L’impresa come Mondo Vitale. Una Conversazione con Alessandra Benevolo (Ipsen Italy), Cristina Danelatos (Gruppo Montenegro), Sonia Malaspina (Danone Italia), Simona Raimondi (Guna Spa), Pino Varchetta (Ariele).

Ed eccoci arrivati all’ultimo appuntamento con Open Mood, la ricerca che ha messo a fuoco 5 fattori dell’Open Manager, intendendo per fattori un insieme originale di competenze, comportamenti e atteggiamenti che definiscono le caratteristiche del nuovo approccio manageriale. Oggi analizziamo il quinto fattore: l’EVOLUTION DRIVE.

Questo fattore, ci ha spiegato Paolo Bruttini, coordinatore della ricerca, inquadra il comportamento di un manager che ha un forte orientamento a elaborare l’esperienza fatta, a mettersi in discussione e a imparare da essa, specie dagli errori fatti. Un manager, dunque che dà valore non solo al cambiamento necessario per adattarsi al contesto, ma anche all’apprendimento, ovvero a una revisione cognitiva ed emotiva degli schemi che si considerano efficaci e di successo.

Si tratta del passaggio che Carole Dweck (2006) definisce dal Fixed mindset al Growth mindset: ovvero un’attitudine a considerare l’evoluzione come una dimensione fondamentale della persona nella sua complessità. In questa prospettiva sa di trovarsi in uno stato di equilibrio temporaneo, accettando che è importante avere un “drive” (una motivazione) a continuare a evolvere per trovare nuovi stati di equilibrio.

Il cluster chiamato Evolution Drive, dunque, si caratterizza per 3 competenze.

La prima competenza è apprendimento dagli errori che è la capacità e attitudine a organizzare eventi periodici di retrospettiva con il team, per verificare l’efficacia delle attività svolte, riflettere sugli aspetti critici. Ciò consente di ricostruire il percorso fatto, le decisioni adottate, valorizzare le buone pratiche e imparare da ciò che non ha funzionato.

La seconda competenza riguarda la capacità del manager di svolgere un’elaborazione equilibrata ovvero analizzare oggettivamente tutti i dati rilevanti prima di pervenire ad una decisione. Realizza questa attività con propensione critica anche sulle sue opinioni, senza indulgere nella protezione del suo ruolo.

La terza e ultima competenza è facilitazione apprendimento ovvero la tendenza a promuovere i processi apprendimento nel team, seguendo con gradualità i processi di cambiamento individuale, stimolandoli con azioni specifiche.

Ne parliamo con Alessandra Benevolo (HR Director Ipsen Italy & HR Cluster Head South Europe), Cristina Danelatos (Chief People & Digital Officer Gruppo Montenegro), Sonia Malaspina, (HR Director Italy & Greece & Board Member Danone Italia), Simona Raimondi (Human Resources Director Guna Spa),P ino Varchetta (past president Ariele).

Marco Minghetti. Vi è una forte enfasi sull’importanza dell’apprendimento continuo, fin dagli studi di Peter Senge sulla Learning Organization. Questa dimensione ha portato alla sperimentazione di numerose tecniche utili all’apprendimento sia grazie al Toyota Production System che al modello Agile di gestione dei progetti. Tuttavia il successo di queste tecniche è in gran parte dipendente da principi come la trasparenza, la capacità di mettersi in discussione, la tolleranza di non avere pieno controllo, la tenacia di continuare a cercare soluzioni migliorative, una concezione del potere nel segno dell’evoluzione più che del comando. Poiché la combinazione di questi principi sembra rimandare più che a tecniche e a capacità, ad una dimensione culturale profonda, la trasformazione delle aziende in questa direzione sembra essere complessa. Cosa è possibile fare allora per creare una Learning Organization? Vi sono dimensioni (governance, modello di business, capitale umano, …) che rendono più difficile il compito?

Pino Varchetta. Quando si parla di una dimensione culturale profonda, culturale sta anche per dimensione psichica profonda, perché la cultura è comunque manifestazione collettiva di aspetti anche psichici. Ma io credo che oggi ci sarebbe bisogno di stare come il vecchio Shakespeare nell’Isola de “La Tempesta”, la sua ultima pièce, su cui qualche anno fa Nadia Fusini ha scritto un libro intitolato appunto “Vivere nella tempesta” (Einaudi, 2016).

L’isola della tempesta che cos’è? È una spiaggia, un’ultima spiaggia, dove si raccolgono coloro che riconoscono profondamente l’altro e gli eventi che si parano davanti a loro, attraverso la lente dello stupore e della meraviglia. Tutto questo impedisce ai personaggi (Ariel, Prospero) il “yes, but” il “sì, ma”.  Nel senso che la cultura contemporanea oggi è spesso “aut-aut”. Ci si propone, si sostengono delle tesi, si raccontano delle esperienze, ma alla fine nella maggior parte dei casi è “sì d’accordo, ma…”. E lì, come diceva Woody Allen, che “tutto si sgonfia”. Perché quell’aura di stupore e meraviglia che il/la malcapitato/a ha cercato di creare svanisce in un attimo. Perché nulla è più fragile dello stupore e della meraviglia. Aldo Giorgio Gargani, citando il secondo Wittgenstein, quello delle ricerche, diceva “rimettersi allo stato delle cose”. Cosa vuol dire? Non significa non cambiarle, ma significa tuttavia considerare le cose un mistero, considerare che il mistero non è un aspetto contingente di alcuni episodi della vita di sapiens, ma è la connotazione più profonda della vita ed è attraverso il mistero che si può conoscere. Il mistero è colui che ascolta. Colui che ascolta rispetto chi parla, dovrebbe essere concepito e vissuto come un atteso-imprevisto, una felice espressione del grande Paolo Perticari. Atteso-imprevisto è un ossimoro. La dimensione culturale profonda che caratterizza la Learning Organization è l’ossimoro. È colui che ascolta non colui che parla che determina il senso, il significato di un’enunciazione. Noi siamo nelle mani dell’altro. Non lo dicono solo le humanities, ma lo dicono ormai anche gli scienziati delle cosiddette scienze della natura, a partire dai neuroscienziati, per non parlare dei fisici, Rovelli ad esempio. Non esistono cose, esistono relazioni. L’elettrone dipende dalla posizione dell’osservatore e, siccome le posizioni dell’osservatore sono infinite, di fronte all’infinito come si fa a dire che esiste qualcosa? C’è una relazione, che poi sfuma e si deve ricostruire.

Allora voi parlate di evoluzione in questa ricerca e credo che il segno sia questo. In ultima analisi, rimettersi nel rischio del comprendere cosa insegna l’azione. Qui sta il significato più profondo dell’insegnamento di Aldo Giorgio Gargani “rimettersi allo stato delle cose”.  Accettare il rischio del comprendere, nel senso di “cosa ci insegna l’azione?” Ma per dare una risposta a questo interrogativo così importante, il riconoscimento dello stupore e della meraviglia come orientamento fondamentale per l’apprendimento continuo, mi sembra un passaggio oggi inevitabile.

Questo non significa essere contrari alla digitalizzazione. La digitalizzazione può aiutare tantissimo, purché non sia sovrapposta all’essere vivente. Un dispositivo non è un essere vivente, è un artefatto che l’essere vivente ha costruito e che diventa complesso più pezzi gli si attacca. Mentre l’individuo, l’essere vivente, la vita, è in sé complessa sin dal primo attimo, sin dalla prima cellula. Questa è la differenza principale fra l’artefatto digitale e l’essere umano.

Marco Minghetti. La grande velocità contemporanea quanto rende possibile ancora lo stupore e la meraviglia?

Pino Varchetta. Io credo che nelle organizzazioni di oggi si debba essere più efficienti e più efficaci di quanto eravamo noi. Perché la sfida è più alta e tante volte, in tante occasioni, in tanti mercati, ma anche nel terzo settore, la concorrenza è tale da essere a tratti insostenibile. Tutto questo, però, comporta una più alta qualità del manager. Io non nego ci debba essere più velocità, purché, per esempio, si smetta di parlare e di citare come modelli l’informazione e la comunicazione, dimenticando che c’è la conversazione. Non si può non conversare in azienda. Si può imparare però a conversare in fretta. Conversare vuol dire creare un luogo che nasce e muore in 2 minuti, ma con una qualità straordinaria, con molta intensità. Si può imparare questa intensità? Sì. Io oggi quando sono in aula ai manager dico di “fate meno master e più psicoterapia”. Perché dico ai manager che faranno carriera sulla base di quelle che vengono chiamate soft skills, le competenze trasversali, non sul fatto che sappiano fare bene un budget. La conoscenza del sé è fondamentale per un manager, molto di più rispetto ai tempi passati. Pensate ad esempio all’importanza della confessione, un sacramento oggi sempre meno frequentato, pensate al potente dialogo interiore che genera. Dopotutto c’è il tema della trascendenza. Anch’esso un tema che genera stupore e meraviglia.

Alessandra Benevolo. Pino parla di stupore: ecco, io mi stupisco che ogni tanto sembriamo scoprire dei concetti che in realtà dovrebbero essere principi consolidati nelle imprese. Apprendere continuamente è necessario per andare avanti e per evolvere. Se un contesto diventa superato ed emergono criticità, la persona le gestisce tramite l’apprendimento. L’apprendimento continuo è una delle chiavi più importanti per l’evoluzione del business. Si è parlato di valori e comportamenti. Uno di questi è la necessità di controllare, che viene dall’ansia di non farcela e dall’insicurezza, rispetto alla capacità di governare il business. La pandemia, se pur con tutta la sua drammaticità, ha impresso un’accelerazione importante nel modificare il modo di vivere l’esperienza di lavoro e superare la logica del controllo a favore di una logica più adulta.  Un tema per me centrale è proprio questo: l’adultità. Spesso capita di vedere in azienda (e qui non conta la dimensione) i collaboratori trattati non come adulti. Bisognerebbe fare tesoro dell’esperienza di lock down in cui abbiamo contato sulla responsabilità delle persone. A mio parere il patto implicito all’atto di firmare la lettera di assunzione dovrebbe essere “io-azienda non devo controllare quello che fai tu-collaboratore perché è un patto tra adulti”.

Come fare in modo che il principio dell’adultità dei collaboratori diventi un valore aziendale da perseguire? Si può insegnare! Siamo abituati, fin dal sistema scolastico, specie in Italia, che i ragazzi siano tenuti sotto controllo affinché non copino i compiti, alle continue interrogazioni per costringerli a studiare. Siamo stati allevati così. Il modello è talvolta simile nelle aziende. “Io azienda sono l’adulto e tu sei il bambino”. Io azienda ti devo dire le cose, devo controllare che tu le faccia. Questo significa chiudere le persone in una bolla esecutiva. E non funziona perché le persone che valgono, nelle bolle ci stanno strette. Le imprese spendono molte risorse per fare micro-management, anziché concentrarsi su strategia, visione e innovazione: saremmo invece tutti più appagati in un sistema più responsabilizzante. Lo si può insegnare perché per fortuna l’uomo è adattabile. Lo abbiamo visto nella pandemia. Non ci sono aziende che sono saltate perché c’è stata irresponsabilità. Anzi c’è stato qualche caso di burnout, perché qualcuno si è dedicata al lavoro senza risparmio.

Marco Minghetti. Ma l’adultità è necessaria e sufficiente per l’apprendimento?

Alessandra Benevolo. È necessaria. Sulla sufficienza dobbiamo essere realisti più che in passato. Le filosofie tipiche delle multinazionali in cui tutti si sviluppano e tutti fanno carriera non sempre sono applicabili.  Da un lato la piramide aziendale non potrebbe essere scalata da tutti per numero di posti disponibili. Dall’altro non tutti hanno la volontà di apprendere. Io credo che le persone siano in grado di apprendere, ma non tutte hanno voglia di farlo. Avremo persone che non vogliono apprendere sulle quali ci troveremo a dover fare delle riflessioni organizzative.

In ogni caso se mettiamo insieme apprendimento continuo con adultità, l’adultità si insegna e si impara. È soddisfacente per entrambi le parti. Per chi gestisce e per chi esegue.

Sonia Malaspina. Dal mio punto di vista, per creare una Learning Organization occorre lavorare ogni giorno sul contesto da parte del management e della direzione aziendale. Mi spiego meglio: ogni persona deve sentirsi libera di esprimere se stessa sul posto di lavoro, che sembra un concetto banale, però poi in molte realtà questo non è così semplice.  Ad esempio, nel mio caso io ho iniziato la carriera in aziende in cui bisognava essere perfetti. Rinunciavi ad una parte di te che rimaneva “fuori dall’azienda” e vestivi una corazza di perfezione, che si rifletteva anche sull’abbigliamento, tutto doveva essere uniformato e inevitabilmente questo finiva per influenzare anche il pensiero, le emozioni. Tanti aspetti della vita personale venivano un po’ banditi e questo creava e, ancora ci sono dei contesti così, un modo di relazionarsi tra le persone non autentico e sicuramente non favorevole all’apprendimento. Era il momento del top-down, della comunicazione monodirezionale, dall’alto verso il basso e dello scarso interesse verso il feedback, verso una comunicazione bidirezionale, verso il dialogo autentico. Perché, certo, un’azienda ha una strategia, prende delle decisioni, degli impegni, ma per essere una Learning Organization è importante che poi si mantenga sempre un canale di raccolta, di confronto. E questo deve farlo non soltanto la direzione, il vertice, ma questa bidirezionalità deve avvenire a tutti i livelli. Invece, veniamo da un passato in cui c’era questa comunicazione dall’alto verso il basso, ognuno stava nel suo piccolo cubicolo, addirittura, e rimaneva nella sua esperienza. Quindi, non c’era scambio.

Che cosa è avvenuto che ha cambiato le carte? L’avvento del digitale. Perché ha esploso l’esperienza che abbiamo noi con la vita, con le nostre esperienze di apprendimento, di acquisto, di divertimento e questa è una rivoluzione copernicana, nel senso che va ben gestita. Perché io come azienda cosa faccio per creare un ambiente in un cui le persone imparano le une dalle altre e non hanno paura dell’errore? Tante volte nelle organizzazioni del passato bisognava essere perfetti, guai a sbagliare invece bisogna raccontare negli ambienti lavorativi che anche l’errore è prezioso, perché tu dall’errore impari qualcosa e non va demonizzato, nascosto, ma anzi messo a fattor comune perché tutti possano imparare. Bisogna coltivare una cultura dell’errore, per poi ricominciare, rimettersi in gioco. È importante lavorare sulla persona, sulla fiducia all’interno di un’organizzazione, creando un ambiente inclusivo, di tolleranza, di accoglienza del punto di vista diverso, perché così si permette a tutti di imparare. Però, ci vuole grande apertura mentale e questa va coltivata ogni giorno, non si crea da sé. I vertici aziendali hanno una grandissima responsabilità nel volere o nel non volere una Learning Organization. Perché puoi mettere in atto strategie in cui non c’è apprendimento, ognuno rimane isolato, spersonalizzato o veste magari una maschera. Questi ambienti sono destinati a implodere. Oppure impari dal contesto, lo osservi e capisci dove ci sta portando la trasformazione digitale e ti accorgi che puoi e devi imparare da chi è più giovane di te, da chi non ha che pochi anni di esperienza. Quindi, si crea una fluidità nelle relazioni per cui l’idea creativa può venire da qualsiasi angolo dell’organizzazione, non necessariamente dai vertici.

Ecco perché è una scelta dei vertici, perché ogni persona indipendentemente dal ruolo, dalle responsabilità, può dare un contributo importante. La Learning Organization definisce anche il purpose, la raison d’etre, cioè il perché stiamo facendo questo business. Ciò che guida tutti, dal receptionist all’Amministratore Delegato. E fornisce loro il senso di ciò che fanno. Io ho visto organizzazioni dove manca questa comunicazione di senso, dove ognuno fa un pezzettino, ma non sa perché lo sta facendo, e così si crea un tipo di lavoro che è alienante. Invece, devi riuscire a far capire a ognuno, anche a chi è appena arrivato, cosa sta facendo ma anche perché. Anche un junior, deve sapere che sta facendo un tirocinio in un’azienda che persegue, per esempio nel nostro caso, non solo obiettivi economici, ma anche sociali. Deve sapere che l’azienda ha una doppia direzione, perché è più difficile ottenere risultati economici e impattare a livello ambientale, a livello sociale, di risorse umane, di persone all’interno dell’azienda.

Se è vero che la strategia deve partire dall’alto, e non si crea per caso, è anche vero quando si parla di gerarchia, di struttura, di organigramma oggi vedo tutto più fluido, attenuato. Si lavora per progetti, progetti che portano a una missione, a una ragione di essere dell’azienda e si lavora in modo sempre più trasversale, perché le competenze non sono in una sola area. Pensiamo ad esempio a come è cambiata l’esperienza d’acquisto con l’avvento del digitale, sono tante le funzioni e le persone coinvolte. Tutto questo significa creare team trasversali, con competenze diverse, ma tutte messe nello stesso progetto, con lo stesso scopo e dove si impara molto gli uni dagli altri. Perché il venditore era abituato al punto di vendita fisico, a negoziare lì, adesso magari deve farlo in digitale, in maniera mediata. Come conseguenza, c’è una forte responsabilizzazione delle persone. Pensiamo anche solo all’esperienza dello smartworking: le aziende sono state super performanti, non è che le persone abbiano smesso di lavorare perché erano a casa. Questo avviene laddove c’era un rapporto di fiducia e di senso di appartenenza delle persone all’azienda.

Cristina Danelatos. Una Learning Organization ha dietro un sistema valoriale, cioè un insieme di cose che io persona, io lavoratore, io manager, credo siano giuste ed altre cose che credo non siano giuste. Lavorare sui valori delle persone è estremamente difficile e, sinceramente, io mi interrogo anche su quanto sia opportuno farlo, perché i valori afferiscono a come sono io come individuo, a cosa credo.

Per costruire una Learning Organization servono comunque almeno 2 ingredienti secondo me: il primo consiste nell’avere a bordo persone che credano in questo modello, che lo apprezzino e che lo ricerchino. Se queste persone non sono già presenti nell’organizzazione, dovrò assumerle, cercando manager, ma anche employee che credano ed interpretino questo modello organizzativo, “facendolo vedere” e vivere agli altri.

Il secondo ingrediente è premiare i comportamenti coerenti con quel modello organizzativo. Quando dico premiare non penso solo ad un riconoscimento economico, ma soprattutto ad altri riconoscimenti, decisamente più potenti dal punto di vista della capacità di creare cultura. Un riconoscimento economico non è un’informazione visibile ad altri, mentre, per esempio, le celebrazioni, i nuovi progetti che ti affido perché hai portato risultati, le opportunità di carriera, le promozioni, sono tutte cose visibili all’organizzazione e costruiscono la definizione di “cosa ci rende di successo qui”. È chiaro che l’inserimento di persone che già credono in questo modello, lo interpretano e lo diffondono,  e la creazione di sistemi premianti dei comportamenti che esprimono questo tipo di cultura, sono possibili se e solo se c’è un CEO che per primo rappresenta questi valori e vuole costruire una Learning Organization, perché per creare cultura, serve qualcosa di cui le persone possano fare esperienza, possano vedere.

Marco Minghetti. Chiedo a questo punto anche l’opinione sul tema a Simona Raimondi che nascendo come psicologa clinica, ma avendo come seconda laurea antropologia, può darci un duplice punto di vista.

Simona Raimondi. La risposta da HR e da HR antropologo sono diverse. Perché chiaramente studiando una cultura e analizzando un sistema nel suo complesso, da un punto di vista culturale forte, la mia risposta va in una direzione. Se invece lo studio da psicologo, quindi con un focus più sull’individuo che non sul sistema, la risposta è un’altra. Però, in linea di massima, a me piacerebbe davvero tanto se esistesse una Learning Organization reale e concreta. Io sono una cultrice della formazione, ho lavorato anche 10 anni come formatrice, come consulente, perché credo davvero tanto in questo principio, nel principio dell’apprendimento collaborativo, dell’innovazione, la condivisione delle conoscenze all’interno di un ambiente, uno sguardo anche al futuro, non solo dell’impresa, ma anche un futuro delle competenze. E questo significherebbe lavorare in un’organizzazione consapevole, che crede fino in fondo nel capitale umano, che favorisce davvero la meritocrazia e il libero pensiero e che dà valore alle persone con la “P” maiuscola.

Certe volte si sente dire “io credo molto nelle mie persone”, però se stanno lì e fanno il loro lavoro senza dare problemi. In realtà, intendere le persone con la “P” maiuscola significa intenderle in modo anche libero, nella loro capacità di espressione. Diciamo che in 23 anni di lavoro non ho incontrato nessuna azienda davvero così aperta. Aperta parzialmente sì. Aperta anche all’80% sì. Chiusa completamente anche. Questo secondo me perché (mi sono sempre chiesta il motivo), al di là di tutti i meravigliosi concetti che chiamiamo in causa, quindi tolleranza, accettazione dell’errore, miglioramento continuo, ne manca sempre uno all’interno di tutte le aziende, che sta un po’ sopra tutti, e che è la maturità. La maturità intesa come onestà intellettuale, cioè la capacità di ammettere che qualcuno può avere delle idee migliori delle mie e, quindi, se io sono in una Learning Organization, devo anche pensare che se qualcuno chiede un confronto con me, il confronto di apprendimento è biunivoco.

Devo essere tanto onesto intellettualmente da riconoscere che qualcuno ne può sapere più di me. Maturità intesa anche come consapevolezza di non essere infallibile, di fare i conti con i propri errori. Un manager deve affrontare questi problemi, non li deve infilare sotto il tappeto perché tanto poi nessuno se ne accorge. E questo è difficile, perché, dal lato pratico, rischi di giocarti la sedia. Quindi, devi anche avere questa capacità di metterti in discussione, di assumerti il rischio per la tua responsabilità. La maturità anche intesa come condivisione del pensiero e non come difesa del proprio orto. Ma anche la capacità di guardare oltre, di rompere gli schemi consolidati, di trovare nuovi schemi. Noi tutti abbiamo schemi consolidati che sono perfettamente adattivi nel nostro ambiente, nel nostro sistema, ma si va avanti e si apprende veramente se rompi lo schema. Perché, se ti poni di fronte all’apprendimento con il pregiudizio, quindi con il tuo schema consolidato, non impari più. Infine, anche la maturità di un’impresa di riconoscere che in fondo le imprese sono fatte di essere umani, che hanno pregi e hanno difetti e, proprio perché siamo esseri umani, forse non possiamo neanche essere così maturi, altrimenti saremmo perfetti. Quindi, da un punto di vista psicologico ci deve essere un’evoluzione continua per poter creare una Learning Organization, che si può realizzare solo quando tutte le persone, quindi tutti i manager poi a cascata, favoriscono questo cambiamento culturale un po’ a valanga. Ecco, per il momento io mi accontento di dare quanto più spazio possibile cercando di far capire il fatto che la formazione non è una perdita di tempo.

Molte imprese italiane ragionano in questi termini: “cosa fai formazione che devi stare sulla macchina, devi stare in ufficio…”. In realtà non è così, perché l’investimento sulla tua persona è un investimento sulla tua azienda, questo noi lo sappiamo bene. Perché vai a creare tutta una serie di fattori, in questo caso psicologici, che aumentano poi la percezione e il modo di vivere e di stare nell’azienda.

Tuttavia, ci sono veramente tutta una serie di fattori, come la governance e il modello di business, che pongono veramente dei limiti a una Learning Organization così concepita. Facciamo un esempio concreto: un caso che vale per tanti. Se un’azienda mette a disposizione dei dipendenti un corso di lingua con lezioni da 60 minuti e chiede ai dipendenti, per esigenze produttive, di svolgere 30 minuti in orario di lavoro e i restanti 30 minuti fuori dall’orario di lavoro, allora il dipendente invoca lo straordinario, perché viene intaccato il suo tempo libero. Però è anche vero che come lavoratore, con quel corso, stai investendo su di te per lavorare meglio, ma ne avrai comunque un beneficio nella tua vita privata. L’azienda d’altro canto ti dice “Io sto investendo su di te, ti do un’opportunità di apprendimento, ma ti chiedo come contropartita un investimento personale. È vero che io ne traggo vantaggio ma ne traiamo vantaggio entrambi”. Chi ha ragione? Tutti e due. Probabilmente bisognerebbe cominciare a ridefinire i termini della governance, rivedere un po’ il modello di business, riconsiderare il concetto di forza lavoro per sostituirlo con quello di capitale umano.

Ma è un passaggio che non può fare solo l’impresa e calarlo dall’alto al basso. È un processo che deve anche arrivare dal basso e ci si deve incontrare un po’ a metà strada. È pur vero che anche se l’impresa cambia modello di business, cambia la governance e i manager sono tutti Open, ci vogliono comunque delle persone che recepiscano questo messaggio. L’era della digitalizzazione sicuramente offre un grande aiuto in tutto questo, perché sta dando veramente una grossa accelerata. Per esempio, le piattaforme e-learning, la possibilità di svolgere anche corsi a distanza negli ultimi 2 anni ci ha permesso di imparare anche questa modalità, che sicuramente agevola. Però, secondo me, c’è ancora tanta consapevolezza da acquisire per raggiungere veramente un cambio culturale significativo.

L’identità dell’organizzazione in questo è molto rilevante. Un’impresa, di qualunque natura sia, dà un imprinting alle persone che ne fanno parte. Molto spesso nelle aziende si sentono anche persone che parlano con un gergo tutto loro, che si identificano in un modo tutto loro e ogni azienda è diversa dall’altra.

Marco Minghetti. Il modello dello Humanistic Management parla della necessità di costruire l’impresa come un Mondo Vitale. Mondo vitale è, secondo Erwing Goffman, un sistema relazionale guidato nella sua performance collettiva da convincimenti condivisi aproblematici e da empatia sistemica, dove “sistemica” equivale a “non occasionale”, “strutturale”. Come in un quartetto d’archi, in una compagnia teatrale, in una équipe sportiva che vince, in un laboratorio di ricerca o in uno studio di professionisti associati. E, aggiungo, in molte piccole e medie imprese italiane nelle quali il genius dell’empatia sistemica vige, perché è connaturato al carattere nazionale e non è stato soffocato da uno scientific management d’importazione.

Simona Raimondi. A me piace molto ragionare in termini di sistema. Il sistema è vivo. È chiaro che un’impresa-sistema è composta da persone vive che rendono vivo, dinamico, mutevole, il contesto del sistema. Ma i suoi confini riescono a reggere e a vivere proprio grazie a questa cultura che permea dalle basi ed è un imprinting molto forte che le persone acquisiscono in modo quasi inconsapevole. Ad esempio, in Guna il personale storico si definisce “Noi Gunoidi”. I nuovi che arrivano, dopo un po’ di tempo, se si sono ben amalgamati nella realtà e credono davvero nella filosofia aziendale, cominciano a chiamarsi “Gunoidi”, ma non lo fanno in modo consapevole. Lo fanno un po’ per imprinting, un po’ per osmosi. Ci sono altre aziende, invece, con ambienti estremamente formali, dove non si può salutare il presidente se non è lui che saluta prima te. Siamo un po’ ancora ai tempi di Carlo Magno, ma è sempre stato così, perché il fondatore ha questa aurea di autorità e autorevolezza che deriva da un imprinting che lui stesso ha dato. Anche le multinazionali hanno un loro imprinting, seppure non parliamo di un’impresa con un solo fondatore. Ed è vero che tutti i matrimoni, tutti i momenti di crisi, incidono su questa cultura.

Dobbiamo considerare la nostra impresa veramente come un sistema vivo, non dico auto-pensante, ma con una cultura di fondo che guida il pensiero, che guida l’azione, quasi in modo inconsapevole, e ti porta anche a fare determinate scelte, perché storicamente ne sono state fatte altre che vanno in quella direzione, vanno in quel filone, vanno in quel credo. Perché di fatto, tutto questo va ad alimentare ciò che è la vision, la missione e il credo di un’azienda, con quello che ne comporta.

Marco Minghetti. Il modello Open Mood ci indica che il manager open deve essere capace di guardare le situazioni con equilibrio, comprendere e dare il giusto valore alle diverse alternative rispetto alle quali costruire la propria decisione. Tuttavia, questo primato della razionalità o addirittura della saggezza (Nonaka e Takeuchi già nel 2011 parlavano di wise leadership) appare stridere con una dimensione più imprenditoriale del management, meno tattica, più capace di azzardo, persino eroica. È utile considerare che spesso le organizzazioni con innovazioni più disruptive, hanno leader con queste caratteristiche (basti pensare a Elon Musk). Come muoversi allora tra queste due dimensioni, nella prospettiva di sviluppare il successo competitivo nel lungo periodo? Coltivare l’equilibrio, oppure privilegiare i talenti che sanno azzardare?

Sonia Malaspina. Secondo me il bravo manager è quello che riesce a gestire questa contraddizione, perché chi non rischia mai, non fa per definizione impresa. Tuttavia, allo stesso tempo, deve riuscire a mantenere l’equilibrio, perché se si rischia e basta, senza calcolare, poi ci si schianta. Questa è la capacità del buon manager e del buon management: avere un’intuizione e scommettere su quell’intuizione. Ti faccio un esempio che viene dall’esperienza nella nostra azienda: nel 2011 mi sono accorta che il 50% di donne erano presenti solo in alcune funzioni, ed escluse da altre (“questo non è un lavoro per donne”) e sempre alla base della piramide. Però, noi siamo un’azienda di brand, che si rivolge a una popolazione anche femminile. Allora ho detto all’Amministratore Delegato che se avessimo lasciato le donne solamente nell’entry-level, ci saremmo persi tutto il loro contributo. Come avremmo fatto a dialogare con le consumatrici? Ci saremmo persi un mondo. Allora mi è stata data carta bianca e da lì è partita tutta la politica di sostegno alla genitorialità che a oggi ha portato grandissimi risultati. Si è trattato di un’intuizione, perché ai tempi scommettere sul lavoro femminile -cioè neutralizzare l’effetto della maternità, implicava tutta una serie di sperimentazioni dall’esito non scontato.

Nell’arco di 10 anni ho portato dei risultati fantastici. Era un rischio, ma ci abbiamo provato. Io non sapevo che avrei portato quei risultati, ma ho avuto un’intuizione, ho trovato chi ha creduto in questa scommessa e abbiamo iniziato. Ero una donna che tornava dalla maternità e che attuava pratiche differenti, di rientro, di compensation, di carriera. Si è creato poi un meccanismo virtuoso che adesso è un punto di forza e un asset fondamentale dell’azienda. Quello che voglio dire è che, secondo me, il management deve saper valutare anche le cose che sembrano periferiche in quel momento. Bisogna mixare bene innovazione, rischio, superamento dello status quo. Però chiaramente non si può fare solo quello, perché altrimenti l’organizzazione perde stabilità, non è più armonica, non incorpora l’innovazione. Bisogna trovare un equilibrio sostenibile oppure le persone si sfiniscono e non ti seguono.

Cristina Danelatos. Dati e intuito sono le due dimensioni del rischio.  Una decisione presa senza dati non è una decisione, ma un atto di fede. Per prendere decisioni i dati sono necessari e vanno ricercati dentro l’organizzazione, ma soprattutto fuori parlando con i clienti, confrontandosi col proprio network, leggendo articoli eccetera. Le fonti sono tantissime. Per me i dati però sono solo dei puntini su un foglio bianco, è la tua parte di intuito che ti suggerisce come unire quei puntini e soprattutto cosa vedi in quel disegno. Negli stessi puntini persone diverse possono vedere disegni diversi, figure unite in modo diverso. È chiaro che quando tiri le tue righe, non sei certo che il disegno sia quello giusto. Devi prenderti un rischio, sapendo che soltanto il tempo ti dirà se “ci hai visto giusto”. Devi in un qualche modo accettare di poter sbagliare. I manager in una Learning Organization generalmente hanno una propensione al rischio più alta, non perché amino l’azzardo, bensì perché vedono l’errore (ovviamente l’errore fatto con la testa e non tirando a caso con i dadi) come un passaggio necessario al successo e, quindi, sono in grado anche di accettarlo e metabolizzarlo anche quando è un proprio errore.

A differenza della cultura punitiva, dove l’attenzione è focalizzata solo sull’errore in sé, i Manager nella Learning Organization sono in grado di estrarne un apprendimento, che è quello che rende gli errori utili e non solo necessari perché l’attenzione è incentrata su cosa si possa fare meglio la prossima volta. C’è secondo me un’altra cosa importante ed è il tema della mitigazione e gestione del rischio. Perché la mia intuizione abbia maggiori probabilità di successo devo avere un sistema di controllo, una bussola per vedere se sto andando bene oppure no ed un piano di azione per aggiustare la rotta nel momento in cui mi accorgo che la strada che ho preso non va bene. Questi strumenti manageriali esistono da tempo, appartengono alla scuola di management, ma sono strumenti forse anche più necessari in un contesto di open leadership, perché mentre prima erano tanto degli strumenti dietro ai quali mi potevo “riparare”, adesso diventano strumenti per sperimentare, quindi sono ancora più potenti.

La propensione al rischio è necessaria in qualunque ruolo manageriale, ma non solo in quelli, perché le decisioni vengono prese a tantissimi livelli nelle organizzazioni. Quanta propensione al rischio serve? q.b. e il “quanto basta” dipende da tantissimi elementi, come la posizione che si occupa. Per esempio: tipicamente, chi si occupa di innovazione deve avere una propensione al rischio più alta di chi si occupa di manufacturing. Ma anche in base a com’è composto il team, per esempio se in un team sono tutti grandissimi risk taker, mi aiuta inserire una persona che sia più moderata nei suoi livelli di accettazione del rischio, perché farà da “avvocato del diavolo” all’interno del team portando sicuramente una decisione migliore.

Simona Raimondi. Io penso che tutte e due le dimensioni siano necessarie se pensiamo ad uno sviluppo dell’impresa nel lungo periodo. Non è che devo coltivare l’una o l’altra, ma riuscire a farle dialogare fra loro in modo costruttivo. Tutti i sistemi tendono all’equilibrio e al risparmio di energia. Quindi anche le imprese non fanno eccezione in questo. Le pratiche consolidate ci danno la certezza, ci fanno muovere in un mondo conosciuto, in un mondo routinario che però è rassicurante con il minimo impiego di energia e il minor spreco possibile. Tutti tendiamo non all’ozio, ma comunque all’equilibrio. Tanto è vero che le persone spesso dicono e così anche le imprese “abbiamo sempre fatto così”. La frase che si sente dire più spesso. E probabilmente l’aver sempre fatto così è un adattamento al mondo, al mercato, al business pensando alle imprese. Però poi mi chiedo: cosa succede quando arriva un evento che destabilizza l’ordine del sistema? il sistema va in crisi. Allora, è un luogo comune, forse una verità, non mi esprimo su questo, che solitamente i figli degli imprenditori non hanno la stessa capacità generativa dei genitori, i nipoti sembra poi ancora meno. Allora, perché questo? Al di là di tutti i motivi personali o sociali, uno dei motivi secondo me è proprio quella capacità di osare per generare. Ci sono imprenditori che creano imperi dal nulla, trovano soluzioni nuove, trovano soluzioni geniali. E allora forse è proprio la capacità generativa che spinge in avanti, che favorisce l’evoluzione del sistema su un mondo che, a sua volta, è in continua evoluzione. Però ritorno ad un’altra domanda: cosa accadrebbe se tutti i manager dell’azienda avessero solo capacità generativa e poca tendenza all’equilibrio? Allora la novità non potrebbe consolidarsi nella pratica. Le azioni quotidiane non possono diventare creatrici di significati condivisi. Quindi la generatività e la stabilità si devono necessariamente muovere insieme. Senza generatività non vai avanti, senza stabilità non sopravvivi. È la direttrice di un continuum che privilegia l’una o l’altra a seconda del momento storico ed economico in cui ci si trova. Quindi, secondo me, è il compito di un manager naturalmente open incentivare la creatività, favorire il buon uso delle idee nella concretezza. Anche perché poi, talvolta, le grandi idee nascono proprio dalla banalità, dalla quotidianità. Vedo una cosa e la guardo semplicemente in modo diverso e lì parte la “genialata”. Però, vale il principio che posso andare lontano, solo se ho una casa in cui tornare. Ma vale anche il principio che se vanno tutti lontano, a casa non c’è più nessuno. Quindi, anche nel coltivare il talento della generatività, bisogna comunque coltivare il talento dell’equilibrio e della concretezza. Questo implica che un manager debba agire con una visione sul lungo periodo, ma anche con una focalizzazione sul breve termine, assumendosi anche il rischio di scelte che sono azzardate e certe volte irrazionali, mettere sul piatto della bilancia anche scelte che siano più wise, più ponderate, più razionali. Si tratta, secondo me, proprio di un gioco di equilibri.

La capacità generativa è un po’ intrinseca in ognuno, ma probabilmente non tutti l’hanno sufficientemente coltivata. Ora, io credo che un buon manager debba comunque coltivarsela la creatività, la capacità generativa, perché ti dà una visione diversa, anche strategica all’interno dell’impresa. È pur vero che devi anche coltivare un equilibrio. Io non penso che dipenda dalla situazione, così come non penso che bisogna creare dei cluster di manager generativi e dei cluster di manager tradizionalisti. Credo in fondo che vadano veramente ottimizzate tutte e due le situazioni, probabilmente anche con un confronto a livello di board o a livello di riunioni più allargate con quella che può essere una prima linea, la prima linea a sua volta con la seconda linea, perché certe volte trovare l’equilibrio non può partire da una singola persona. L’equilibrio deve arrivare proprio a livello di sistema, perché se ragiono in termini di competenza e ho una lista di competenze, queste si possono realizzare solo a livello di sistema, non a livello di singolo.

Allora credo veramente che il sistema di suo scelga cosa seguire in un determinato momento, chi seguire in un determinato momento, che magari la volta successiva può essere ancora il driver oppure no, perché a livello di generatività o di stabilità si sceglie da sé un altro manager oppure un altro approccio. È un po’ complicato usare entrambi i pensieri, mi rendo conto, però fa parte anche di un apprendimento continuo verso l’essere Open, l’essere possibilisti anche verso l’azzardo e verso la rottura dello schema mentale.

Noi abbiamo periodicamente, una volta al mese, degli incontri di discussione che partono proprio dal caso più banale, più pratico, fino ad arrivare alla strategia più sul lungo periodo, dove veramente c’è un confronto a livello di brainstorming. Ci si sente molto liberi di muoversi su questo punto. La generatività è una competenza fortemente richiesta, noi abbiamo uno slogan per l’anno in corso, ogni anno cambia, quest’anno è “Cooperazione creativa di squadra” dove l’accento è posto sia chiaramente sulla cooperazione fra direttori e fra manager e fra tutto il personale, sia proprio sulla creatività. Noi stiamo coltivando molto questo talento perché ci rendiamo conto che le imprese stanno affrontando delle sfide nuove e a sfide nuove soluzioni nuove. Già i due anni che abbiamo vissuto di Pandemia hanno fatto sì che le imprese, o quanto meno noi, trovassero delle soluzioni nuove. Basti solo pensare che gli ospedali non erano accessibili, così come gli ambulatori medici, e tutta l’attività di informazione scientifica è stata ripensata ed è stata ripensata anche in modo molto rapido, perché è chiaro che non si può rimanere fermi. Quindi, il primo e il secondo mese, quando c’era il lockdown completo, abbiamo veramente ripensato a cosa fare per poter comunque formare medici, per poter comunque diffondere il messaggio, per poter presentare anche in modo nuovo, fare delle cose nuove. Quindi, questa capacità, questo talento, questa competenza è fortemente voluta dal sistema. È vero anche che il sistema poi deve trovare una stabilità. Quindi, nel trovare queste soluzioni innovative, per quanto ci riguarda, abbiamo sempre comunque un piede radicato nel terreno, perché è il terreno dal quale arriviamo. La nostra è un’azienda farmaceutica basata sull’informazione scientifica, a cui si da un grosso peso. Questa è la storia, questa è un po’ la cultura che permea l’impresa. Lì sono le radici. Poi si può creare, si può guardare al futuro, si può incentivare anche un approccio nuovo, ma con i piedi ben piantati nel terreno, che è la forza poi dell’impresa.

Pino Varchetta. Tutte le volte che oggi poniamo delle dicotomie, come “equilibrio contro l’azzardo”, a mio parere depauperiamo il mondo, perché il mondo oggi dovrebbe essere ambiguo, nel senso non di Argentieri, cioè etico (Argentieri S., L’ambiguità, Einaudi, 2008), ma nel senso di Pagliarani del due (Pagliarani L. “Ambiguità, sentimento del tempo” in Educazione Sentimentale, Guerini, n. 8, 2006). C’è la ragione epistemica, che è quella del teatro greco. Nel teatro greco c’è un’ineluttabilità che sovrasta l’umanità e si precipita verso un’indicazione che è già chiara dal principio. Poi c’è il teatro epico, che ha rotto questa legge dell’inesorabilità ed apre dunque all’azzardo. La ragione metica costituisce un pensiero riflessivo che attraverso argomentazioni diverse ha creato la rivoluzione scientifica, che è buttarsi nel vuoto, buttarsi nell’azzardo. Infatti, non c’era mai stato un grande rapporto tra i tragici greci e gli scienziati tipo Pitagora.

Anche Galileo è l’uomo dell’azzardo. Però, contemporaneamente, sapeva fino a che punto poteva spingersi, sapeva che c’erano dei limiti, sapeva coltivare il tema della trascendenza, non tanto il tema della divinità, ma il bisogno umano dell’altro. L’azzardo ha molto più bisogno di persuasione e di strumenti retorici rispetto ad una prospettiva di lungo periodo. In quei casi si parte con una diagnosi accurata (sei circondato da consulenti, da algoritmi), si lancia un progetto competitivo e si sta a vedere se arrivano i risultati. L’unica tua problematica è avere uno span of control lungo, un’ansia questa che la socio-psicoanalisi ha studiato a lungo. [Time span of discretion è la misura che Eliot Jaques utilizza per esprimere il grado di tolleranza dell’ansia nella presa delle decisioni. Maggiore è il tempo connesso alla verifica dell’impatto della decisione, maggiore è la capacità richiesta di tolleranza dell’ansia. Il concetto è sviluppato nel volume di Jaques E., Lavoro, creatività e giustizia sociale, Bollati Boringhieri, 1990. NdR].

Invece, i talenti verso l’azzardo sono personaggi che non hanno fondamenta sicure.

Il rifiuto della dicotomia, dell’alternativa, della ricerca di avere due livelli di visione del mondo, a mio parere, è negativo per affrontare il mondo oggi. Perché mettere in opposizione il lungo periodo con l’azzardo?

Io credo che ci sia la possibilità di uscire da un senso angusto dei fatti, perché in fondo i grandi strateghi erano quelli dell’azzardo. Loro non si limitano al significato angusto dei fatti. I manager contemporanei hanno dati pazzeschi e se ci pensiamo le grandi strategie richiedono sempre più dati. L’azzardo è un semeiotico dell’azienda, del mercato [interpreta i segni, in un contesto ambiguo NdR], e non chiede tanto. Chiede comprensione e supporto emotivo. L’uomo dell’azzardo attraversa l’organizzazione (through organization), si fa delle piccole organizzazioni per sé. Non è un pellegrino. Il pellegrino parte ma torna indietro. Lui è un viaggiatore e quindi la serendipity è la sua cognizione.

L’Open Manager non dovrebbe essere oppositivo, dovrebbe diffidare delle opposizioni, delle dicotomie, dell’ambivalenza. Deve essere ambiguo. Deve avere un’epistemologia dell’ambiguità.

Il confine è chiaro, la frontiera è una terra di nessuno. I pionieri sono gente di frontiera. Sanno stare nella terra di nessuno.

Alessandra Benevolo. Anche io non vedo antitetici equilibrio e innovazione. Importante è avere una leadership che sia in grado di pensare, di coordinare, guidare, supportare e fare tutto questo, come abbiamo detto, trattando i colleghi come adulti.  Laddove ci sono contributi anche disruptive devo prenderli in considerazione. Questo è equilibrio. Li adotto nella misura in cui hanno una compatibilità con il business. Sono disruptive e va bene, viviamo in un mondo di questo tipo. Se ci fossimo fatti questa domanda qualche decennio fa il mantenimento dell’equilibrio sarebbe stato più importante. Ora invece vi è una continua fuga in avanti. Non c’è più il tema di mantenere equilibrio OPPURE mandare avanti l’innovazione. Oggi io mantengo equilibrio SE mando avanti innovazione.

L’innovazione è un ingrediente. I nostri trisnonni avevano una vita faticosa dal punto di vista fisico, ma molto più semplice e lineare. Per noi è molto diverso. La mia idea è che organizzazione sia come un flusso in cui creare le condizioni perché emergano delle energie. Lo scopo del management, anche HR, è accettare l’emergere di nuove energie e valorizzarle nel modo migliore all’interno dell’organizzazione.

Noi dobbiamo aiutare i nostri manager a liberarsi della paura che li porta a iper controllare. Ci sono da sempre attività che si fanno in assenza di un controllo continuo. Esempio le vendite hanno sempre usato le modalità di gestione da remoto. Famiglie professionali diverse possono adottare modelli diversi. Anche in manifattura. Ad esempio, in Toyota dove gli operai non hanno solo un ruolo esecutivo. Quest’ultimo infatti viene affiancato, anzi integrato al lavoro di miglioramento (Kaizen).

Marco Minghetti. Gli studi organizzativi negli ultimi hanno enfatizzato l’importanza della capacità delle persone di adattarsi a contesti che sono sempre più dinamici. Come abbiamo detto, questa capacità di adattamento si definisce Mindset della crescita (Growth mindset). Per tale motivo si sono andate diffondendo delle pratiche HR di accompagnamento al ruolo (il coaching, ad esempio, è una delle più significative) che supportano la persona nel processo di cambiamento. Tuttavia il cambiamento, ormai, è così pervasivo, che non sempre gli interventi sono efficaci, anche per l’incapacità del management di sostenere e incentivare l’evoluzione dei collaboratori. Il management infatti ha un ruolo decisivo dell’interpretare un’azione di contenimento, di facilitazione, di stimolo, ma anche di attesa dei tempi di evoluzione del collaboratore (capacità negativa). Nella sua esperienza quali sono le azioni di sviluppo manageriale più efficaci per rendere i manager capaci di sostenere il Growth Mindset dei collaboratori?

Pino Varchetta. Faccio una premessa: passo una certa percentuale del mio tempo a fare consulenza al ruolo. Io devo dire a voi giovani consulenti, che siete i suggeritori, siete i mentor, di stare attenti che il coaching o il counselling non sostituiscano l’impegno personale, che non siano una scusa per “lavarsene le mani”, perché affido il problema a qualcuno bravo che sicuramente qualcosa ne tirerà fuori. L’altro rischio è che il coaching poi sostituisca il problema vero che è il team, che è la relazione, la micro-organizzazione, l’auto-organizzazione dei gruppi. Perché il growth mindset è un fatto collettivo, non un fatto individuale. E quando l’ho fatto diventare un fatto collettivo veramente e nella mia azienda c’è ospitalità per un growth mindset collettivo io sono a posto.

Cominciamo a tirare via qualche parola, e prenderne una sola. Tra contenimento e facilitazione e stimolo diciamo solo contenimento. Contenimento è un problema preciso che contiene tre cose (Bion W. R., 1970, Attenzione ed Interpretazione, trad it. Armando, Roma, 1973). Primo, evitare proiezioni: non buttare i problemi dal marketing verso le vendite o viceversa ecc. ma elaborarli prima dentro, cioè la capacità elaborativa dei propri problemi.

Secondo, rendere sopportabile l’insopportabile. Nella vita personale vi sono momenti drammatici. Altrettanto drammatiche sono alcune fasi della vita professionale. Eppure, troviamo a casa e in azienda delle modalità per sopportare. Non c’è nulla di insopportabile.

Terzo, andare oltre lo stato mentale embrionale. Molte persone nelle organizzazioni hanno straordinarie idee e non sanno di averle. Il capo deve tirargliele fuori. Perché c’è la paura della propria bellezza, c’è la paura della propria idea, c’è la paura di quello che l’idea ti può generare dentro, ti può scompigliare la vita. È come l’amore. Pagliarani diceva “si dice bello da morire, non brutto da morire”.

L’organizzazione è questa, due persone che parlano in una stanza. Quindi, diciamo solo contenimento, che è una parola ricca, complessa, composita.

Simona Raimondi. Come Pino Varchetta, anche io faccio una premessa: molto pratica, nel mio caso. Bisogna capire che pianta sto annaffiando. Quelle di plastica non crescono, nemmeno con la miglior buona volontà. È un’affermazione provocatoria che uso spessissimo per dire che la crescita e l’evoluzione possono avvenire solo ed esclusivamente con l’esplicita volontà di chi è chiamato in causa nella crescita. Allora, tante volte accade che i manager si ostinino a voler indurre un cambiamento in un collaboratore che di cambiare non ha nessuna voglia.

Oppure l’impresa punta su un manager che di cambiare non ne ha alcuna voglia, affida problemi ad altri, si attende il miracoloso esito, il più delle volte l’esito è di breve durata, altre volte addirittura l’esito è un fallimento. Quindi, secondo me, il primo passo è quello di saper attuare una sana managerialità comprendendo che nella realtà ogni persona ha una consapevolezza diversa del proprio ruolo e del proprio lavoro. Il secondo passo è trovare un equilibrio fra il pensare e l’agire quotidiano. È vero che un manager, in primis, è tenuto a portare risultati quantitativi in termini di produttività per l’impresa, poi, gli si chiede anche di fare da coach, di favorire, facilitare e stimolare la partecipazione e la crescita dei collaboratori. Però, comunque, è valutato su un obiettivo. Quindi, un’azione manageriale deve tenere conto di questi due aspetti.

Allora forse la difficoltà più grande è proprio quella di riuscire a cambiare il focus dell’attenzione, dal garante del risultato concreto al facilitatore della crescita, in un contesto che comunque continua a cambiare in tempi rapidissimi, dove le regole del gioco dalla sera alla mattina probabilmente non sono neanche più quelle. Però, la velocità che è richiesta da un cambiamento esterno, il mondo che ci dà una sollecitazione, si concilia veramente poco con la necessità di tempi di riflessione e di sedimentazione per attuare un cambiamento efficace e duraturo. Il cambiamento di mentalità richiede una fase di gestazione, di presa di coscienza, di implementazione di azioni, che non coincidono in questo momento con la velocità del mercato volatile e incerto. Per crescere veramente, secondo me, non mi devo solo conformare con ciò che viene richiesto dall’impresa, ma è necessario che mi chieda in modo autentico cosa voglio fare, cosa sono disposto a fare per mettermi in discussione. Quindi, probabilmente, quello che un’impresa può fare per supportare i manager nell’aiutare a loro volta il collaboratore e porsi come stimolo, è proprio quello di aiutarli a mettersi in discussione per davvero, capire cosa sei disposto a fare tu a fronte dei due obiettivi che ti do (uno numerico, quantitativo e uno qualitativo).

Ricordo un libro che avevo letto qualche anno fa di Salvatori Natoli che si intitola “Il buon uso del mondo” in cui l’autore faceva questa domanda: “nell’attività quotidiana, noi siamo agenti consapevoli capaci di dare un senso alle nostre azioni o siamo invece degli agiti, cioè degli esecutori anonimi e impersonali, a cui vengono assegnati dei compiti da fare?”. Probabilmente, se riprendo questa domanda, un manager che voglia davvero favorire il growth mindset dei collaboratori deve aiutarli quantomeno a rompere lo schema mentale, a superare i pregiudizi e a fare scelte responsabili e consapevoli. Ma, a sua volta, l’impresa deve favorire questo nel suo manager, che non è semplice, perché poi alla fine della giornata il CFO fa i conti. Quindi, se passo la giornata ad aiutare le persone a crescere, probabilmente non passo la giornata a porre l’attenzione, a vendere o a produrre. Anche qui, però, si tratta di un equilibrio giocato sulla responsabilità e sulla consapevolezza, sulla consapevolezza di quali sono davvero i collaboratori su cui posso puntare per questo processo di crescita, oppure i collaboratori che non vogliono crescere. Il cambiamento parte da dentro, è una scelta fra essere agenti o essere agiti, ma questa scelta la deve fare solo l’individuo. L’impresa può solo supportare chi vuole essere agente e giustamente collocare chi vuole essere agito.

Per facilitare i manager in questa azione di supporto ci può essere la formazione, possono esserci i tavoli di discussione e di confronto fra manager, dove si possono portare delle problematiche o dei casi di successo e quindi discutervi insieme. Tante volte rifarsi anche all’esperienza degli altri è un ottimo metodo per poter crescere. Oppure ci possono essere anche i tavoli di discussione fra manager di aziende diverse, perché lì ti confronti con un altro manager che vive un’altra realtà, che vive un’altra cultura e anche quello aiuta a vedere fuori dal solito schema. Può esserci anche il coaching per il manager chiaramente, che inserivo in tutta l’azione formativa.

Alessandra Benevolo. Nella mia azienda consideriamo i colleghi come un “unicum” a 360°. Questo significa pensare ai loro bisogni e desideri anche al di fuori dell’orario di lavoro. Una chiave che ho trovato essere potente è quella considerarli come individui, che sono professionisti e persone: chiediamo loro di cosa hanno bisogno. Ho virato ormai al 100% su una formazione ad personam (anche qui la pandemia ha accelerato il processo). Andiamo a capire quali sono i bisogni della persona e quelli del professionista.

Per fortuna “sa di antico”: capita di confrontarsi su come innovare, con il rischio di perdere di vista i basic. Consideriamo il tema della diversity. Il tema non è favorire la diversità in azienda  (io porto gli occhiali e quindi sono diversa), ma sviluppare inclusione, ovvero, nel mio caso, avere lo  schermo di un computer sufficientemente  grande per me che ho difficoltà a vedere.

Oppure facciamo l’esempio del gender equity: non deve significare assumere più donne in azienda. Il nodo centrale è mettere donne e uomini nella condizione di rendere al meglio e costruire su questo. Le donne vanno assunte e premiate perché hanno capacità, non perché sono donne. Valorizzare l’antico per me significa non perdere di vista i basic, contemperando, e qui ritorniamo a quanto detto prima, equilibrio ed innovazione.

Faccio ancora un esempio. Durante la pandemia una della attività di formazione (anche se io non la chiamo più formazione), è consistita in un percorso in sei tappe sulle competenze emotive, perché l’individuo-professionista/persona può beneficiare moltissimo in entrambe le aree, lavorando sulla capacità di riconoscere le proprie competenze emotive e quelle dell’interlocutore e gestire di conseguenza la relazione al meglio. Facciamo queste attività non per buonismo, non siamo onlus, ma perché far star bene le persone aiuta il business. Se, mentre favorisco il business, riesco a dare qualcosa di valore alla persona, e non solo al professionista, questo mi fa sentire meglio. All’ultima puntata il docente che ci accompagnava nel percorso, inizia a fare il discorsino di chiusura. Nel momento in cui è stato chiaro che era il discorso conclusivo, si è alzato un coro di “dobbiamo continuare”. Fa piacere quando un percorso è stato gradito specie su tematiche non tecniche. Abbiamo fatto altre quattro sessioni di prolungamento sulle competenze emotive e tuttora le persone restituiscono come feed back che sono tantissime le occasioni in cui utilizzano quello su cui abbiamo ragionato.

Faccio un altro esempio. Abbiamo fatto un percorso di mindfulness perché all’inizio del lockdown le persone erano smarrite. Con i progettisti del corso, avevamo pensato che si sarebbero collegate solo donne e al massimo 30-35% dei colleghi dell’azienda. Invece si sono collegati tutti. Perché? le persone mantengono agilità nell’apprendimento se gli fai apprendere cose che sono loro utili. Le aziende devono andare oltre i tool, l’apprendimento vero mi serve per crescere come individuo, lo devo modellare sull’individuo.

Investire sull’individuo a 360 gradi io lo chiamo benessere organizzativo. Di nuovo, non perché siamo buoni, ma perché il business passa dall’investimento sulle persone.

Cristina Danelatos. Lo strumento più potente di sviluppo che ogni employee ha è il proprio capo. Non esiste uno strumento più potente, per tanti motivi, banalmente anche per la frequenza di interazione rispetto a tutti gli altri strumenti che si possono mettere in gioco. Inoltre il tuo capo determina largamente la tua esperienza al lavoro.

A me è capitato di avere manager di un tipo e manager dell’altro, ma il segno che mi hanno lasciato gli Open Manager che ho avuto è talmente profondo ed indelebile e l’esperienza che ho fatto con loro è talmente positiva, che comunque mi spinge a dire “io vorrei essere quel tipo di manager lì”. SI tratta di un manager che è in grado di riconoscere le differenze all’interno del proprio team, di valorizzarle, di usare leve diverse a seconda delle diverse persone con cui si interfaccia perché sa che hanno driver diversi. Un manager che crea gli spazi fisici ed emotivi dove tutti sono liberi di esprimere la propria opinione, e di sbagliare, perché ha creato un clima in cui gli altri, invece di puntare il dito, aiutano chi è in difficoltà, aiutano a correggere l’errore. Un manager che si mette in discussione per primo dicendo “questo non lo so fare”, “Tu cosa ne pensi?” “Quella volta ho sbagliato. Ho imparato questo dall’errore che ho fatto”. Io ho 2 indicatori su cui misuro la mia capacità di essere quel manager: il primo è il numero di volte che il mio team è in grado di prendere buone decisioni di qualità e di eseguirle in tempo e bene, senza di me. Il mio obiettivo è rendermi non necessaria. La seconda misura è quando una persona viene a parlarti trasparentemente ed apertamente del suo futuro professionale, per esempio dicendoti “mi è arrivata un’offerta, la sto valutando, tu cosa ne pensi?”, perché sa che dall’altra parte c’è qualcuno che sinceramente darà la sua opinione, anche se dovesse costargli che tu vada via, anche se vorrebbe che tu andassi, ma in realtà non pensa che sia per te una cosa giusta.

Sonia Malaspina. Un acceleratore fortissimo di growth mindset è considerare anche le esperienze di vita delle persone. Per questo quando vedo qualcuno che costantemente lavora fino a tardi in ufficio mi preoccupo. Incoraggio sempre le persone ad auto-organizzarsi, anche con degli spazi di recupero, di decompressione, proprio perché ho osservato che le esperienze lavorative incidono sulla resa, incidono sul growth mindset. L’esperienza della genitorialità, per esempio, migliora moltissimo le competenze manageriali prima e dopo il congedo. Le persone hanno sperimentato un accrescimento delle competenze organizzative, la delega, la capacità di ascolto, la capacità di lavorare gestendo le priorità, il multitasking.

Sono tutte competenze aumentate nella loro percezione. Esperienze extra-lavorative, di maternità, di paternità, di caregiving, che magari non tutti vediamo, perché non se ne parla alla macchinetta del caffè, ma che sperimentiamo, ad esempio, quando i genitori diventano anziani, fragili e ti devi occupare di loro. Ma anche situazioni della vita come un lutto, una separazione, un qualsiasi evento che incide sulla vita, lo guardiamo come un momento di apprendimento che incide sulle capacità manageriali. Utilizziamo delle tecniche proprio per far riflettere le persone su questa dimensione, anche con il coaching, il mentoring, lo shadowing, il supporto psicologico. In questi tempi noi HR ci vediamo esposti ad un tema anche di fragilità delle persone. Dobbiamo essere consapevoli che abbiamo una dimensione di fragilità, che è umana e che abbiamo tutti, e saperla gestire, senza essere spaventati, senza negarla. Tutto questo ci insegna che dobbiamo mettere in campo delle strategie concrete per mantenere un clima sano, persone sane, da ogni punto di vista.

Io penso che il growth mindset vada nutrito quotidianamente. Non è un aspetto per cui è sufficiente prevedere un programma e basta.  Devi porvi costantemente attenzione, perché fa parte di un asset fondamentale per l’azienda per essere competitiva. Se non c’è growth mindset in un’economia che si muove a questi ritmi, con questa disruption (pensiamo all’aumento dei prezzi, al sapersi reinventare) non sei competitivo. Hai bisogno di persone che abbiano questa capacità di assorbire i colpi, le difficoltà e di reagire positivamente superandole. Devi quindi avere una parte di nutrimento che è strategica. Significa dare gli strumenti per produrre growth mindset, che per me è un outcome, è qualcosa che si ottiene, che non c’è a priori.

Marco Minghetti. In una recente pubblicazione il filosofo e professore di Oxford Luciano Floridi ha parlato della nuova era Green & Blue (2020) sostenibile e digitale, che propone una sfida alla nostra concezione del mondo. Dobbiamo imparare a ragionare in modo nuovo, privilegiando la digitalizzazione dei processi, ovvero la capacità di interpretarli come flussi di dati da raccogliere ed elaborare. Dobbiamo imparare a virtualizzare l’esperienza organizzativa in un Metaverso in cui il fisico e il digitale si fondono, creando una dimensione Phygital, in cui comportamenti e dati si integrano, creando nuovi orizzonti di significato. Dobbiamo imparare a fare tutto questo, riducendo l’impatto sull’ambiente, perché le evidenze sul clima sono sempre più drammatiche e cresce l’urgenza di azioni significative in questa direzione. Queste nuove sfide sono certamente non solo politiche, industriali, strategiche, ma anche culturali. Sono cambiamenti che attraversano le vite di tutti noi, a partire dai gesti più semplici. Dai comportamenti che si premiano nell’acquisto, alla modalità che si adotta per vivere l’esperienza di lavoro, alle decisioni che si prendono nel design di un prodotto, alle modalità di costruire il rapporto con il cliente. A suo parere al di là degli obiettivi di business, le organizzazioni di lavoro possono dare un contributo per questo profondo cambiamento di mentalità che ci viene richiesto? Quali sono le modalità che le imprese potrebbero o dovrebbero adottare per sviluppare la cultura Green e la cultura Blue?

Pino Varchetta. Per rispondere a questa domanda cito le parole del Prof. Longo dell’Università di Trieste che ha scritto una bellissima post-fazione dell’ultimo libro di Benasayag (La singolarità del vivente, Jaca Book, 2021). Longo racconta la nascita della scrittura. Nell’antichità i nostri progenitori iniziarono a creare i miti, costruendo delle divinità naturali. Da qui nacquero le religioni attraverso l’invenzione di narrazioni. Queste storie produssero tali emozioni che, attraverso la trasformazione della corteccia cerebrale, nacque la scrittura. La scrittura in grado di trasmettere tali emozioni. La stessa riproduzione degli animali nelle caverne (come nei famosi disegni delle Grotte di Lascaux NdR), passando da macchie di colore, a linee che delineano la forma dell’animale. La dimensione della linea comporta un atto di astrazione. La stessa astrazione che è alla base della rivoluzione digitale: il mondo artificiale.

Il Metaverso è il phygital – digitale e il fisico, nel fisico metto anche le emozioni. Le due dimensioni devono riuscire a stare insieme senza che l’artificiale/digitale prenda il sopravvento. Penso a come nascono e si sviluppano le aragoste. Hanno un ciclo di vita in cui alternano periodi senza corazza in cui sono indifese, a periodi in cui si ricoprono di una corazza che consente loro di sopravvivere. Ebbene crescendo la corazza diventa troppo stretta e deve essere abbandonata. Di nuovo l’aragosta accetta di sentirsi indifesa, fino a quando non si forma una nuova corazza. Ecco il digitale, la corazza, non deve prevalere sull’umano. Ci vuole educazione per capire che la fragilità resta.

Sonia Malaspina. Noi abbiamo una visione, che chiamiamo “One Planet, One Health” che riassume la cura per la salute delle persone che è anche la nostra missione e ragione d’essere, e la preoccupazione di ridurre e azzerare l’impatto ambientale e sociale delle nostre operazioni. Per fare questo, abbiamo analizzato e rivisto tutti i processi aziendali, proprio per minimizzare e azzerare gli impatti negativi e diventare, nella nostra ambizione, una organizzazione rigenerativa, che non sfrutta territorio, ambiente, comunità, ma che produce valore. Nel caso della sostenibilità sociale, con le pratiche sviluppate, abbiamo registrato con le metodologie ISTAT una natività positiva del +7% rispetto all’andamento negativo a livello nazionale. E questo per me vuol dire essere un‘azienda generativa, che restituisce alla società e alla comunità.

Da un punto di vista ambientale, abbiamo lanciato a fine 2019 una strategia locale che si chiama Zero al cubo, perché ambisce ad azzerare lo spreco alimentare, le emissioni e la plastica e gli imballaggi in natura. Noi siamo un’azienda che ha un sourcing che va dall’agricoltura al prodotto finito, alle occasioni e alle abitudini di consumo; quindi, possiamo davvero incidere su tutta la filiera. Abbiamo un brand, Alpro, che propone un’alimentazione vegetale, che ha un minore impatto ambientale, meno acqua, meno produzione di CO2. questo percorso ci ha portato a essere società Benefit e a ottenere una certificazione molto difficile da perseguire che è la B Corp, che appunto indica che perseguiamo obiettivi sociali ed economici nel nostro statuto, e che lo facciamo cercando di migliorarci ogni anno di più (la certificazione non è data una volta per sempre). Il digitale è un acceleratore di queste transizioni e, come tale, va utilizzato come strumento, come leva e va ben compreso, nel senso che sta cambiando radicalmente le nostre esperienze, come nell’acquisto, nella formazione, nell’intrattenimento, nelle interazioni.

Noi abbiamo questi pilastri: la cura delle persone, dell’ambiente, del pianeta e della comunità attorno a noi. Non si tratta solamente della cura delle persone nella nostra azienda, ma anche di quello che sta succedendo attorno a noi nella società, fattori che monitoriamo per poterci migliorare per il bene di tutti. Essere B Corp significa entrare in un movimento di aziende che pensano che se siamo tutti così allora cambia l’impatto dell’uomo sul mondo che vogliamo lasciare ai nostri figli.

Simona Raimondi. Qualche anno fa, quando studiavo, antropologia mi è capitato tra le mani un libro di Wolfgang Behringer “Storia culturale del clima” e l’autore in questo libro ripercorre l’evoluzione climatica dall’era glaciale fino al surriscaldamento globale. Il punto saliente che mi aveva colpito di questo libro è che secondo l’autore è possibile comprendere il dibattito sul surriscaldamento globale, sull’ambiente sul green ecc. solo se si conosce a fondo quanto è flessibile la risposta culturale dell’uomo alle variazioni climatiche. È un approccio molto positivo sulla capacità umana di adattarsi ad un clima che cambia. Di fatto, noi siamo figli dell’era glaciale. Solo quando il freddo si è ritirato, si è affievolito, abbiamo cominciato a costruire la storia come la intendiamo oggi e queste evidenze scientifiche, suggeriva Behringer, indicano che è proprio il riscaldamento ad aver favorito lo sviluppo della civiltà. Questi giorni ne abbiamo un po’ troppo, ma di fatto se ci fosse stato il ghiaccio non avremmo potuto essere così generativi. Io penso che la terra sia viva, non è il nostro habitat passivo, ma è un attore attivo e co-protagonista del nostro vivere quotidiano. Influenza talvolta in modo inaspettato anche la nostra storia: se c’è una carestia, c’è una migrazione, una guerra, c’è una nuova malattia, ci sono poi tutte una serie di azioni che noi mettiamo in atto in modo veramente molto veloce. Il cambiamento climatico è di fatto inevitabile, perché la Terra ha le sue fluttuazioni. Quindi, il cambiamento climatico è un discorso, la risposta culturale al cambiamento è un altro discorso. Se non possiamo influire sull’andamento della Terra, che un po’ decide da sé, possiamo decidere quale risposta mettere in atto in modo veloce, cioè se andare contro la Terra o collaborare in sinergia con essa. È qui che sta, secondo me, il cambiamento profondo di mentalità, che mette in campo una consapevolezza e un buon senso diverso ma che altro non sono che buona educazione e senso civico. Il fatto di non scaricare agenti inquinanti nei fiumi non lo devo fare, non tanto perché la Terra si surriscalda o perché adesso devo essere green, io non lo devo fare proprio a prescindere. Se un bambino è con i genitori a casa propria nella piscina di casa propria e ci butta la vernice, finisce in castigo una settimana. Se lo stesso bambino butta la stessa vernice nel Po, invece, c’è la tendenza a fregarsene, perché tanto c’è la corrente che la porta al mare. Ma il cambiamento è lì che deve avvenire, non nei grossi discorsi filosofici. Perché se facciamo grossi discorsi filosofici cadiamo in una retorica che certe volte è anche inutile: cosa faccio per risolvere il surriscaldamento? non uso più le automobili. Però allora vado in giro con il cavallo che tanto inquina uguale, perché non ha i gas di scarico ma poi respira, mangia e quello allora è un altro problema. Allora non mi butto ad affrontare argomenti così enormi, così vasti, ma nel concreto si tratta di senso civico.

Molto spesso ci si dimentica di ragionare in termini di causa-effetto. Quali conseguenze hanno le mie azioni? è una domanda che nella quotidianità ci poniamo veramente troppo poco. Nel macro non so cosa possono fare le imprese, nel micro possono fare veramente tanto in questo cambio culturale. Possono dare un concreto contributo attraverso la buona educazione, attraverso la premiazione di comportamenti che vanno nell’ottica di senso civico e buona educazione. Innanzitutto, non è vero che tutto è permesso perché tanto qualcun altro ci penserà. Ci sono delle regole nella “casa-mondo” e, quindi, come manager, siamo tenuti a sensibilizzare tutti e a sensibilizzare noi stessi a un ragionamento in termini di causa-effetto e di feedback sulle singole azioni del sistema nel suo complesso. Si può fare da piccoli obiettivi condivisi, seguendo il principio dell’inclusione dei dipendenti oppure collaborando attivamente con il territorio per la costruzione di politiche rispettose. Ad esempio, se si organizza la giornata di raccolta della plastica partecipiamo anche noi come azienda. Diamo un’immagine sul territorio di un’azienda green. Il mobility manager ha un senso quando può aiutare a una gestione anche di traffico urbano che è veramente insostenibile, anche al di là dell’inquinamento, perché non ci si possono mettere 2 ore a fare 40 km per chi viene fuori Milano.

Quello che può fare un’impresa è costruire nuovi significati rispetto a queste pratiche, rispetto alla fluidità dei processi che stiamo affrontando e che devono diventare parte di una nuova educazione. Il digital non è che lo apprendi da te, lo apprendi con il tempo, con un tempo fisiologico che invece probabilmente va anche incentivato. Quello che, secondo me, le imprese possono davvero fare è il “manualetto delle buone educazioni”, incentivando e premiando i comportamenti che vanno in quella direzione. Un’impresa che sta sul territorio deve necessariamente collaborare con il territorio nell’educazione del territorio stesso. Secondo me è proprio imprescindibile. Pensiamo anche ad una educazione che viene fatta nelle scuole: le imprese vanno nelle scuole per aiutare giovani e universitari che poi si porta in casa. Questa azione sociale di collaborazione con il territorio, scuola, università, parrocchia (ogni impresa ha il suo network), però, è già di per sé un momento educativo alla cultura del lavoro. L’educazione alla cultura del lavoro passa anche o può passare anche da un’educazione alla cultura di un nuovo modo di lavorare, di un nuovo modo di vivere le imprese e il territorio eco-sostenibile verso il benessere. Perché quello che adesso si chiede alle persone non è più solo la salute e la sicurezza sul posto di lavoro, ma anche il benessere sul posto di lavoro, che passa anche per questo tema.

Alessandra Benevolo. Partiamo dalla cultura green: c’è ancora necessità di fare chiarezza. Green uguale inquinamento è ancora molto diffuso. La sostenibilità è una cosa diversa, molto più complessa e articolata. Posso essere sostenibile facendo la raccolta differenziata, ma anche creando un ambiente in cui le persone stiano bene. Quella per me è la sostenibilità. Come può muoversi l’organizzazione? Può lavorare su aspetti di impatto verso l’ambiente laddove ha un business che li genera. Uno delle maggior fonti di inquinamento, ad esempio, è la mail [1 mail di 1Mb produce 19 gr di CO2; 100 cittadini che mandano 33 mail al giorno producono 13 tonnellate di CO2, pari a quella prodotta da 13 viaggi aerei andata e ritorno Parigi/NewYork. NdR]. Ma è nostra responsabilità anche la sostenibilità interna: creare una modalità di lavoro che sia sostenibile per i dipendenti.

Tornando al Metaverso vedo il rischio di riempirsi la bocca di concetti che ci fanno perdere di vista i basic, io sarei un tantino più prudente. Se assumiamo che, in un contesto di impresa, il Metaverso sia mettere insieme virtuale e reale, anche qui deve prevalere l’adultità. Abbiamo passato mesi a parlare dei modelli di rientro in ufficio delle persone. Perdendoci in un dibattito sterile di tipo quantitativo: tipo meglio 2 o 3 giornate in presenza. Quando invece il basic è l’aspetto qualitativo. Perché devo venire fisicamente in ufficio, piuttosto che lavorare da casa? Al di là dell’attitudine alla relazione sociale delle persone, posso anche fare due settimane continuative in ufficio e poi non andare per le due settimane successive: conta la funzionalità delle cose che faccio.

Come fa l’azienda a decidere se Mario Rossi può venire in ufficio?

Mario Rossi dovrebbe esser gestito da un capo Filippo Bianchi adulto. Mi aspetto che il collaboratore si auto organizzi per passare una giornata con il suo team seguendo la modalità più efficace in funzione dell’obiettivo. Deve essere lui a deciderlo e non il suo capo.

Quindi l’adultità comporta una rilevanza crescente della gestione per obiettivi. Non tutti ce la fanno, ma è necessario chiedersi quanto abbiamo aiutati i capi a sviluppare questa cultura. Un capo che non sa lavorare per obiettivi e non abbandona il controllo può darsi che non sia nel posto giusto, che sia uno a cui non affidare una squadra. Quante volte sono stati promossi i capi i più bravi nel team, ma ciò non significa che sappiano fare i capi. Insomma, dobbiamo investire sulle persone, specie se sono capi.

Il capo deve supportare anche il collaboratore che non riesce lavorare per obiettivi. E lo strumento principe è il feed back, che va insegnato e sviluppato. Anche alla maestra che deve saper come dire che un disegno è brutto, senza che il bambino si percepisca incapace e non disegni più.  Saper dare un feed back, valorizzando l’errore come fonte di apprendimento continuo conduce allo sviluppo dell’adultità e del benessere nelle imprese, e non solo.

Cristina Danelatos. Tutte le aziende giocano un ruolo fondamentale, perché le persone spendono una grande parte del loro tempo in quel contesto sociale, ma io vedo un ruolo particolarmente significativo per le aziende di consumer goods.  Come fanno business queste aziende e quali sono le scelte radicali di business alla base, i grandi progetti, ma anche la somma di tantissimi micro-comportamenti agiti nel quotidiano. La Sostenibilità in azienda non deve più essere solo sui tavoli dell’HSE, degli expert del tema, ma deve essere nel vissuto quotidiano di ogni employee. Cose anche piccole ma sempre concrete: ad es nelle macchinette del caffè abbiamo solo bicchierini di carta e cucchiaini di legno. Per noi azienda significa pagare i caffè qualcosa di più, però pensiamo che sia giusto e l’abbiamo fatto. Abbiamo regalato una borraccia ad ogni dipendente, messo in giro dei distributori attaccati direttamente alla rete idrica, che erogano gratuitamente sia acqua calda, che fredda. Abbiamo creato un team di volontari, “Green Team”, che si occupa di coordinare le iniziative di sostenibilità. Siamo partiti in 5 e adesso è un team cross-funzionale fatto di 20 persone, tutti volontari. Il “Green Team” ha cominciato a raccontare le varie iniziative che venivano fatte, da quelle più micro come acquistare solo risme di carta certificata FSC per le nostre stampanti, a quelle più importanti come la copertura dei parcheggi con il fotovoltaico, il cambiamento di tutte le lampadine con sistemi led, la ristrutturazione degli edifici per consentire l’ottimizzazione termica, il trasporto di alcuni dei nostri prodotti su treno , invece su gomma. Tante, tante cose.

L’immagine di copertina  è di  Silvia Castagnoli.