Immagine di Marcello Minghetti per Ariminum Circus Stagione 1

Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 6 – Leadership Pop. Opinion Piece di Riccardo Maggiolo

Cominciamo oggi la pubblicazione di Opinion Piece scritti da esperti e personalità che si riconoscono nella prospettiva del Pop Management. Inaugura la serie Riccardo Maggiolo,

Il patto del lavoro sta cambiando, i leader no

di Riccardo Maggiolo

La sensazione, molto chiara, è che non si sia ancora capita la portata del cambiamento in atto – e quindi l’urgenza di farvi davvero fronte. Quella che è cominciata da qualche anno a questa parte è una vera propria rivoluzione, forse ancora più profonda e gravida di conseguenze della cosiddetta “rivoluzione digitale”. Una rivoluzione probabilmente più lenta, sicuramente meno vistosa, ma anche più radicale. Perché se la rivoluzione digitale, dal PC all’AI, ha riguardato e riguarda gli strumenti, la rivoluzione di cui vediamo ora i primi effetti riguarda gli agenti, le persone.

La rivoluzione è questa: il patto del lavoro sta cambiando. E poiché dal lavoro dipende tutta l’economia e tutta la società, gran parte di quello che facciamo e siamo, sono le stesse architetture delle nostre comunità che stanno mutando in profondità. E non si tratta solo di smartworking, di settimana corta, di digitalizzazione e di automazione, ma di qualcosa di più profondo, che ha a che fare con le motivazioni che portano le persone ad agire insieme. In questo contesto, chi ha maggior potere oggi deve urgentemente ripensare le organizzazioni, pena perdere quel potere – e, ben peggio, esercitarlo male prima.

In che senso il patto del lavoro sta cambiando? Dalle tribù agli imperi, per millenni gli individui hanno lavorato e osservato le leggi delle loro comunità perché queste gli fornivano protezione e appartenenza, ovvero gli consentivano di accedere a beni necessari alla sopravvivenza e di difendersi dalle tante insidie e minacce di un mondo ostile. Negli ultimi secoli, essendo usciti da un contesto di scarsità endemica, questo patto si è evoluto nella forma dello Stato, che ai suoi cittadini in cambio del lavoro fornisce un reddito e in cambio della legalità promuove diritti e quindi opportunità.

Il fatto però è che oggi – quanto meno in Occidente – non siamo più in un contesto di scarsità e forse nemmeno di abbondanza, ma di sovrabbondanza. Sempre più persone hanno accumulato capitali tali per cui non temono più di non potersi procurare facilmente, oggi e in futuro, quanto necessario alla sopravvivenza; e allo stesso tempo le libertà e le possibilità di scelta sono tante e tali da risultare non di rado bloccanti e disorientanti. Tutto questo è particolarmente evidente nella cosiddetta “generazione Z”: i nati alla fine degli anni ’90 o inizio anni 2000 che ora però cominciano ad affollare aziende e fabbriche, e che sono quindi destinati a trasformarle.

Qualche rapido dato per dimostrarvi che non sto delirando. Dal 1960 a oggi il PIL mondiale è centuplicato, passando da 1,4 a 105 trilioni (cioè miliardi di miliardi) mentre il PIL pro capite è aumentato di 27 volte passando da 457 a 12.648 dollari. Nello stesso periodo la percentuale di persone che vivono con meno di due dollari al giorno è passata da oltre la metà (51,1%) all’8,6%, in una popolazione che è cresciuta da 3 a 8 miliardi di persone. Oggi al mondo ci sono più persone in sovrappeso che sottopeso, e il 30% del cibo prodotto è sprecato. Al mondo ogni persona genera in media 275 chili di rifiuti all’anno.

Per quanto riguarda le libertà, la facilità ed economicità dei trasporti, la disintermediazione dei servizi, l’universalità delle comunicazioni, permettono alle persone di muoversi rapidissimamente tra scenari e contesti diversi – spesso senza davvero radicarsi in alcuno. Se tutto, dal lavoro al partner, dagli amici agli eventi, è a portata di click o a distanza di pochi passi, tutto diventa raggiungibile e niente o quasi diventa “casa” (da qui anche l’odierno fastidio che si provoca quando si dice che una certa azienda “è come una famiglia”). Se le opzioni si moltiplicano, finiamo per operare scelte e quasi mai decisioni – perfetta in questo senso la metafora dello Scrittore di  Ariminum Circus Stagione 1 che, «incalzato dall’Ombra su mille possibilità di incipit diverse capisce che «doveva stopparla, altrimenti avrebbe prodotto un elenco di opzioni, fra cui non avrebbe saputo scegliere. La sua ambizione letteraria avrebbe fatto la fine miserevole dell’asino di Buridano. Se non quella, più spaventosa, ci ragguaglia Calvino, “dell’inestricabile Ts’ui Pen che, di fronte alle diverse alternative poste da un labirinto, si decide – simultaneamente – per tutte”» (Prolegomeni 5).

In questo nuovo scenario di abbondanza o sovra-abbondanza, le organizzazioni e i leader perdono le loro due tradizionali leve di attrazione e potere: la prima, quella più classica, di soggetti in grado di provvedere al sostentamento e alla protezione dei propri seguaci; la seconda, più moderna, di essere in grado di conferire più o meno direttamente dignità e accettabilità sociale, se non di aprire le porte al successo. Vale a dire e molto prosaicamente: un tempo si lavorava soprattutto per fame, più di recente si è lavorato per essere e diventare “qualcuno” (quasi che, se non si lavora, non si è nessuno).

Ecco, oggi queste due leve sono sempre meno efficaci. La concezione del lavoro come una commodity, e quindi dei lavoratori come delle materie prime da acquistare al minor prezzo possibile e da far rendere il più possibile, sta definitivamente tramontando. E con essa, l’idea del capo autoritario, che fornisce direttive e dà certezze, che si affida agli strumenti e fa leva sulla gerarchia, è finita. Insomma, se prima erano le persone ad andare verso le organizzazioni e i leader, oggi e sempre di più in futuro saranno le organizzazioni e i leader a dover andare dalle persone.

Si tratta di un cambiamento radicale e obbligato. Perché le organizzazioni senza persone sono nulla – e le persone senza organizzazioni non possono nulla. Le organizzazioni devono essere centri attrattivi, e quindi “pop” nel senso più pieno di “popolari”; diventare spazi di fiducia atti a svolgere quel ruolo di luogo d’incontro e di coordinamento sociale che istituzioni e media non riescono più a esercitare. Costruire mappe per ridisegnare territori e trovare anzitutto sé stesse. Per questo sviluppare una vera cultura del lavoro non è più una scelta, ma una vera e propria esigenza per ogni realtà organizzativa.

Attenzione, però: questo non vuol dire che le organizzazioni dovrebbero parlare fino alla nausea di “valori” e di “purpose”, offrendo piani di welfare o integrazioni di stipendio; né che i capi debbano tutti trasformarsi in “leader gentili” e in popolari raccoglitori di like sui social media. Tutte queste cose (se fatte in maniera seria e non fatua) possono essere utili o persino necessarie, ma non sono sufficienti. Perché il punto è che in un mondo complesso, incerto, mutevole, tutti – e in particolare i più giovani – sono alla ricerca di autenticità. E l’autenticità, nelle organizzazioni, si origina nell’autorevolezza.

L’autenticità è molto diversa dalla spontaneità. Quest’ultima è fare quello che vogliamo, mentre la prima è essere ciò che desideriamo. Essere spontanei è emettere senza filtro dando voce ai bisogni propri e altrui; essere autentici vuol dire ascoltare attentamente e scegliere che messaggi ed emozioni comunicare. Autorevole, allora, è chi avoca e sé le decisioni ma lascia agli altri le scelte; chi all’efficienza preferisce l’efficacia. Autorevole – come insegna Schmitt – è chi decreta lo stato d’eccezione; chi indica la grande direzione verso un orizzonte oscuro e incerto, mentre lascia che dell’ordinario e del calcolabile si occupino altri. Autorevole è chi agisce da davvero leader, e non solo da manager.

L’autorevolezza è anche l’unica chiave per arginare l’epidemia di motivazione che vediamo sempre più chiaramente attorno a noi. In un mondo complesso, dominato da una narrazione che racconta di strumenti sempre più potenti e inarrestabili, in cui il futuro è diventato un luogo ostile o quanto meno pericoloso, non dovrebbe stupire che le persone si sentano sempre più oggetti e non soggetti; comparse e non protagonisti, semplici esecutori più che creatori di senso. È l’essere umano che si fa macchina, e solo la leadership autenticamente autorevole è in grado di conferire quel senso all’agire collettivo che può rompere questo incantesimo, rinunciando al potere del controllo per scommettere sulla fiducia; abdicando alla propria potenza per dare vita a una forza comune.

In questo scenario, per tornare alle “lezioni shakespeariane” di Prolegomeni 5,  un leader può essere novello Iago o Macbeth; può scegliere di essere un abile persuasore per ordire macchinazioni a proprio esclusivo vantaggio, o uno spietato guerriero convinti di essere nel giusto per destino. Non c’è da dubitare che abbonderanno gli uni e gli altri.  Ma alla fine chi sceglierà una di queste due strade si troverà vittima delle proprie bugie o della propria vanità. Se non altro perché il pubblico – oggi non più solo astante ma attore ingombrante che entra prepotentemente sul palco – non starà dalla loro parte. I protagonisti, insomma, sono destinati a uscire di scena. A sopravvivere, invece, sarà chi saprà ascoltare e raccontare. Chi saprà, in un certo senso, essere “pop” senza essere “cheap”.

6 – continua

Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)

Puntate precedenti:

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE