Immagine di Marcello Minghetti per Ariminum Circus Stagione 1

Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 13 – Collaborazione Pop. L’empatia sistemica

La Teoria della co-creazione del significato (co-creation of meaning Theory) è stata elaborata da Robert L. Heat sulla base del lavoro di Eric M. Eisenberg per spiegare i fenomeni di comprensione e costruzione partecipativa di significati tra l’impresa e i propri stakeholder. La teoria della co-creazione del significato è radicata nell’idea secondo cui la realtà è costituita da interazioni sociali e quindi gli esseri umani costruiscono la realtà sociale in modo attivo e condiviso attraverso lo scambio di significati e sforzi interpretativi reciproci. I significati sono dunque un prodotto sociale: da questo presupposto consegue che la comunicazione d’impresa trova il suo fondamento nel sensemaking inteso come produzione individuale e collettiva di senso, cui dedicheremo un capitolo ad hoc.

Sia sufficiente qui sottolineare che le relazioni tra le persone all’interno e/o all’esterno di un’organizzazione sono basate sui significati condivisi. Il processo di co-creazione permette a tutti i soggetti coinvolti nella comunicazione di contribuire alla costruzione di un’interpretazione condivisa dell’organizzazione – compresi i suoi valori, le sue attività, i suoi messaggi  – e di agire in modo coordinato sulla base di tale visione. La capacità di co-creare e scambiare significato interattivo e partecipativo a tutti i livelli, ma anche di tradurlo in pratica, rappresenta un aspetto fondamentale di quella che abbiamo definito Intelligenza Collaborativa.[i]

D’altro canto, qualcuno si chiede se oggi non collaboriamo addirittura troppo. Negli ultimi dieci anni, il tempo utilizzato in attività collaborative (mail, riunioni, IM, Chat) è incrementato del 50%1, raggiungendo circa l’85% del tempo totale nell’arco della settimana lavorativa[ii]; il sovraccarico collaborativo non solo rischia di compromettere la performance individuale, ma espone i dipendenti a stress, esaurimento e un più alto rischio di turnover[iii].

Alessio Mazzucco, in un articolo pubblicato su The Alchemist’s Gate, così commenta questi dati: «I temi che emergono sono due: il primo, chi collabora tanto può avere meno tempo a disposizione da dedicare ad attività che concorrono ai propri obiettivi lavorativi, o avere meno energia cognitiva per il lavoro al di fuori del momento di collaborazione; il secondo, le organizzazioni, in genere, promuovono i risultati individuali, non collaborativi (e individuale è il contratto, tendenzialmente anche i premi di produttività, e individuali sono le promozioni e gli incrementi di salario).

Va inoltre rilevato che un individuo può mettere a disposizione tre tipi di risorse collaborative: informazionali, sociali, personali.

Le risorse informazionali riguardano le conoscenze e le competenze che un individuo può condividere con altri. Questo include tutto ciò che è stato appreso, studiato, o sperimentato e può essere trasmesso attraverso documenti, manuali, database, o semplicemente attraverso consigli e discussioni: le risorse informazionali possono essere condivise senza che ciò comporti una perdita per chi le fornisce. Quando un dipendente condivide una sua competenza con un collega, non perde quella conoscenza; al contrario, potenzialmente arricchisce il proprio network contribuendo alla crescita collettiva.

Le risorse sociali si riferiscono alla rete di relazioni di cui un individuo fa parte, alla sua posizione all’interno di questa rete e alla capacità di mobilitare queste connessioni a favore di sé o degli altri. Questo include l’accesso a persone chiave, quindi la capacità di influenzare decisioni o indirizzare il flusso di informazioni e risorse all’interno dell’organizzazione. La condivisione di risorse sociali può aumentare esponenzialmente l’efficienza e l’efficacia della collaborazione, permettendo alle persone di raggiungere obiettivi comuni con minor sforzo e in tempi più brevi, senza erodere il capitale sociale di chi offre tali risorse.

Le risorse personali, che comprendono il tempo e l’energia individuale, sono di natura finita. A differenza delle risorse informazionali e sociali, ogni volta che un individuo dedica tempo a un progetto o a un’attività collaborativa, quel tempo non può essere impiegato altrove. Di conseguenza, la gestione delle risorse personali diventa un aspetto critico per mantenere l’equilibrio tra collaborazione ed efficienza personale»[iv].

Per trovare la quadratura del cerchio, la soluzione indicata dallo Humanistic (e dal Pop) Management consiste nella capacità degli individui partecipanti alle community di instaurare sistemi relazionali fondati su una “empatia sistemica”. Cosa significa? Si tratta innanzitutto di capire cosa intendiamo con il termine “empatia”. È  opportuno sottolineare che la definizione di empatia non è affatto ovvia. Studi sulle scimmie antropomorfe mostrano che sono in grado di esibire comportamenti imputabili a empatia nel senso della capacità di immedesimarsi nell’altro e capirne o addirittura condividerne certe esperienze da un punto di vista emozionale. Ma esiste anche una empatia di soggetti  viventi con soggetti simulati. Per esempio, con i personaggi di un libro. Quella forma di empatia richiede forse una relazione diretta e fisica? In certi casi non è neppure necessario leggere un romanzo per provare forme di empatia. È sufficiente poter leggere qualche riga di una lettera oppure vedere il nostro tamagotchi che rischia di morire. O ancora può essere sufficiente immaginare con partecipazione vicende mai accadute. Quando scrivo un racconto provo empatia per i miei personaggi; i personaggi di  un  racconto che ancora non esiste. E si prova empatia verso i personaggi interpretati da altri in un gioco online. Persino verso i personaggi interpretati da se stessi. Tutte forme di empatia che non hanno in genere alcun bisogno di una relazione diretta, personale e fisica.

Dunque, è bene specificare che i social media sono in grado di favorire l’empatia solo se e quando i suoi membri si pongono in una dimensione dialogica in un senso profondo che nulla ha a che fare con qualsiasi irrazionalismo. Sarà utile a questo proposito ricordare la distinzione fra la razionalità dello Humanistic Management e la razionalizzazione dello  Scientific Management. «La razionalizzazione – afferma Edgar Morin – innanzi tutto accorda il primato alla coerenza logica sull’empiria, tenta di dissolvere l’empiria, di rimuoverla, di respingere ciò che non si conforma alle regole, cadendo così nel dogmatismo. Del resto, è stato notato che c’è qualcosa di paranoico che è comune ai sistemi di razionalizzazione, ai sistemi di idee che spiegano tutto, che sono assolutamente chiusi in sé ed insensibili all’esperienza. Non è un caso che Freud abbia usato il termine di razionalizzazione per designare questa tendenza nevrotica e/o psicotica per cui il soggetto si intrappola in un sistema esplicativo chiuso, privo di qualsiasi rapporto con la realtà, pur se dotato di una logica propria. In qualche modo la grande differenza tra razionalità e razionalizzazione è che l’una è apertura, l’altra è chiusura, chiusura del sistema in se stesso. Vi è una fonte comune della razionalità e della razionalizzazione, cioè la volontà dello spirito di possedere una concezione coerente delle cose e del mondo. Ma una cosa è la razionalità, cioè il dialogo con questo mondo, e altra cosa è la razionalizzazione, cioè la chiusura rispetto al mondo»[v].

Una puntuale conferma delle parole di Morin la troviamo in Wonderland nella descrizione che Lewis Carroll fa della Regina Rossa, massimo emblema del modello Comando e Controllo cui Alice si ribella. In un sito dedicato al “Narcissistic Personality Desorder”, un topic intitolato Lack of Empathy: The Queen of Hearts From Alice in Wonderland  così recita: «Lewis Carroll in Alice nel Paese delle Meraviglie scrive: “La Regina aveva un solo modo per risolvere tutte le difficoltà, grandi o piccole. ‘Tagliategli la testa!’”. Il narcisista è altrettanto cieco alle emozioni di coloro che lo circondano. La mancanza di empatia è una caratteristica distintiva di un narcisista o di uno psicopatico».

E, aggiungerei, di molti Amministratori Delegati e Capi del Personale capaci di gestire le persone solo diffondendo il terrore, laddove invece il prendersi cura dei dipendenti dovrebbe essere la loro primaria responsabilità (naturalmente in ossequio al populismo dilagante, sono i primi a proclamare in ogni occasione pubblica le parole d’ordine del politically correct d’ordinanza – ESG, D&I, persino, nei casi più gravi, Bossless Organization e via sloganeggiando: forse inconsapevoli, in un delirio di onnipotenza che spesso rasenta l’autismo, del loro essere perfetti Dr. Jekyll, con orribili Mr. Hyde al seguito). Ma una presa di consapevolezza reale comporterebbe la necessità di accettare i nuovi modelli della Social Organization, ovvero di mettere in discussione tutto quanto essi hanno imparato fino ad oggi sul cosa è e come si governa un’impresa.

Eppure, prima o poi dovranno arrendersi, proprio come la Regina Rossa e il suo esercito di carte, all’irreversibile avvento delle contemporanee Alici portatrici di una cultura ai loro occhi del tutto aliena. Per salvarsi (e salvare così le imprese che guidano) oggi più che mai è indispensabile che accettino il ricorso a una razionalità che non si identifichi necessariamente con la scientificità “classica”, che rispecchia unicamente il passato, in cui lo stesso “know” del “know how” è  appunto un “known”, un saputo e non un sapere dischiuso al futuro.

Si potrebbe muovere a chi narra “scientificamente” il mondo lo stesso rimprovero rivolto da  Wislawa Szymborska a un aspirante romanziere: «Nei suoi racconti si sta stretti, si soffoca, non ci sono problemi. Non c’è una finestra sul mondo e quindi nessuna prospettiva potrà aprirsi allo sguardo». Finestra sul mondo,  apertura,  dialogo. Se il “mondo” è un Mondo Vitale non è il “mondo privato”  bensì  il “mondo comune” a tutti gli esseri umani. È il territorio o lo spazio dov’è possibile controllare   le risposte dell’altro e rispondere alle sollecitazione di chi  pone domande e chiede risposte.

Ovvero dove con facilità le esperienze umane trovano un loro significato, e non sono gli oggetti a costruire la realtà, ma il soggetto a dare il nome, o meglio a definire, la realtà. Un Mondo Vitale, nel vocabolario dello Humanistic Management, che possiamo intendere come una provincia di significati, tra altre provincie di senso. Tutte insieme formano e danno origine alla trama relazionale e culturale di una società. Senza tale profonda produzione di senso e di vita, senza questa “empatia sistemica”, tutto si riduce a scambio di equivalenti (contratto) o a veri rapporti di dominio[vi].

È stato Piero Trupia a introdurre nel contesto dello Humanistic Management il tema dell’“empatia sistemica” come strutturale e strutturante ogni Mondo Vitale (quindi ogni Impresa Pop). Quando gli ho chiesto di spiegare più dettagliatamente cosa intendesse, mi ha risposto così: «La parola  “sistemica”  fu una mia aggiunta in occasione dei lunghi colloqui con Ardigò per l’elaborazione della sua prefazione al mio libro Semantica della Comunicazione. Il primo a parlare di empatia fu Edmund Husserl nei tre volumi sull’intersoggettività dal titolo generale Sulla Fenomenologia della  Intersoggettività. Ritornò sull’argomento con l’opera Meditazioni Cartesiane, risposta ideale alle Meditazioni Metafisiche di Cartesio, del quale Husserl si sentiva continuatore e sviluppatore. Il testo husserliano del 1931 andò perduto e la prima edizione fu una traduzione francese dello stesso anno, mentre l’edizione tedesca arrivò postuma nel 1950. Il capitolo V delle Meditazioni  Cartesiane è interamente dedicato all’empatia. Edith Stein, allieva di Husserl, riprese il tema in un  volume degli anni Trenta, sviluppo della sua tesi di laurea. Un altro allievo di Husserl, Alfred Schutz, pubblicò in USA il testo Some Structures of the Life World, (vol. III dei Collected Papers) che enfatizza la problematica del  Mondo Vitale (Lebenswelt). Infine, con orientamento sociologico, se ne interessarono e ne scrissero Jurgen Habermas in Teoria dell’Agire Comunicativo, se ricordo bene, e Achille Ardigò in Crisi di Governabilità e Mondi Vitali e in Per una Sociologia oltre il postmoderno. Tutti gli altri che ne parlano, stiracchiano il concetto ai  loro fini. Anche Ardigò lo fa, ma con una conoscenza diretta delle fonti originarie. Il suo è uno sviluppo filologicamente corretto.

Originariamente empatia non è né apertura all’altro, né condivisione. È semplicemente, freddamente, riconoscere l’alterità del soggetto che mi sta di fronte e, allo stesso tempo, rendersi conto che questo soggetto ha dei vissuti che sono se non simili, omogenei ai miei. Questo discorso vale per Husserl e per Stein. Habermas, infatti, rimprovera a Husserl la sua freddezza cognitiva, mentre per lui l’empatia è il primo momento per addivenire a una condivisione di Mondi Vitali. Habermas si preoccupa della colonizzazione dei Mondi Vitali naturali da parte delle istituzioni politiche e no, ad es. l’università con i dottorandi e con gli allievi tutti costretti nelle gabbie da polli in batteria dell’accademismo e del carrierismo. Aggiungo del concorsismo, ove per avere successo devi coltivare il campo del tuo “maestro” e acquisire una preparazione, non dico competenza, perché sarebbe troppo, superspecializzata.

Io sono per l’uso allargato e per lo sviluppo del  concetto di empatia come il primo passo per la condivisione di un Mondo Vitale. Sistemica nel senso di strutturale, più dell’organigramma, degli ordini di servizio, della programmazione e sviluppo delle potenzialità e delle note caratteristiche. Insomma, l’impresa conviviale».

Arricchiti da questo excursus, torniamo allora a domandarci: nella realtà digitale è possibile vivere relazioni autenticamente empatiche? Proviamo a rispondere partendo dalle critiche alla versione burtoniana di Alice in Wonderland. Esemplare quella di Michele Ciliberti: «La concatenazione di eventi di Big Fish, la fluidità narrativa di La fabbrica di Cioccolato, l’empatia tra i diversi personaggi di Edward Mani di Forbice vengono questa volta a mancare. Ogni evento è fine a sé stesso, ogni scena è targata Burton ma è di proprietà di Lewis Carroll. Vi sono genialità artistica e onnipotenza visiva del regista americano, ma vi sono solo minimamente le sue invenzioni e il suo modo di immaginare mondi e andare oltre essi. Alice sembra stia affrontando i vari livelli di un gioco, dove al primo step deve incontrare il Bianconiglio, poi lo Stregatto, poi il Brucaliffo e via così.

Queste creature sembrano poi squisitamente fittizie e digitali, non riuscendo mai a sembrare realmente presenti nelle prossimità di Alice. Questa sensazione è amplificata dall’elementare uso della grafica, non confrontabile alla magnificenza visiva di Avatar. Il confronto è dovuto in quanto paragonabili sono i mondi. Se Jake visitava Pandora scoprendo visionarie meraviglie e creature inimmaginabili, Alice si ritrova semplicemente in una Terra-reloaded, priva di elementi naturali nuovi e dove la diversità sta solo nei personaggi, introdotti in quel mondo senza tuttavia una relazione vitale con esso. Non vi è empatia, non vi è condivisione di quell’universo, non vi è interazione tra Alice, le sue sensazioni, il Paese delle Meraviglie e le creature».

Non è esattamente questo il rischio che si corre tentando di edificare un Mondo Vitale sulle fondamenta digitali di un social media o di una piattaforma collaborativa? Lo sostiene Iolanda Stocchi: «Il digitale ha mutato radicalmente il nostro modo di stare al mondo ma – scrivono Riccardo Marco Scognamiglio, Simone Matteo Russo, Matteo Fumagalli, gli autori di Il narcisismo del You (Mimesis, 2024) – “vi siamo talmente immersi da non prestare più attenzione agli effetti di perfusione del Web nei nostri corpi e nelle nostre menti, oltre che nei nostri comportamenti sociali”. Questo libro si occupa con intelligenza delle conseguenze dell’abuso del digitale, passando dalle neuroscienze alla psicoanalisi, dall’antropologia alla sociologia, per non dimenticarsi della clinica, attraverso storie con le quali gli psicoanalisti si confrontano quotidianamente nel loro lavoro. Siamo entrati in una dimensione irreversibile, quella digitale, in cui l’uomo è al servizio della macchina. Questa preoccupazione è giustificata? Sì, perché la digitalizzazione sta introducendo mutamenti enormi, dei quali è necessario diventare consapevoli. Gli autori sostengono che la nascita del Web 2.0 nel 2004 ha sancito una nuova categoria fenomenologica: una percezione di noi e degli altri che – per dirla con Pasolini – ha determinato una mutazione antropologica, mantenendoci però nell’illusione che niente sia mutato.

Ci troviamo di fronte a un fenomeno che, come quello del riscaldamento globale, esiste al di là della nostra consapevolezza. Non percependone l’urto, questo è il problema, non si generano le necessarie difese: “viviamo stati dissociativi senza doverci difendere da nulla, perché il sistema digitale ha il potere di silenziare, anestetizzare e ridurre la soggettività”. Gli autori parlano di traumatismo generalizzato e traumatismo digitalmente modificato che si intrecciano nell’alleviare, e al tempo stesso cronicizzare, un sentimento centrale del nostro tempo: la rassegnazione»[vii].

Sembrerebbe una condanna senza appello della possibilità di creare relazioni autentiche tramite il digitale: il trionfo del neoluddismo, fenomeno dilagante non nella Pop Culture, ma nella vulgata al tempo stesso radical-chic e, paradossalmente (ma non poi tanto), nazionalpopolare – di pippobaudesca memoria. Salvo che la stessa autrice del saggio prosegue: «La sfida allora è riconoscere il malessere di una clinica senza soggetti, perché il Narcisista del You in realtà chiede sì di guarire, ma per tornare a aderire alle richieste dell’algoritmo. Il problema clinico si sposta dunque dal sintomo a: come non essere You; per questo diventa fondamentale interrogarsi su quale sia la differenza tra una mente analogica e una digitale. Gli autori lo fanno anche nella forma del libro, scritto e concepito da tre menti inquiete e con una prefazione dialogo: una relazione tra menti che pensano in relazione. Menti analogiche. La scrittura di un libro – scrive Miguel Benasayag – è un modo di agire. Il libro è un’azione». Da mio punto di vista, è un modo per dire che la soluzione al narcisismo è l’Intelligenza Collaborativa. Quella che per esempio ho attivato per raccogliere gli Opinion Piece a questi Prolegomeni generando empatia sistemica con persone che in molti casi non avevo mai visto e conosciuto di persona, attraverso un potente social network come LinkedIn. Per non parlare dei numerosi progetti conversazionali, ecosistemici e phygital realizzati a partire dalla piattaforma digitale di NOVA100, che hanno attivato le “intelligenze analogiche” di decine di persone.

Naturalmente sono consapevole dei rischi connessi all’utilizzo delle funzionalità che fanno crescere in maniera esponenziale l’attività collaborativa in mondi sempre più digitali, virtuali, immersivi. Rischi che ho evidenziato fin da quando Facebook ha cominciato a dilagare e rispetto ai quali credo siano ancora valide alcune osservazioni sviluppate nel saggio collaborativo Facebook come Mondo Vitale, a cui rimando. In sintesi, resto nella convinzione che i Social Network offrono a ciascuno la possibilità di rendere più profondo e articolato il proprio modello espressivo, se riescono a sfuggire ai rischi opposti dell’appiattimento digitale sul “mero reale”, da una parte, e dell’ossessiva compulsione ad apparire a tutti e in ogni luogo sempre-e-comunque nella propria dimensione più luminosa, apollinea e superficiale (Facebook – o Instagram o TikTok – addiction, potremmo chiamarla), dall’altra, con la conseguente entropia di ogni possibile significato autentico.

13 – continua

Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)

[i] Per un quadro di sintesi  su questi aspetti rimando al Capitolo 3 – Le teorie della comunicazione d’impresa del già citato volume di Mazzei e Ravezzani, La Comunicazione d’Impresa.

[ii] How to Fix Collaboration Overload, Rob Cross, Michael Arena, Greg Pryor, Rebecca Hinds, e Tim Bowman, HBR, 9 dicembre 2022.

[iii] Collaborative Overload, Rob Cross, Reb Rebele, e Adam Grant, HBR, gennaio-febbraio 2016.

[iv] Alessio Mazzucco, Collaboriamo troppo?, 4 aprile 2024.

[v]Ragione, razionalità̀ e razionalizzazione, testo per la Enciclopedia Multimediale delle scienze filosofiche, 1991, p. 26. Cfr.: https://archivio.unita.news/assets/main/1994/12/19/page_026.pdf

[vi] Vedi anche Marco Minghetti, L’impresa come Mondo Vitale. Una Conversazione con Alessandra Benevolo (Ipsen Italy), Cristina Danelatos (Gruppo Montenegro), Sonia Malaspina (Danone Italia), Simona Raimondi (Guna Spa), Pino Varchetta (Ariele), NOVA100, 4 agosto 2022. Cfr.:

L’impresa come Mondo Vitale. Una Conversazione con Alessandra Benevolo (Ipsen Italy), Cristina Danelatos (Gruppo Montenegro), Sonia Malaspina (Danone Italia), Simona Raimondi (Guna Spa), Pino Varchetta (Ariele).

[vii] La Rete e i narcisi senza corpo, Doppiozero, 9 maggio 2024. Cfr.: https://www.doppiozero.com/la-rete-e-i-narcisi-senza-corpo

Puntate precedenti:

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE