubblico ampio poiché noi per primi vogliamo essere di tutti e per tutti.

Ciò che decidiamo di mettere in campo è frutto di un percorso che unisce diversi strumenti, dai dati all’osservazione, e culmina con la validazione del consumatore.

Lavoriamo per sostenere i nostri valori, che sono gli stessi che rilevano per i cittadini che poi sono nostri consumatori (stare insieme, fiducia, trasparenza).

Portiamo uno storytelling che nella nostra definizione ambisce a costruire una relazione con il pubblico e a deliverare un’esperienza fatta di codici, messaggi, mezzi in grado di massimizzare riconoscibilità dei brand a tutto tondo su tutti media, toccando elementi narrativi ed esperienziali.

Questo unitamente alla volontà di ingaggiare il consumatore in modo razionale (perché dovrei scegliere questo brand) ed emozionale (quali sono i nostri valori in comune?).

Nello Barile: Volendo passare dall’esplorazione di singoli casi ad una vista più generale, potremmo partire dal concetto  di “imperialismo narrativo” (Salmon, 2008), che indica un’espansione smisurata delle “storie” e trasforma ogni oggetto in racconto e ogni racconto in strumento di legittimazione del brand.

Se le narrazioni crossmediali si limitano ad adattare il medesimo contenuto nei diversi canali a disposizione del brand, la tranmedialità punta più sull’inclusione del consumatore/spettatore/user all’intento della narrazione. Ad esempio i corti di moda incoraggiano lo spettatore a interagire con l’esperienza del marchio attraverso l’apparato audiovisivo dell’immagine in movimento – attraverso il formato narrativo o la struttura concettuale di cortometraggi e video” (Rees-Roberts, 2020: 405), mentre il recente consolidamento di piattaforme video collaborative come Youtube e Vimeo, create rispettivamente nel 2006 e nel 2004, ha cambiato significativamente il modo in cui i marchi di moda comunicano con il loro pubblico (Soloaga, 2017: 42).

Tale ragionamento spiega efficacemente l’affermazione di un formato che ha innovato la comunicazione della moda negli ultimi anni. Esemplare e ormai “storica” è a tal proposito la collaborazione tra Wes Anderson e Prada, che si consolida grazie al comune interesse per quell’estetica che Simon Reynolds (2011) definirebbe come retromaniaca, paradossalmente incentivata dall’archivio senza tempo di Youtube e basata sulla ricostruzione di un passato prossimo talmente attenta, filologica e maniacale da assumere tratti surreali.

La collaborazione avviata tra i due, è passata soprattutto per lo short movie Castello Cavalcanti, che sul canale Youtube di Prada ha raggiunto 330.000 visualizzazioni, per sfociare poi nel formidabile progetto del Bar Luce in cui lo storyteller, abituato a esprimersi tramite le immagini in movimento dei suoi film, si è fatto designer per trasformare la narrazione in luogo, in ambiente vissuto ed esperibile, in un progetto che fonde le due definizioni di cultura (con la c maiuscola e minuscola) in un’unica esperienza condivisa.

Nell’evento organizzato da Netflix Italia, per il lancio della quarta stagione di Stranger Things, la piattaforma è protagonista di un interessante processo di rimediazione che riporta i suoi contenuti a una dimensione di fruizione collettiva, a metà tra il cinema e il live show. L’enorme schermo circondato da migliaia di fan o semplici turisti cu- riosi diventa la grande attrazione della piazza, mentre spinge sullo sfondo le bellezze storiche e architettoniche della città.

Considerando che la nuova stagione sposta il focus dalla metafisica dei mondi paralleli a una narrazione più realistica, storica e in un certo senso “satanista”, è ancor più stridente il contrasto comunicativo con il Duomo che, essendo una delle strutture gotiche più famose al mondo, ha storicamente utilizzato la mostruosità delle sue statuette per incutere timore e per produrre fidelizzazione. I feedback provenienti dai fan che siedono sul pavimento ci ricordano che i social media sono solo un’evoluzione di dimensioni comunicative più arcaiche, come quelle della piazza. La partecipazione diretta dei fan offre in tempo reale il sentiment del pubblico, grazie a sussurri, gemiti e urla, soprattutto quando compaiono i beniamini più amati.

L’evento è supportato anche da iniziative parallele, come la sfilata dei Paninari, che rilocalizzano le estetiche della serie in un contesto e in uno stile tipicamente milanese. Vecna, il mostro-diavolo a testa in giù, è una sorta di antenna e di catalizzatore delle ondate di odio che sono generate dai cittadini di Hawkins nella loro quotidianità. La nuova stagione insiste ancor più delle altre su lifestyle, brand e product placement ispirati agli anni ’80. Inclusi i temi popolari dell’epoca.

Parole Chiave: narrazione coerente, persona come media, linguaggio specifico di canale, contenuto di marca, riconoscibilità dei brand a tutto tondo su tutti media, elementi narrativi ed esperienziali, esperienza condivisa.

Luca Cavallini: Come può il brand adottare un linguaggio autentico e, più che inclusivo, aperto alla diversità, che favorisca relazioni genuine e promuova il bene comune?

Edoardo Morelli: Luca accende in me una miccia parlando del pessimo termine “inclusione”, mio grande punto di approfondimento tanto da scriverci un romanzo di formazione, con la speranza che un giovane pubblico (ma anche meno giovane) possa spostarsi dal concetto di “inclusione” al concetto di “riconoscimento”. Come giustamente sottolinea Luca vorrebbe dire passare letteralmente da una posizione di superiorità volta a “chiudere dentro” a una di scoperta nel “conoscer più volte”.

Lo stesso può valere per i brand, svincolandosi dal mettere se stessi al centro e allargando il centro di interesse verso un senso comunitario del vivere.

Riconoscere qualcuno vuol dire a mio avviso rendersi coscienti dei suoi bisogni peculiari, tutti ne abbiamo avuti, ne abbiamo e ne avremo.
Magari sono bisogni dettati dal momento, dal contesto, da mille cose. In quei momenti vogliamo una sola cosa, ogni persona vuole quella singola cosa: essere ascoltata.

Non per far promozione ma quel famoso romanzo alla fine racconta di questo: non esiste inclusione senza ascolto. L’inclusione che parte dall’azione e dalla considerazione personale non è inclusione, è affermazione dei sé. Il brand diventa inclusivo quando ascolta e, soprattutto, quando risponde ai bisogni: dei clienti, dei rivenditori, delle persone tutte he ne abitano le stanze.

Rispondere ai bisogni ovviamente non vuol dire avere la testa che dice sì senza condizioni.
Come gentilezza non vuol dire subire le volontà del mondo.

Rispondere vuol dire ascoltare, riconoscere il bisogno, interessarsi e impegnarsi per trovare una soluzione. Purtroppo, qualche volta la soluzione non c’è, altre volte non c’è ora ma ci può essere dopo.

L’atteggiamento inclusivo è quello che lascia le porte aperte e si impegna.

E il linguaggio diventa inclusivo allo stesso modo, quando è aperto a sufficienza da essere compreso senza lasciar dubbio.bIl linguaggio è inclusivo quando chi lo produce ascolta, si rende conto del pubblico e si allinea al pubblico con il quale vuol comunicare.

Il linguaggio, per sua natura, non è inclusivo e ce lo dobbiamo ricordare. Se dico bianco non dico nero. Se dico uomo non sottintendo donna. E il linguaggio è anche generativo e molto contestuale, la pragmatica è fondamentale. Se dico sconto genero un’aspettativa. Se dico veloce ognuno si crea una sua immagine di velocità.

Il linguaggio per essere inclusivo si deve sforzare di descrivere e di raffigurare, deve evocare sensazioni adatte ai cinque sensi. Deve profumare di nuovo e brillare di tecnologia nel nostro caso. Devi emozionarti nel fruire delle storie che raccontiamo e immedesimarti nelle persone che le abitano.

E ogni pubblico avrà suoi punti di interesse, quindi ogni contenuto destinato a una piattaforma pubblica deve aver chiaro con chi vuole parlare, sapere che a qualcuno non interesserà ma che tutti lo dovranno capire, potendo scegliere se interessa o meno.

Nel nostro mondo, fatto di tecnici informatici, il tecnicismo è sempre dietro l’angolo. Sbarcare con una cultura della comunicazione aiuta il settore stesso a evolvere, a rendersi inclusivo.
I tecnici che sposano questa filosofia si vedono, sono quelli con più probabilità di avere successo.

Puoi trovare tecnici bravi a comunicare che non hanno avuto successo, certo.
Sarà difficile però trovare tecnici di successo che non sono bravi a comunicare.

Come Timenet è uno dei grandi cambiamenti apportati molti anni fa: traslare da linguaggio tecnico a linguaggio empatico. Per rafforzare la cosa, in prima battuta, abbiamo affiancato al vocabolario anche una mascotte che per un periodo ha avuto grande spazio.
Il suo compito era ribadire un messaggio: abbiamo un volto, un’anima, delle emozioni e te le vogliamo comunicare.

Noi non usiamo acronimi ma li spieghiamo. Non usiamo inglesismi ma tendiamo a tradurre. Non diamo spiegazioni ma tendiamo a usare metafore.

Tutta la retorica ci viene in aiuto per essere, agli occhi specialmente dei clienti, trasparenti.
Quando ti barrichi dietro il linguaggio tecnico non vuoi renderti attaccabile.
Ti trinceri dietro il muro dell’incomprensibile, sicuro dell’attitudine tutta umana del sentirsi in imbarazzo nel dire “non ho capito”. Non solo, arroccandoti su una posizione di superiorità là dove qualcuno dovesse osare dirlo.

Ma lo stesso avviene nel mondo dei marketing. LinkedIn stesso è pieno di marketer che parlando ad altri marketer di quanto sia bello il loro marketing.

E va bene, ci sta voler diventare il top nel mondo del marketing. Dalla mia posizione trovo sia molto noioso e poco edificante. Ma io amo il mondo della formazione e dell’evoluzione. Divulgare qualcosa che serva solo a me non mi riuscirebbe per più di qualche settimana.

Aggiungiamo questo: siamo inclusivi linguisticamente nel momento in cui il messaggio non è utile solo a noi ma anche a chi ci ascolta. Un qualche tipo di utilità la deve avere.

Ecco, se il linguaggio arriva a tutti e i valori che vengono comunicati sono ben radicati e testimoniati: qui l’azienda può favorire il bene comune.

Può diventare un esempio dei suoi valori. Può diventare promotrice di un messaggio. Può essere un piccolo centro di benessere per chi vi orbita attorno.

Quando si pensa ai cambiamenti si pensa sempre alle grandi rivoluzioni. Ci si dimentica che le grandi rivoluzioni sono il frutto di un susseguirsi di piccoli eventi.
Dobbiamo riscoprire la voglia di compiere piccole azioni, con la fiducia di stare spostandoci in una direzione virtuosa. Dobbiamo ridare un po’ di valore alle intenzioni. Perché per semplicità si dice sempre che non è l’intenzione a creare il risultato ma le azioni, aggiungendo che se hai buone intenzioni ma produci cattive azioni allora non contano nulla.
Non ci credo del tutto. Se ho buone intenzioni e produco un’azione non consona posso comprendere e cercare di correggere. Se non parto dalle intenzioni mi manca la bussola di guida morale. L’intenzione è importante in quanto madre di qualunque azione.

Parlando di linguaggio inclusivo mi sento di testimoniare la mia disapprovazione per i lustrini di asterischi e schwa.  Questo tipo di lustrini mi indispone perché vengo da un po’ di militanza nel terzo settore. E questa pratica è la diretta rappresentazione di quanto ho scritto in apertura: ci si appone un lustrino ben visibile per potersi definire inclusivi. Un lustrino si vede. Impegnarsi per scrivere e comunicare in modo inclusivo, se fatto con cura, si tende a non vedere.
Asterischi e schwa sono invece ben visibili, suonano fortissimo, fanno un sacco di rumore. Tanto da risultare un limite per chi ha difficoltà di lettura. Impossibili da pronunciare e quindi da capire.
Usare un linguaggio scritto che non possa essere traslato in un linguaggio parlato, a mio avviso, è pura follia comunicativa.
Capisco che oggi scriviamo tutti molto più di fretta, la produzione di contenuti richiede volumi e velocità, i lustrini in questo aiutano. Il mio invito è quello di fare più esercizio e ad usare meno lustrini.

Ecco, il lustrino, questo è quello che “il mio brand” sicuramente non farà.

Scegliere le parole è un bellissimo esercizio.
Toglierle è un’aberrazione.

Matteo Lusiani: Il branding come indirizzo manageriale è nato dal marketing, adottando il suo linguaggio e i suoi dispositivi. Concetti come USP, le 4P o i KPI sono nati nel marketing e poi usati per decenni anche da chi si è occupato di gestire i brand.

Ma il branding trova la sua peculiarità staccandosi dal marketing almeno in tre direzioni:

  1. per la sua intrinseca multidisciplinarità,
  2. per la maggiore ampiezza temporale di riferimento,
  3. per il fatto di avere a che fare con una materia non misurabile (o difficilmente misurabile) e dunque di instaurare un rapporto coi dati completamente diverso.

Chi, come me, si occupa di brand consultancy dovrebbe essere attento a non assumere pienamente il linguaggio e i dispositivi del marketing pensando che siano concetti più facilmente comprensibili da manager e imprenditori. Dobbiamo ricercare un linguaggio più autentico — che significa appunto proporre riferimenti multiculturali, riferirsi al lungo periodo e uscire dalla logica della misurabilità.

Cristian Voltolini: Nel caso di Schär, si tratta della coincidenza tra storydoing e storytelling. E’ l’apertura di una finestra sul dietro le quinte, la promessa mantenuta di mettere sempre il meglio in tutto ciò che facciamo e, infine, il favorire la creazione di una community che contribuisce alla narrazione scegliendo il proprio linguaggio e i propri temi.

Il legame tra la presenza di una community consolidata e relazioni sane è immediato perché implica l’autoregolazione degli utenti sulla base di un codice condiviso che è più forte di qualsiasi netiquette Inoltre, può essere proprio la community a fornire spunti creativi, ad indicare la strada al brand in un estemporaneo ma efficace rovesciamento di ruoli.

Wiebke Klaas: Occorre essere curiosi e attenti osservatori del mondo che ci circonda. Il marketing è efficace soltanto quando è autentico, coinvolgente, reale e in grado di diventare un punto di riferimento includendo nel proprio messaggio ciò che rileva per i consumatori e con uno sguardo attento alla sensibilità del contesto umano e sociale.

Penso che, ancor prima del linguaggio, occorra affondare le radici nella realtà.

il linguaggio altro non sarà che una conseguenza della sensibilità di marketing manager che guardano con attenzione alle persone e ne conciliano i valori dei prodotti

Queste considerazioni diventano ancora più valide per un brand leader di mercato, che si pone tutti i giorni la responsabilità di promuovere valore, esperienza, guida, futuro.

Nello Barile: Da qualche anno la nuova frontiera della comunicazione delle marche è il cosiddetto brand activism (Kotler, Sarkar 2018). Si tratta di una definizione paradossale che ci racconta come, nel tardo capitalismo, l’impegno civico e le iniziative in favore dei beni comuni, diventano un tratto caratteristico delle attività di diverse marche. Questo esempio caratteristico dell’attivismo progressivo vede l’azienda come un soggetto attivo nel dibattito pubblico, capace di monitorare e anticipare altre organizzazioni su quelli che sono i temi salienti o critici in un determinato periodo.

Dunque, l’azienda che assume tratti, visione, impegno propri delle ONG, contro l’attivismo regressivo che è mera trasformazione di trend culturali in iniziative commerciali. Il caso Patagonia indica un’evoluzione fondamentale “da segmento specifico – quello degli sport outdoor – a una concezione più estesa di lifestyle che ha consentito di sviluppare in maniera più efficace la dimensione esperienziale del marchio (Saviolo, Marazza 2013, p. 110), che poi è a diretto contatto con il lifestyle perseguito dal suo fondatore, la cui figura carismatica continua a sedurre vaste schiere di appassionati.

Il brand è considerato da diversi esperti di marketing come uno dei preferiti da parte della generazione Z, insieme ad altre marche come Peloton, Roblox, Ethereum, Telfar e Disney (Clark 2021), a ben vedere molto diverse per caratteristiche e offerta, tanto da poterci suggerire una certa contraddittorietà nella definizione del nuovo target giovanile della Gen Z che il marketing vuole vedere come naturalmente votata a valori positivi e a un impegno politico che mira alla trasformazione della società (dimenticando invece alcune espressioni deleterie e tardo-consumereste di tale generazione). La chiave di spiegazione di tale successo sarebbe pertanto il passaggio dal possesso alla partecipazione, interagendo con i membri delle comunità di giovani con “autenticità e trasparenza” (ibid.).

Parole Chiave: linguaggio aperto (non inclusivo!), linguaggio generativo, coincidenza tra storydoing e storytelling, codice condiviso, autenticità e trasparenza

Luca Cavallini: Quanto tutto questo influenza lo sviluppo delle strategie creative di marca? E qual è, e sarà in futuro, l’impatto delle nuove tecnologie di Intelligenza Artificiale?

 Wiebke Klaas: Oggi stiamo attraversando una nuova epoca evolutiva.

L’IA viene spesso decifrata come uno “strumento”, di fatto è parte della nostra quotidianità e supporta le nostre vite. al netto della iniziale diffidenza, penso ognuno di noi si possa rendere conto del potenziale che questa rappresenta.

Rispetto alle strategie creative di marca l’Ia è un valido strumento di supporto che può massimizzare la lettura dei dati e ampliare i raggi di osservazione dei fatti e delle persone.

Credo quindi l’impatto sia in costante avanzamento e porterà una rivoluzione/evoluzione di cui beneficeremo in tutti gli ambiti.

 Nello Barile: Qualche anno fa ho coniato il termine ontobranding per indicare il modo in cui i brand, tramite le piattaforme, si estendevano sempre più sulla sfera emozionale, esistenziale ed ontologica dei consumatori/utenti, per produrre innovazione. La “collaborazione” assume un valore sempre più strategico quando è mediata dalle piattaforme e più recentemente dall’AI generativa. Il paradosso della nostra epoca è dato dal fatto che l’incredibile sviluppo della tecnica non sacrifica la sfera emotiva, anzi la sollecita, la amplifica, la rende onnipresente.

Oggi tutta questa alta densità emotiva trasuda, dal design agli spazi commerciali alle campagne di comunicazione, come nel film Her di Spike Jonze, in cui un ambiente estremamente vintage (dai costumi all’interior design e alla tecnologia) ospita la storia d’amore tra il protagonista Theodor e un sistema di Intelligenza artificiale così avanzato da poter gestire la sfera sentimentale.

Se provassimo a sostituire l’identità di Samantha con quella di un brand, capiremmo perfettamente dove stiamo andando. Jean Baudrillard sosteneva che il problema dell’Intelligenza artificiale è che è senza artificio, quindi senza intelligenza. Oggi forse il quadro sta cambiando profondamente, verso un’Intelligenza artificiale sempre più empatica e un sistema dei brand che è sempre più interessato alle potenzialità offerte da questa nuova tecnologia.

Per questo l’AI generativa, anche a detta della Gartner, rappresenta il nuovo Hype, dopo quello del metaverso che ha raggiunto il picco nel 2022. Il concetto di ontobranding riguarda il modo in cui il branding utilizza le frontiere più avanzate dell’automazione (l’Intelligenza artificiale) per esaltare e nutrire sempre ciò che c’è di più vivo, profondo e autentico nell’essere umano: le emozioni.

In un futuro molto prossimo, anche i processi di innovazione sociale saranno integrati, se non guidati, dall’Intelligenza artificiale, raccogliendo e gestendo dati estratti dal profilo personale degli utenti, durante le loro interazioni collettive e l’esperienza geolocalizzata di prodotti e marchi nella cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale, ormai diventata Quinta.

Cristian Voltolini: Più il prodotto dell’Intelligenza artificiale si perfeziona e si confonde con la realtà, più ciò che è autentico diventa prezioso e di valore. C’è anche un tema di fiducia: è evidente che, anche in considerazione di quanto sopra, rispetto al ciclo storico precedente, siamo inclini ad apprezzare l’artigianale invece dell’industriale, le piccole realtà rispetto ai player globali che, come tali, si pongono rispetto al consumatore. È una questione di contatto, probabilmente, di connessione emotiva. Allo stesso tempo, le logiche dominanti di velocità e costanza dell’intrattenimento omnicanale ci costringono ad un flusso creativo e proprietario, fortemente di marca, senza soluzione di continuità.

A cappello di tutto ciò, nei linguaggi, negli strumenti, e infine nei fatti, sembra sia crollato il muro che separava i responsabili della marca dalla propria audience.

Matteo Lusiani: Quello che sta succedendo con l’Intelligenza artificiale è che ha potenziato i processi creativi permettendo alle persone di sviluppare e valutare molte più idee, molto più velocemente.

Se una volta serviva tempo per passare da zero a uno, ovvero per produrre una prima idea (o gruppo di idee), oggi si parte direttamente da uno. In pochi secondo l’Intelligenza artificiale può produrre svariate idee creative a partire da un brief — e, bisogna ammetterlo, molte sono buone.

Sono però idee basate sull’esistente, sull’analisi e la sintesi di quello che è già disponibile. E non possiamo accontentarci di questo. A noi spetta quella scintilla di comprensione che porta a fare un passo oltre, a essere nuovi, a essere diversi — che poi è l’obiettivo di qualunque attività di branding.

Edoardo Morelli: Hai detto bene, non è una questione di linguaggio, la trovo una questione di costume. Tutto questo ha, o quantomeno può avere, più di un impatto. Se da un lato l’uso di emoji e simboli rende smart, confidenziale e fruibile la comunicazione scritta; dall’altro cela l’impoverimento del linguaggio.

Non lo fa con dolo, ci tengo a precisarlo, è l’essere umano che è pigro.
Scriviamo molto per lavoro e sui social. Scriviamo per i motivi più disparati ma tendenzialmente lo facciamo su canali atti a una comunicazione “sbrigativa” che ben accoglie questo costume mutuato dai social.

Il rischio è quello di passare più tempo dentro questo linguaggio che nel linguaggio comune. Il rischio è di disabituarsi a scegliere le parole. Il rischio è quello di smettere di usare la retorica in cambio di efficienza. Il rischio è quello di perdere le sfumature del linguaggio, che poi ne fanno il colore e la valenza emotiva.

Sono il primo ad usare faccine e simboli, più faccine che simboli, ma voglio pensare di farlo con una certa consapevolezza.

Ogni parola che smettiamo di usare è una sfumatura in meno nei nostri pensieri. Siamo le parole che riusciamo a pensare perché siamo le frasi che riusciamo a dirci. I pensieri sono composti di frasi. La neuroplasticità del nostro cervello è temprata da frasi che generano immagini.
Quanto possiamo dettagliare quelle immagini? Quanto possiamo variegarle? Molto dipende dalle parole.
Le parole ci servono per cambiare i punti di vista, per cambiare i “frame” che costituiscono il nostro modo di percepire la realtà.

Usiamo parole per concretizzare concetti astratti come amore e tempo, lo facciamo attraverso le metafore. Se perdiamo parole e retorica perdiamo metafore. Perdendo metafore perdiamo la capacità di rappresentare concetti astratti.
Perdiamo pian piano la capacità di immaginare e chi non immagina non sogna e, se non sogni, difficilmente evolvi e cresci.

La linguistica cognitiva, la mente incarnata, l’embodied cognition in psicologia, le neuroscienze: tutto convoglia e concorda sul potere delle parole e delle rappresentazioni mentali.

Teniamoci care le parole.

In tutto questo l’Intelligenza Artificiale ne usa molte e mediamente bene se ben usata.
Come brand crediamo in questa nuova avanguardia, di questo periodo l’acquisizione di una software house di Udine di 40 sviluppatori con una unità molto avanti sull’integrazione di sistemi AI all’interno dei processi aziendali.
Molto avvincente sarà questo 2025 grazie a loro, quando tutti parlavano di AI in modo molto filosofico, parlando poi per lo più di LLM come ChatGPT, loro avevano casi studio di integrazione sul campo.
Hanno un sacco di competenze e stanno facendo passi da gigante.

L’AI dove integrata con assennatezza è in grado di facilitare e automatizzare molti processi a basso valore aggiunto. Prenderà il posto di qualche lavoro? Forse, forse anche del mio, ma questo non vuol dire che io smetterò di lavorare.

Faccio sempre l’esempio dell’avvento del digitale in fotografia: ha fatto chiudere i fotografi? Sì, quelli che non sono passati al digitale. Certo l’AI sarà ancora più pervasiva ma la logica non credo cambi.
Ci sono competenze da rivedere, probabilmente da spostare. Ognuno dovrà fare le sue valutazioni, io sto facendo le mie. Credo che il mio bagaglio di competenze sarà ben spendibile quanto meglio sarò in grado di relazionarmi con le persone. Avrò probabilmente sempre meno bisogno di gestire strumenti, ma ci saranno sempre strumenti da gestire.
Probabilmente l’AI elaborerà idee e strategie in modo sempre più efficace, ma andranno sempre validate, messe a terra e verificate.
Sarà complesso e in alcuni casi fastidioso, è probabile. Ma di fatto, che si parli di digitale, di industria 4.0 o di AI, alla fine, si parla sempre di grandi cambiamenti. Purtroppo, per sua natura il cambiamento spaventa ed è difficile da digerire: per tutti, anche per me che ne scrivo qua.
Ma che vogliamo fare?

A oggi un LLM pubblico è troppo inaffidabile, allucinazioni e incongruenze lo rendono poco attendibile per essere integrato coì com’è.

Ma se si fa integrazione con i sistemi aziendali, si adottano oculati approcci di ragging e addestramento, allora si ottengono creature molto efficaci per compiti molto specifici.

Intendo per ragging quel processo per cui si offre a un LLM una base di conoscenza specifica e validata su contenuti aziendali selezionati.

L’AI oggi quel collega che, correttamente formato per quella specifica mansione., la può portare avanti con efficacia.vCi vuole tempo, formazione e controllo. Ma alla fine riesce.

In azienda abbiamo fatto e stiamo facendo integrazioni ed esperimenti, alcuni falliti, altri molto interessanti altri in fase di pre-rilascio.
In ognuno di questi non sarebbe pensabile la sostituzione delle persone, le persone ne sono abilitatrici e ne vengono facilitate.

Domani il tutto potrebbe cambiare? La risposta è sì, ma non possiamo oggi sapere cosa sarà domani, possiamo pensare a degli scenari e cercare di capire come preparaci.
Nel caso di Timenet, ad esempio, la relazione personale è quel valore aggiunto che i clienti cercano per non sentirsi un numero e per sentirsi accolti e aiutati.

Voglio chiudere con un lume di speranza per il futuro.
L’AI è uno strumento e come ogni strumento farà vedere i suoi lati buoni e quelli meno buoni.
L’uso che faremo dello strumento è sempre in mano alle persone.
Quindi la domanda non è se l’AI sarà un bene o un male.
La domanda è le persone sono un bene o un male?

La storia potrebbe non essere confortante.
Ma se sono qui è perché ho usato i social e ho conosciuto digitalmente persone.

Quindi vi aspetto in un futuro in cui l’AI sarà di grande sostegno per delle persone che avranno imparato come usarla al meglio e saranno state in grado di cambiare dove necessario.

Parole Chiave: ontobranding, processi creativi, Intelligenza Artificiale

81 – continua

Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)

Puntate precedenti

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE  POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO
22 – OPINION PIECE DI ROBERTO VERONESI
23 – OPINION PIECE DI FRANCESCO GORI
24 – OPINION PIECE DI NELLO BARILE
25 – OPINION PIECE DI LUCA MONACO
26 – OPINION PIECE DI RICCARDO MILANESI
27 – OPINION PIECE DI LUCA CAVALLINI
28 – OPINION PIECE DI ROBERTA PROFETA
29 – UN PUNTO NAVE
30 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CURA)
31 – OPINION PIECE DI NICHOLAS NAPOLITANO
32 – LEADERSHIP POP. VERSO L’YPERMEDIA PLATIFIRM (CONTENT CURATION)
33 – OPINION PIECE DI FRANCESCO TONIOLO
34 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CONVIVIALITA’)
35 – OPINION PIECE DI LUANA ZANELLATO
36 – OPINION PIECE DI ANDREA BENEDETTI E ISABELLA PACIFICO
37 – OPINION PIECE DI STEFANO TROILO
38 – OPINION PIECE DI DAVIDE GENTA
39 – OPINION PIECE DI ANNAMARIA GALLO
40 – INNOVAZIONE POP. ARIMINUM CIRCUS: IL READING!
41 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CONVOCAZIONE)
42 – OPINION PIECE DI EDOARDO MORELLI
43 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CO-CREAZIONE DI VALORE)
44 – OPINION PIECE DI MARIANNA PORCARO
45 – OPINION PIECE DI DONATO IACOVONE
46 – OPINION PIECE DI DENNIS TONON
47 – OPINION PIECE DI LAURA FACCHIN
48 – OPINION PIECE DI CARLO CUOMO
49 – OPINION PIECE DI CARLO MARIA PICOGNA
50 – OPINION PIECE DI ROBERTO RAZETO
51 – OPINION PIECE DI ALBERTO CHIAPPONI
52 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO ANTONINI
53 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA PILIA
54 – OPINION PIECE DI CLEMENTE PERRONE
55 – OPINION PIECE DI FABRIZIO RAUSO
56 – OPINION PIECE DI LORENZO TEDESCHI
57 – OPINION PIECE DI EUGENIO LANZETTA
58 – OPINION PIECE DI GIOLE GAMBARO
59 – OPINION PIECE DI DANTE LAUDISA
60 – OPINION PIECE DI GIAMPIERO MOIOLI
61 – OPINION PIECE DI GIOVANNI AMODEO
62 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO LOTTO
63 – OPINION PIECE DI GIANLUCA BOTTINI
65– OPINION PIECE DI SIMONE FARINELLI
66– OPINION PIECE DI FRANCESCA ANNALISA PETRELLA
67– OPINION PIECE DI VALERIO FLAVIO GHIZZONI
68– OPINION PIECE DI STEFANO MAGNI
69– OPINION PIECE DI LUCA LA BARBERA
70 – INNOVAZIONE POP. ARIMINUM CIRCUS: LA GRAPHIC NOVEL!
71 – LEADERSHIP POP. APOFATICA E CATAFATICA DELLA COMUNICAZIONE
72 – OPINION PIECE DI FEDERICA CRUDELI
73– OPINION PIECE DI MELANIA TESTI
74 – OPINION PIECE DI GIANMARCO GOVONI
75– OPINION PIECE DI MARIACHIARA TIRINZONI
76 – SENSEMAKING POP. LODE DELLA CATTIVA COSCIENZA DI SE’
77 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA CAPPELLO E ALESSANDRA MAZZEI
78 – OPINION PIECE DI JOE CASINI
79 – OPINION PIECE DI MARTA CIOFFI
80 – STORYTELLING POP. VERSO IL POP BRANDING (PARTE PRIMA)