Uno dei padri fondatori dello Humanistic Management arricchisce da par suo la riflessione sul Pop Management: Francesco Varanini, che col suo Opinion Piece offre un magistrale esempio di approfondimento critico e di stimolo al pensiero individuale, a favore della costruzione di un percorso collettivo di senso. In questo quadro, mi riservo di sviluppare l’opportunità di confronto replicando alle osservazioni proposte da Francesco al termine del suo pezzo nel prossimo post.
In difesa del Pop-Pop
Francesco Varanini
Foreste senza confini rendono invisibile la soglia tra romanzo e saggio. Se ci addentriamo in Ariminum Circus scopriamo che l’autore stesso, implicito nell’opera, si esalta e allo stesso tempo scompare. Marco Minghetti, aka Federico D. Fellini appartiene a quella famiglia di autori che sentono la profonda esigenza di scrivere, e di non porre limiti a sé stessi mentre scrivono. È bello perdersi in queste foreste dove però la struttura, accuratamente orchestrata, è anche sempre messa alla prova chiamando a far parte della figura dell’autore scrittori diversi. Ho partecipato a diverse riprese a queste avventure. Spesso da posizioni non del tutto coincidenti con quelle di Marco. Ma proprio questo ha reso queste avventure più stimolanti e costruttive.
In questa luce leggo il suo Manifesto del Pop Management. E, ancora in questa luce, non voglio rinunciare a ricordare, con Marco, il Ventennale del Manifesto dello Humanistic Management.[1] acme, ricorda Marco, “delle pionieristiche sperimentazioni” da lui avviate già da giovanissimo.
Devo anche aggiungere che ritengo ancora oggi il mio contributo al Manifesto di vent’anni fa uno dei miei scritti più sintetici e precisi in merito alla cultura d’impresa. Parto dunque di qui per parlare del Manifesto del Pop Management e di Sensemaking.
Scrivevo vent’anni fa, e riscriverei pari pari ora, che dietro tante politiche di comunicazione interna si cela “una precisa strategia comunicativa”.[2] Si sostituisce alle narrazioni popolari, che sono il sale della partecipazione dei lavoratori all’organizzazioni, uno storytelling normalizzatore e banalizzante. Provate ad ascoltare le parole di lavoratori innamorati del proprio lavoro – ce ne sono ancora tanti – mentre conversano nella pausa mensa o nel loro viaggio in treno da pendolari. Parlano di questioni tecniche con estrema competenza, parlano con passione del loro creare valore e senso.
Questo amore per il lavoro e per la conoscenza – che per me sono l’essenza del Pop – rischia sempre di essere vessato da una comunicazione filtrata da esperti.
Dove sta il senso? Scrivevo vent’anni fa e riscrivo ora: “non ci interessano testi ripuliti, ben confezionati, limati, frutto di accurato editing, ben costruiti in sequenza. Ci interessano i testi segnati da cesure, da discontinuità, inciampi, salti logici, pluralità di voci sovrapposte. (…) Lì sta la conoscenza latente, la ricchezza nascosta della narrazione”.
Da un lato, quindi, sta il testo ufficiale, la narrazione della vita organizzativa descritta dal punto di vista del potere. Dall’altro stanno i materiali eterocliti emergenti dal ventre dell’organizzazione. Per me è questo il Pop che dobbiamo cercare. Perché da questo Pop, costruzione collettiva di senso, discende la creazione di valore.
Devo però aggiungere una precisazione. Siccome l’essere umano pensa e lavora nella propria lingua, penso che le parole inglesi inseriscano un dannoso velo. Quindi intendo Pop come contrazione dell’italiano popolare. E trovo autocontraddittoria, se usata da noi italiani, l’espressione sensemaking: nel mentre dico sensemaking inserisco un velo tra me stesso e il senso che sto producendo. Direi dunque produzione di senso, o meglio costruzione di senso.
Mi trovo del tutto d’accordo con Riccardo Maggiolo quando, nel suo commento al Manifesto scrive: “le organizzazioni senza persone sono nulla – e le persone senza organizzazioni non possono nulla. Le organizzazioni devono essere centri attrattivi, e quindi ‘pop’ nel senso più pieno”.[3] Per me non è qui in gioco la leadership. E’ in gioco piuttosto il processo collettivo di costruzione di senso. Non mi aspetto che appaia per fortuna sulla scena un manager o un leader tanto saggio e capace di edificare qualcosa di diverso dalle organizzazioni difettose e tossiche che abbiamo sotto gli occhi. Penso piuttosto che in ogni caso, quale che sia l’atteggiamento del manager o dei leader, esista una organizzazione latente, interstiziale, spesso costretta a nascondersi. Una organizzazione di fatto dove le persone al lavoro, comunque e in ogni caso, costruiscono senso.
Non credo dunque in un Pop come concessione. Credo in un Pop che è continuo tentativo da parte dei lavoratori di aprire di spazi vitali, o quanto meno di spazi di sopravvivenza. Spazi di autonarrazione.
Così accadde con la musica Pop dagli Anni Sessanta del secolo scorso. Testi e musica dove una intera generazione, in modi sempre nuovi di volta in volta emergenti, parla di sé. Così credo accada in ogni organizzazione: riletture ‘barbare’ della comunicazione ufficiale; critica del potere; barzellette; soprannomi; acuta, ma non canonica, narrazione delle tecnologie e dell’organizzazione del lavoro.
Non sono sicuro che Marco sia d’accordo con me. E trovo pericoloso il suo rifarsi, subito nell’incipit, a “Gilles Deleuze che, nel 1977, coniò il termine pop’philosophie”. Si sa che il termine è proposto da Deleuze nel suo ragionare attorno alla pubblica fruizione dell’L’Anti-Œdipe.[4] (Mi pare che Deleuze proponga l’espressione non nel ’77 ma nel ’73,[5] giusto un anno dopo l’uscita dell’L’Anti-Œdipe. Ma questo cambia ben poco).
Deleuze, rivolgendosi a critici ingiustamente severi, difende L’Anti-Œdipe sostenendo che si tratta di un testo diverso dagli altri: non philosophie ma pop’philosophie. Dice infatti:
ce livre, au moins en droit, s’adresse à des types entre quinze et vingt ans. […] on considère un livre comme une petite machine a-signifiante; le seul problème est ‘’est-ce que ça fonctionne et comment ça fonctionne ?’’ […] Quelque chose passe ou ne passe pas. Il n’y a rien à expliquer, rien à comprendre, rien à interpréter. C’est du type branchement électrique.
questo libro, almeno in linea di principio, si rivolge a persone tra i quindici e i vent’anni. […] Pensiamo a un libro come a una piccola macchina a-significante; l’unica cosa che conta è chiedersi: ”funziona? e come funziona?’ […] C’è qualcosa passa o non passa. Non c’è niente da spiegare, niente da capire, niente da interpretare. È come una connessione elettrica.
Deleuze, mi pare, non aiuta certo così i ragazzi ai quali Deleuze sembra volersi rivolgere a trovare il proprio posto del mondo, e magari a costruire un mondo nuovo. Svaluta le relazioni sociali: mere connessioni elettriche che connettono macchine. Deleuze e Guattari nell’Anti-Œdipe pretendono di distruggere la figura dell’essere umano, erede di una storia, portatori di una cultura e di valori, proponendo un Corpo senza organi, un corpo ricostruibile a piacere in Macchine desideranti. Macchine, appunto. La provocazione di Deleuze funge da comoda legittimazione per chi pretende di sostituire le relazioni sociali tra esseri umani con connessioni tra agenti, che possono essere indifferentemente umani e macchine.
In effetti oggi sono in tanti a dirlo: non c’è distinzione tra esseri umani e macchine, si tratta in ogni caso di macchine a-significanti; programmabili. “L’unica cosa che conta è chiedersi: funziona?”.
Deleuze, in questa maniera, apre la strada al funzionalismo. Chi oggi sostiene che si può comparare una cosiddetta ‘intelligenza artificiale’ ad un essere umano, trova una comodissimo sostegno nelle parole di Deleuze. Non so, alla fine, cosa ne pensa Marco. Cita nel Manifesto “le discussioni intorno alla superiorità dell’automatico sull’antropico che si svolgono fra i personaggi di Ariminum Circus”. Intende forse Marco guardare dall’esterno l’“incontro-scontro fra Intelligenze (naturali e artificiali)”?
E’ esattamente, questa, la questione sulla quale prendo partito nel mio libro Splendori e miserie delle Intelligenze Artificiali. Alla luce dell’umana esperienza.[6] Sto dalla parte dei lavoratori che producono senso con il proprio lavoro, e che sono limitati in questo loro agire dal falso-senso imposto per mezzo delle piattaforme digitali tramite le quali oggi lavorano; ed in tempi più recenti tramite l’uso obbligatorio di supporti dotati di Intelligenza Artificiale.
Perciò non posso essere d’accordo con Alessio Mazzucco quando sostiene che “quello che un tempo era dominio di esperti accademici ora è alla portata di tutti: l’IA è in qualche modo diventata Pop”.[7] Quale Pop possiamo vedere in tecnologie-scatole-nere, progettate per togliere agli esseri umano spazi di autonomia di produrre valore e senso? Nessuno.
Torno in conclusione alla frase dove Deleuze conia l’espressione pop’philosophie. Dice Deleuze che la pop’philosophie si rivolge ai ragazzi tra i quindici o vent’anni. Si può intendere il ‘rivolgersi’ in due modi: il libro racconta ciò che Deleuze e Guattari hanno appreso dai ragazzi, oppure il libro vuole educare, dare la linea ai ragazzi.
Mi pongo la stessa domanda a proposito del Pop Management. È un’apertura di spazio per gli abitatori delle organizzazioni o l’espressione del nuovo, forse più moderno o post-moderno, pensiero di una élite?
20 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
[1]
Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello Humanistic Management, a cura di Marco Minghetti e Fabiana Cutrano, ETAS, 2004. Contributi di Giampaolo Azzoni, Enrico Bertolino, Paolo Costa, Franco D’Egidio, Domenico De Masi, Duccio Demetrio, Andrea Notarnicola, Enzo Rullani, Piero Trupia, Francesco Varanini, Giuseppe Varchetta, Laura, Luca, Maria Ludovica e Riccardo Varvelli. Postfazioni di Mario Morcellini e Ugo Volli.
[2]
Francesco Varanini, “Un certo tipo di letteratura”, in Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello Humanistic Management, a cura di Marco Minghetti e Fabiana Cutrano, cit.
[3] Riccardo Maggiolo, “Il patto del lavoro sta cambiando, i leader no”, Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 6 – Leadership Pop. Opinion Piece di Riccardo Maggiolo,
[4] Gilles Deleuze et Félix Guattari, L’Anti-Œdipe, Minuit, 1972.
[5] Gilles Deleuze, “Lettre à Cressole”, in Michel Cressole, Deleuze, Éditions Universitaires, 1973; poi [sotto il titolo: “Lettre à un critique sévère”] in Gilles Deleuze, Pourparlers 1972-1990, Minuit, 1990, pp. 14-15.
[6] Francesco Varanini, Splendori e miserie delle intelligenze artificiali. Alla luce dell’umana esperienza, Guerini e Associati, 2024.
[7] Alessio Mazzucco, “Organizzazione Pop”, Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 18 – Organizzazioni Pop. Opinion Piece di Alessio Mazzucco.
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