La Pop Opinion di oggi, firmata da Gioele Gambaro, marketing manager con oltre 8 anni di esperienza nella crescita di start-up e scale-up, propone una analisi dei consumi informativi che si ricollega idealmente alle Conversazioni del progetto Librare.
Ne trae l’ennesima conferma dell’inadeguatezza della classe dirigente, a tutti i livelli. Il fatto del resto che la proposta di pubblicare un testo sul Pop Management sia stata respinta sia dagli editori specializzati sia dai grandi editori generalisti è sintomatico dalla lontananza dell’establishment da quanto accade nel mondo reale che non si possa includere (alias imprigionare, soffocare) nelle parole d’ordine approvate dai mandarini del politically correct.
Consumi informativi e nuovi media: polarizzazione, frammentazione e classe dirigente inadeguata
Gioele Gambaro
“L’Italia? La borghesia più ignorante d’Europa” (Orson Welles)
Consumatori (non molto) onnivori e disintermediazione
L’Italia è l’unico Paese dove, in media, i dirigenti leggono meno libri di quadri e impiegati. In questo articolo sosterrò che i seguenti fenomeni abbiano accelerato una già presente debolezza della preparazione culturale della classe dirigente -intendendo questo termine in senso esteso: una crescente polarizzazione dei consumi informativi, nonché una crescente frammentazione degli stessi, a cui si ha da sommarsi la crisi dei giornali.
Teorizzato da Umberto Eco negli anni ’80, il consumatore onnivoro prevedeva la scomparsa della cultura alta, in favore di consumi variegati. Si sarebbe quindi andati verso una convergenza dei consumi culturali, in cui le stesse persone che leggevano Charlie Brown (celebre una sua introduzione a un volume del fumetto di Shultz) avrebbero letto testi di sociologia e drammi di Shakespeare.
Non andò esattamente così: dai dati ISTAT emerge come solo una piccola percentuale di italiani che almeno una volta l’anno vanno al cinema vadano anche a teatro. Se includiamo le discoteche, siamo sotto l’1%. Gli intellettuali hanno iniziato a fruire cultura pop, ma l’inverso non è successo. L’auspicata convergenza, probabilmente influenzata anche di un afflato verso l’educazione della classe operaia tipica di quegli anni, non vi è stata.
Quello a cui abbiamo assistito è esattamente l’opposto: una crescente polarizzazione della qualità dei consumi culturali e di informazione. In verità, la diffusione della TV negli anni ’60 portò a una convergenza verso la media: la borghesia smise di andare a teatro, i poveri smisero di parlare in dialetto e impararono l’italiano. Questa convergenza iniziò a ridursi con la TV satellitare: in precedenza, con pochi canali, tutti guardavano il telegiornale, cosa che garantiva un livello minimo di informazione diffusa nella popolazione. Con più offerta televisiva, chi voleva informazione guardava i canali all news, chi non era interessato guardava gli show e gli sceneggiati.
Questa tendenza è esplosa con i social media (fenomeno aiutato dalla loro ergonomia cognitiva come illustrato da Alessio Mazzucco nei Prolegomeni 18) e i podcast. Limitando la mediazione editoriale e forzando ciascuno a costruirsi il proprio palinsesto, anche per effetto degli algoritmi (rimando ai Prolegomeni 17 di Marco Milone per una disanima del loro funzionamento), pochi utenti hanno avuto accesso a contenuti molto specializzati e di altissima qualità, mentre molti sono finiti per autoselezionare un’informazione di qualità paragonabile se non inferiore ai tabloid inglesi.
La crisi dei giornali
Abbiamo poi da considerare la crisi dei giornali. Fenomeno devastante in US, gestibile in Giappone, molto acuto in Italia. Questa crisi ha avuto alcune conseguenze che interessano da vicino il nostro ragionamento.
Si è entrati in un circolo vizioso per cui i giornali hanno sempre meno budget per fare inchieste e fact-checking, indi per cui stentano sempre di più a farsi pagare per una qualità via via decrescente. Di conseguenza, è sorta una sempre maggiore dipendenza dagli inserzionisti, che ne ha talvolta inficiato la credibilità.
In compenso, il loro ruolo di agenda setting (la capacità di impostare l’agenda pubblica e politica in termini di temi salienti e rilevanti) rimane inalterato, in quanto i nuovi media non hanno saputo proporre alternative in grado di rimpiazzare una struttura industriale in grado di produrre notizie: provando a esprimere il concetto con un’immagine, lo streamer su Twitch può esprimere le sue opinioni politiche ma, mancando degli accessi stampa parlamentare, difficilmente potrà imporre quali siano gli argomenti del giorno.
Per comprendere appieno questo fenomeno, dobbiamo sfatare alcuni miti riguardo la TV, l’altro grosso attore broadcasting insieme alla radio. La sua fruizione è sicuramente diminuita negli anni, ma meno di quanto si creda: le nuove generazioni guardano ore di TV lineare (escludendo quindi le piattaforme di servizi streaming come Netflix, Amazon Prime Video, Disney+, ecc.). Infine, parlando dell’aspetto che ci interessa maggiormente, ovvero i consumi informativi, i TG sono calati molto meno della TV in generale.
Presi insiemi, questi fattori hanno alterato poco il potere di agenda setting dei giornali, anche se il dinamismo dei social e l’accentuarsi della polarizzazione dei consumi ha reso molto più complessa una previsione in termini di encoding-decoding system.
Crisi delle grandi narrazioni, micro-influencer e spin giornalistico in difficoltà
In statistica, una polarizzazione porta allo svuotarsi dei valori prossimi alla media. La possiamo visualizzare come una gaussiana rovesciata. Dal momento che la parte più corposa è a sinistra, quindi dove si colloca la popolazione con i consumi informativi di minor qualità, c’è un incentivo a spingere la comunicazione verso il basso. Detta in altri termini: senza Twitter e Facebook, avremmo avuto gli stessi registri lessicali da parte di Donald Trump e Matteo Salvini?
La frammentazione, un fenomeno più generale, che ha riguardato tutti i servizi come acutamente osservato da Riccardo Maggiolo in Prolegomeni 6, spinge di contro a non creare grandi narrazioni, per l’elaborazione delle quali sono necessarie letture e partecipazione al dibattito culturale. Come efficacemente spiegato Ne Il partito degli influencer di Stefano Feltri, con i nuovi media è possibile usare micro-influencer per veicolare messaggi e prese di posizione ritagliate su piccoli segmenti-target (c.d. micro-targeting).
Come scrive l’autore:
“Samuel C. Wooley è uno studioso della comunicazione, professore alla University of Austin, in Texas, e lavora al Project for Democracy and the Internet presso la Stanford University.
Con alcuni colleghi ha condotto un approfondito studio sull’uso degli influencer durante il 2020, sia descrittivo che sperimentale e ha ricostruito le dinamiche dell’engagement, come e cosa si condivide, quando e perché.
La conclusione a cui Wooley e i suoi colleghi sono arrivati è che i micro e nano-influencer, con meno di 10 000 follower sono politicamente rilevanti proprio perché diversi dalle celebrità: nella vita non fanno gli influencer, sono semplicemente membri rilevanti di una qualche comunità, meglio se nel mondo reale, cioè se sui social sono seguiti da persone con le quali hanno interazioni concrete, quotidiane.
Questa connessione aumenta la probabilità che ci siano reazioni ai contenuti postati, commenti, condivisioni, perché questi influencer tendono a evocare la fiducia che le persone hanno verso le raccomandazioni che ricevono da amici e familiari, inoltre influencer di scala così ridotta possono offrire benefici in termini di personalizzazione dell’audience».
Identificare chi ha influenza in uno specifico gruppo permette di raggiungere in modo chirurgico gli altri esponenti della comunità: chi è interessato ai voti dei giovani di un certo quartiere, può cercare di ingaggiare come influencer il ragazzo popolare nella scuola che ha una certa influenza, appunto, sugli altri.
Sono frontiere finora poco esplorate dalla politica ma negli Stati Uniti, dove le risorse economiche per questo tipo di operazioni non mancano, iniziano a essere battute. Anche perché, osservano Wooley e colleghi, <<questi influencer di piccola taglia sono anche poco costosi ma permettono di mobilitare numeri significativi di persone attraverso un messaggio politico che viene percepito come autentico, credibile».”
Come si muovono in questo contesto polarizzato e frammentato giornali e telegiornali? Come abbiamo visto, riescono ancora in maniera non indifferente a definire l’agenda, ovvero i temi che domineranno il dibattito pubblico. Dopo il primo spin, però, in queste mutate condizioni perdono il controllo e non riescono più a direzionare il dibattito come facevano in epoca pre-social. Si crea quindi uno scenario ibrido, un ircocervo: i primi input partono dai media tradizionali, gli unici ancora veramente legati al potere politico ed economico, gli unici entrare nelle rassegne stampa quirinalizie e parlamentari; il dibattito non è più però sui giornali, si perde in mille rivoli, ricondivisioni, screenshot, canali Telegram, producendo una reazione bottom-up totalmente estranea alle logiche dei media tradizionali.
Quali soluzioni?
Nessuna riduzione della frammentazione sarà possibile senza una serie revisione dell’architettura dei social. Questi agenti non possono essere al contempo editori e piattaforme neutrali: un editore, sia esso La Stampa o Einaudi, compie delle scelte su cosa scrivere e cosa tacere: nel caso dei giornali, vi è anche la figura di un direttore responsabile che risponde davanti alla legge di tutto ciò che viene pubblicato.
Di contro le piattaforme social declinano ogni responsabilità sui contenuti, presentandosi come meri contenitori neutri, quando nei fatti compiono precise scelte politico-editoriali. Questa liberalità fu quello che gli consentì prima di tollerare i post di Donald Trump, che violavano palesemente qualsiasi linea-guida contro l’incitamento all’odio, salvo poi oscurare il Presidente degli Stati Uniti dopo i fatti di Capital Hill.
Per quanto riguarda la polarizzazione, a modesto avviso dello scrivente essa potrà essere ridotta solo con profonde riforme del sistema universitario. È noto che l’Italia ha un tasso di laureati molto basso; meno noto è che il tasso di iscrizione all’università è sostanzialmente uguale agli altri Paesi comparabili. Cosa causa questo tasso di abbandono così elevato? Secondo gli studiosi della materia, i principali fattori sono:
- Non consequenzialità fra scuola secondaria frequentata e università: prima del 1968 l’ingresso all’università era legato al tipo di secondaria frequentata, per cui uno studente poteva fare economia se prima aveva frequentato ragioneria, architettura se prima aveva frequentato l’istituto per geometri e così via. In seguito, c’è stata una liberalizzazione degli accessi sotto questo aspetto, non accompagnato però dall’istituzione di adeguati strumenti di verifica da parte delle università del livello di competenza degli studenti
- L’assenza di pressione sugli atenei per evitare meccanismi di dispersione: si preferisce cioè una specie di “selezione per attrito” in corso d’opera invece di una reale selezione all’ingresso
- Mancanza di un doppio livello: da noi in realtà la vera università di recupero sono le telematiche, (che non sono poche, quasi una dozzina). Il modello tedesco, che differenzia nettamente tra taglio accademico e taglio professionale, è probabilmente quello che permetterebbe all’Italia di uscire da questa situazione. L’unica esperienza che abbiamo avuto in questo senso è stata precedente alla riforma del 3+2, ed erano i diplomi universitari, corsi di tre anni finalizzati all’ingresso al mondo del lavoro e senza ulteriori sbocchi universitari. Avevano avuto molto successo perché intercettavano una domanda di ulteriore istruzione proveniente prevalentemente dagli istituti tecnici. Il recente successo degli ITS sembra essere promettente, da questo punto di vista
Le possibili soluzioni potrebbero essere:
- Le università dovrebbero effettivamente accertarsi che i livelli di competenza minimi richiesti siano effettivamente conseguiti e, in caso contrario, predisporre degli “anni di azzeramento” che mettano in grado gli studenti di seguire i corsi delle materie che sono impartite. Inoltre, non servirebbe molto a disegnare dei meccanismi di incentivi che recuperino gli studenti più deboli
- Il sistema universitario va dotato di più risorse: il confronto internazionale ci dice che l’Italia è uno dei Paesi che investe meno in istruzione universitaria: l’Italia è al di sotto dell’1% di investimenti in rapporto al PIL, e compete con Paesi che investono dal 2% al 2,5%.
Per quanto riguarda la crisi dei giornali, la soluzione deve essere affidata al mercato: vanno individuati dei meccanismi che permettano ai giornali, o a una loro evoluzione, di poter ottenere abbastanza revenue da poter garantire giornalismo di qualità. La sfida non è impossibile; per fare un parallelismo, a seguito di Napster e dei lettori mp3, l’industria musicale perse quasi il 50% del suo fatturato. Negli ultimi anni, si è ripresa alzando i prezzi dei biglietti dei concerti, sfruttando la rigidità della domanda, e appoggiandosi alle piattaforme di streaming, che propongono un meccanismo di revenue share.
Certamente le aree di intervento che ho tratteggiato sono molte e strutturali. Le aziende possono intervenire in tutti questi settori: nel 2020 tentarono, e in parte riuscirono, a far rivedere alcune politiche di Meta attraverso un boicottaggio degli investimenti pubblicitari; i migliori esempio del giornalismo italiano nacquero dallo spirito di imprenditori illuminati; infine, una maggiore sinergia con il sistema universitario, attraverso ad esempio un potenziamento del technology transfer, potrebbe giocare un ruolo chiave nel migliorare la qualità dell’accademia italiana.
59 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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