Quali competenze per generare innovazione in azienda? Una Conversazione con Mariacristina Gherpelli (GHEPI), Davide Ippolito, (Zwan e Reputation Rating), Ilenia Montanari (Tecomec), Angelo Rigillo (Enel), Francesco Varanini (MIT Sloan Management Review)

La ricerca Open Mood, di cui ci siamo occupati in una serie di Conversazioni dedicate, ha identificato e descritto l’Open Manager. L’Open Manager è una figura che favorisce e sviluppa l’Innovazione Aperta in azienda. Adotta uno stile che coniuga due dimensioni. All’interno dell’azienda lavora in modo agile, facilita la trasparenza, la collaborazione, la sperimentazione e la leadership diffusa. All’esterno è pronto a cogliere opportunità, contribuisce al disegno di soluzioni innovative e si impegna per la loro implementazione in azienda. L’Open Manager favorisce la vitalità e la crescita armonica dell’Organizzazione.

La ricerca Open Mood ha messo a fuoco 5 fattori dell’Open Manager, intendendo per fattori un insieme originale di competenze, comportamenti e atteggiamenti che definiscono le caratteristiche del nuovo approccio manageriale. Oggi ragioniamo intorno al quarto e importante fattore: l’INNOVATION PURPOSE.

Come ci ha spiegato il coordinatore della ricerca Paolo Bruttini, questo fattore inquadra il comportamento di un manager che si approccia al business con agilità, ovvero agisce con grande sensibilità rispetto al contesto, alle opportunità e ai vincoli che incontra. Negli attuali contesti VUCA (Volatilità, Incertezza, Complessità e Ambiguità) infatti è frequente dover prendere decisioni continue per sviluppare azioni che consentano di realizzare la strategia dell’azienda, ma anche cogliere delle opportunità che si generano e che non erano preventivabili. Ciò è possibile se il manager è capace di mettere in discussione le idee che ha maturato e muoversi velocemente per rimodulare la sua azione.

Questa capacità di trasformazione riguarda il manager, ma anche l’azienda che nella sua complessità deve possedere una “dynamic capability” ovvero la capacità di evolvere con tutte le sue risorse a fronte di sempre nuove sfide.

Il cluster che abbiamo chiamato Innovation Purpose dunque si caratterizza per 4 competenze fondamentali.

La prima competenza riguarda il fatto che il manager abbia una visione (un dream) del business e, in particolare, che tale visione sia coraggiosa sfidante, in grado  di catalizzare le emozioni organizzative e quelle dei clienti.

La seconda competenza riguarda la capacità di agire velocemente. Come i colossi high tech nati con la sintassi delle lean startup della Silicon Valley ci hanno mostrato, è fondamentale “sbagliare più velocemente possibile”. L’innovazione segue il ritmo della continua alternanza dreaming-execution-learning. È il mercato a dire cosa funziona e bisogna imparare a lavorare intensamente raggiungendo l’eccellenza attraverso il fallimento continuo.

La terza competenza per un manager è accettare i propri limiti come una variabile da gestire e mettersi in discussione. Il manager deve sapere che ha molte meno certezze rispetto al passato e deve fare un cambio radicale di mindset: accettare di non “sapere” e non “sapere fare”. Saranno le sperimentazioni  e più ancora i clienti e i collaboratori a indicargli la strada migliore.

L’ultima competenza che la Ricerca ha mostrato è la propensione a cercare l’armonia nel team e non il conflitto. Poiché siamo in un contesto di innovazione, il management riduce al minimo gli aspetti transazionali che amplificano i conflitti. Al contrario crea un clima e una cultura di gruppo che include tutti nel far crescere il sogno. Questo produce un più alto senso di appartenenza e il senso di avere un destino comune.

Abbiamo discusso di tutto questo con Mariacristina Gherpelli, Presidente e CEO di GHEPI, Davide Ippolito, Cofounder e ceo di Zwan e Reputation Rating, Ilenia Montanari, HR Manager presso Tecomec, Angelo Rigillo, Head of Open innovation, Hubs and startups di Enel, Francesco Varanini. Direttore MIT Sloan Management Review Italia e Presidente Assoetica.

 

Marco Minghetti. Nel quadro attuale si moltiplicano le opportunità per le aziende: partnership, mercati, tecnologie sembrano indicare che vi siano tante strade percorribili. Eppure, e proprio per questo, vi è il rischio di disperdere le energie rincorrendo opportunità apparenti e fallire sì, senza aver prodotto apprendimento. Come è possibile allora conciliare il bisogno di un’impresa di cercare nuove strade e quello di esercitare la prudenza strategica (capacità negativa)?

Francesco Varanini. Il punto di partenza è l’innovazione.

Credo che serva dirsi oggi che l’innovazione senza tradizione non ha senso. Abbiamo visto come la corsa al progresso abbia bisogno di un bilanciamento, come vediamo nei discorsi sulla sostenibilità, ricordando momenti fondamentali della cultura occidentale. Di fronte all’arroganza prometeica che si manifesta con la hybris, se violiamo dei ritmi biologici, ritmi della vita, della natura, riceviamo in risposta una nemesi. Quindi, l’innovazione è un concetto da interpretare alla luce della saggezza e della soggettività del manager. L’aspetto a cui fare attenzione credo sia quello di non accettare l’innovazione passivamente. Nei nostri tempi moderni, in cui s’inseriscono i tempi modernissimi del digitale, noi abbiamo accettato una certa idea di progresso. Viviamo una situazione in cui godiamo di benefici, perché la tecnologia ha generato molta ricchezza, ha sprigionato la produttività a partire dal 1800. Però, d’altro canto, non a caso oggi parliamo di sostenibilità. Quindi, accettare passivamente l’innovazione vuol dire accettare l’esistenza di una deriva darwiniana positivista, che ci trascina in avanti togliendoci di dosso la responsabilità. Qui arriviamo al punto centrale della domanda, perché l’Innovazione noi la vediamo oggi attraverso il filtro di tecnologie e mezzi già costruiti. Queste tecnologie portano in sé un progetto, che non necessariamente è di per sé buono. Il progetto di conoscere noi stessi essere umani attraverso i nostri gemelli digitali, secondo me porta molti problemi con sé, sia perché non sappiamo quanti sensori ci siamo messi addosso per costruire il nostro gemello digitale, sia perché c’è di mezzo un modello costruito da qualcosa di diverso da noi. Da qui si arriva al Metaverso e alle altre piattaforme digitali. La prima domanda ci porta a dire che qualsiasi innovazione cerchiamo, il leader deve innanzitutto sapere e cercare di interrogarsi con la propria consapevolezza sull’utilità di quell’innovazione, cosa vuol dire per lui, cosa vuol dire per gli altri, con quali mezzi la si interpreta. Perciò, credo ci sia un grande incremento di responsabilità nello scegliere le modalità, frutto di tecniche molto spesso già costruite lontano da noi, frutto di un progetto altrui.

Chiudo con una domanda: “quale innovazione subiamo involontariamente?”. Magari una certa tecnologia ha una deriva interna più forte dell’innovazione che vorremmo portare noi come manager. Dal momento che sono stati costruiti e progettati da qualcuno, i mezzi digitali sono portatori di un progetto, di una forza intrinseca e, talvolta, cerchiamo di usare degli strumenti andando contro il progetto che ne ha portato alla costruzione. Ma siamo più forti noi o siamo condizionati dal mezzo? Ecco, secondo me questi sono aspetti che ci conviene esercitare, perché più ci viene presentata la prospettiva di innovazione e di progresso come soluzione ai problemi della leadership, più dobbiamo dubitare che ci sia qualche trucco e più dovremmo conoscere il progetto implicito nelle tecnologie che ci vengono proposte, visto che non le abbiamo progettate noi. C’è una tendenza di molti, anche con migliori intenzioni, profeti del nuovo, del digitale, dell’innovazione, che dicono: “bisogna spargere fiducia”. Sono d’accordo sul bisogno di spargere fiducia sociale, ma non rispetto a tutte le tecnologie. Quello di cui mi sono convinto è che più qualcuno sparge fiducia, più c’è bisogno di qualcuno che sparga cautela.

Ilenia Montanari. Anche se la prudenza è un aspetto importante, Francesco, la velocità è una necessità imprescindibile, specie in questo momento. Un elemento importante allora, è mettere in piedi le competenze e i processi per essere veloci e capire se si è sulla buona strada. Parliamo della capacità di analisi e diagnosi anche su progetti non chiari.

L’analisi dei dati è un aspetto più cognitivo e legato all’” hardware gestionale” ma consente un potere decisionale maggiore. Io sono nel settore metalmeccanico ed è un settore con evoluzioni velocissime e spesso discontinue nell’attuale mercato. Si prendono continuamente decisioni e poi si torna magari indietro, prendendo decisioni impensabili anche rispetto alle tecnologie che sono velocemente introdotte e altrettanto velocemente si modificano e modificano tutti gli aspetti aziendali (industry 4.0). La prudenza non è così attuale, ma la velocità è possibile solo attraverso strumenti, informazioni e tecnologie che ci supportano.

Davide Ippolito. Forse il modo migliore per trovare il giusto mix fra prudenza e coraggio è fare riferimento a un fattore che, paradossalmente, spesso si perde di vista all’interno di un’azienda: il proprio focus. Le innovazioni funzionano solo quando tre elementi sono ben focalizzati all’interno di un’organizzazione ovvero: avere ben chiaro in mente il proprio scopo, avere consapevolezza del problema che si sta risolvendo, tenere in considerazione le necessità dei propri clienti e il loro cambiamento nel tempo.

L’innovazione, anche all’interno di un’azienda consolidata, avviene a mio avviso, sempre, attraverso la risposta a un’esigenza insoddisfatta, alla risoluzione di un problema, all’utilizzo di un’opportunità, al fornire un modo migliore e più efficace di fare qualcosa o nel facilitare il raggiungimento di un obiettivo. Di sicuro, se si inizia a innovare senza aver definito prima il perché, il rischio di dispersione o di fallimento sarà molto alto.

Citando il mantra che insegnano in Silicon Valley, e nelle principali università americane che parlano di innovazione e sviluppo, il segreto resta sempre quello di avere ben chiaro in mente il problema che ci si propone di risolvere o il bisogno insoddisfatto che si vuole colmare. Capita molto spesso che si resti concentrati sulla propria idea o sull’idealizzazione del concetto di innovazione. In realtà l’unica cosa che conta è restare in contatto con il problema. Più tempo si passa con il problema e meglio è, più tempo si passa a scoprire e ad analizzare tutti i modi alternativi in cui quel problema viene già risolto, e in che modo quel problema può essere risolto in maniera differente e più efficace per i potenziali clienti, più saranno le possibilità di portare cambiamenti e innovazione all’interno delle aziende. Il processo di innovazione a mio avviso è tutto in questa semplice formula, per certi versi banale.

Questo però può avvenire solo se si conosce bene e si ha ben chiaro il proprio target. Le innovazioni funzionano quando vengono adottate dalle persone, solo se le vogliono e capiscono come usarle. Per questo per non disperdere energie preziose uno degli aspetti fondamentali che aiuta è raccogliere informazioni continue sui propri clienti. Più conosciamo i nostri clienti, più comprendiamo le loro esigenze e maggiore è la capacità di anticipare i bisogni e creare innovazione. Anche la capacità negativa di certo è collegata al successo degli innovatori, perché permette di mantenere aperte le domande senza giungere a risposte, ma solo se collegata ad una conoscenza precisa del proprio target.

Mariacristina Gherpelli. Sono d’accordo. Continuando nel ragionamento paradossale proposto da Davide, oggi per mantenere il focus all’interno è necessario aprirsi all’esterno. Noi siamo una azienda medio piccola ma, ad esempio, partecipiamo a progetti europei di ricerca da 20 anni. Sono convinta che sia necessario guardare oltre i confini dell’azienda e credo che lo sia ancor più per le piccole che per le grandi imprese. Non avere collaborazioni esterne è molto limitante, per le piccole imprese, in quanto il loro orizzonte è di norma più ristretto. Questa concezione è un tratto storico della nostra azienda come la continuità della formazione, esterna e interna, per favorire la partecipazione attiva dei collaboratori ai processi aziendali e motivare le persone alla crescita professionale.

Tornando alla domanda iniziale di Marco, serve un set di competenze che riguardano anche l’innovazione organizzativa perché in azienda non serve solo fare ricerca e sviluppo, ovvero innovazione tecnica-tecnologica. È importante poter contare su un mindset innovativo tra i responsabili aziendali e favorire la partecipazione a network esterni. Abbiamo cercato di coniugare la necessità di innovazione, minimizzando eventuali fallimenti, attraverso lo sviluppo di competenze interne e la collaborazione con esperti esterni nell’ambito del business design e del design thinking. Il primo progetto è nato con l’obiettivo di potenziare l’area commerciale che, operando in conto terzi, era piuttosto sottodimensionata. Il progetto è iniziato dall’analisi della customer value proposition, ridisegnando flussi informativi ed attività con il coinvolgimento e la partecipazione dei collaboratori. Con questa metodologia abbiamo anche attivato strumenti di gestione semplici ma che hanno generato efficienze interne e miglioramenti dei nostri processi correlati alle esigenze dei clienti. Cosa c’è di interessante? Il fatto che nel design thinking uno step di grande rilievo è la prototipazione, ovvero la sperimentazione dell’idea prima della sua implementazione effettiva. Prototipare non solo un prodotto, ma anche un processo o un servizio, facilita un approccio agile all’innovazione e abbina la prudenza e l’innovazione: senza prendere grossi rischi, non buttandosi nel vuoto ovvero limitando il più possibile onerosi fallimenti.

Angelo Rigillo. In Enel adottiamo una pratica, quella di fare il più possibile cose che abilitino l’ottenimento di risultati coerenti con il piano strategico. Le attività innovative devono risolvere in primis problemi di business o di processo preventivamente identificati, così da suppportare il raggiungimento degli obbiettivi comunicati agli investitori. A valle della raccolta dei “need” di innovazione, processo che siamo riusciti a rendere continuativo perché completamente digitalizzato, si decide quali strumenti di Open Innovation attivare per ciascuno di esso al fine di ricercare  potenziali soluzioni innovative. Le soluzioni migliori daranno vita a dei progetti test (proof of concept). Oltre all’innovazione incrementale però, che è quella che con maggiore probabilità deriva dal processo appena descritto, cerchiamo di dedicarci anche alla ricerca di innovazioni di frontiera, che escono un po’ dai nostri perimetri usuali, e lo facciamo dedicando almeno il 15% del nostro tempo e delle nostre risorse all’esplorazione, al fine di ampliare le nostre prospettive ed eventualmente trovare nuovi modelli di business o nuove applicazioni che potrebbero essere disruptive nel medio/lungo termine. Si tratta di quella innovazione in più, che va oltre il business as usual. Ad esempio possiamo dire di essere entrati a pieno titolo nella space economy attraverso due accordi di co-innovazione, con Thales Alenia Space  e con ESA (l’Agenzia Spaziale Europea). Con Thales ed ASI abbiamo  studiato soluzioni per consentire la vita dell’uomo sulla luna post 2025. Come è nata? Avevamo realizzato una partnership per esplorare le soluzioni space utilizzabili da Enel, e il partner, dopo un paio di anni di collaborazione ed essendosi reso conto delle competenze dei nostri colleghi, ci ha proposto di contribuire con  il nostro know how per pensare a come generare e gestire energia sul suolo lunare.

Non c’è quindi una scelta estemporanea che genera l’innovazione, ma è preferibile essere innanzitutto aderenti ai bisogni e rispondere a quelli, impegnandosi anche a destinare una percentuale minima ma non trascurabile delle proprie risorse ad altri progetti, più di frontiera, pensati per anticipare il futuro.

Le innovazioni che selezioniamo e testiamo vengono monitorate lungo tutto il processo così da essere certi che se ne possa trarre il massimo vantaggio. Con il mio team, abbiamo creato un innovation process monitoring tool con cui siamo in grado di monitorare tutto, dall’inserimento del need alle soluzioni che vanno in scaleup nel business. Tra gli strumenti di open innovation abbiamo il portale di crowdsourcing openinnovability.com, le Internal innovation community, la collaborazione con startup, medie e grandi imprese. Infatti, ci siamo dotati di 10 innovation hub in giro per il mondo dal Sudamerica, Nord America all’Europa a Israele. Gli Innovation hub manutengono l’ecosistema innovativo in cui sono immersi, condividono i bisogni, e raccolgono potenziali soluzioni dalle startup e le mettono in contatto con le nostre linee di business. È naturale vi sia una quota molto significativa di progetti che falliscono, altrimenti non sarebbero innovativi, ma è altrettanto naturale che raramente si vadano a riutilizzare soluzioni a suo tempo messe in stand by o che non avevano dato gli esiti sperati sebbene promettenti, perché l’evoluzione delle tecnologie e dei modelli di business è molto rapida ed è molto più efficace riutilizzare l’ecosistema per raccogliere novità piuttosto che investire tempo su vecchie soluzioni. In generale l’innovazione in Enel non è R&D ma “Open Innovation”, perché facciamo leva su un ecosistema diffuso di competenze e risorse, dando in cambio i nostri bisogni e il nostro know how, utilissimo per qualunque azienda innovatrice che voglia essere valutata da un’azienda energetica leader nel mondo.

Marco Minghetti. Da sempre si è guardato al management nella prospettiva della leadership. Si è considerato che il manager che è anche un leader è più credibile e dunque più efficace. Tra i requisiti che definiscono la leadership vi è la capacità di sapere: saper rispondere agli interrogativi dei collaboratori, dare loro certezze, metterli nelle condizioni di operare. Ma se in futuro la leadership del sapere si andrà indebolendo, quali altre dimensioni acquisiranno rilevanza per connotare le leadership del manager?

Ilenia Montanari. Io penso ci siano due elementi. La conoscenza è sì importante, ma basta quella sufficiente per decidere. La conoscenza della tecnologia e dei processi è importante per i manager di linea e per HR. Anche chi sta in staff deve conoscere il business per poterlo supportare nel modo migliore. Basta, tuttavia, il sapere sufficiente per decidere, non serve sempre il sapere dell’esperto. Bisogna fare affidamento anche sui saperi del team e la loro condivisione . Il Manager deve avere la capacità di saper rispondere, ma deve anche mettere i collaboratori nella condizione di andare verso l’obiettivo con poche informazioni, cercando in modo autonomo le informazioni e sviluppando fortemente la capacità di delega. Specie laddove si è orientati al compito anche in fabbrica ma non basta più. Poiché all’operaio spetta gestire fattori complessi come la robotica, in autonomia. Allora i capi devono aiutare i collaboratori ad avere capacità sufficienti per decidere in autonomia ed essere a disposizione per la soluzione dei problemi. Il sapere serve sì, quello necessario e sufficiente, non tutto il sapere.

È bello nei manager avere sete di sapere, ma questo però distoglie dal vero obiettivo di essere alla velocità giusta e far crescere i collaboratori in termini di capacità decisionali e di capacità di vivere nell’incertezza. Il super competente se il collaboratore sbaglia è inorridito, invece deve essere al servizio del collaboratore

Si collega anche alla terza competenza dell’Innovation Purpose, ovvero mettersi in discussione. Il sapere a volte scatena meccanismi che riducono la capacità di mettersi in discussione. Bisogna saper dire “non lo so”, ma raccogliere le informazioni che servono per muoversi ed agire. Sono fautrice, da sempre, che bisogna avere il sapere opportuno.

Mariacristina Gherpelli. Effettivamente siamo abituati a considerare la competenza tecnica un grande punto di forza. Ma, come ha osservato Ilenia, le condizioni stanno cambiando.  Abbiamo persone di grande valore sul lato tecnico, ma notevoli debolezze nei rapporti interpersonali e nella gestione dei collaboratori. Per sviluppare le soft skills, cinque anni fa abbiamo avviato percorsi di coaching perché credo che sia molto importante avere consapevolezza dei meccanismi che ci guidano e ci influenzano a livello psicologico.

Ho sperimentato per prima questi interventi, poi ho coinvolto il team dei responsabili di area e in seguito i responsabili intermedi e gli impiegati, con ottimi riscontri. Questa evoluzione sulle soft skills è ineludibile in quanto i manager, un tempo depositari di un rilevante sapere verticale, con la complessità dei processi di Industria 4.0 e della digitalizzazione, non potranno più disporre di tutte le competenze specialistiche richieste nella loro area operativa. Avranno invece collaboratori sempre più competenti di loro in ambiti molto specialistici. Per questo dovranno essere in grado di gestire i collaboratori tramite processi di delega basati sulla fiducia, l’autonomia, il coinvolgimento, la motivazione e la responsabilizzazione.

Di recente abbiamo iniziato un percorso sull’intelligenza emotiva affinché le persone acquisiscano maggiore empatia ed autoconsapevolezza, migliorino la capacità di relazionarsi con gli altri ed il proprio stile di comunicazione. Problemi seri sono spesso dovuti a banali errori comunicativi e questo non è accettabile. Per questo è fondamentale la transizione da manager, esperto tecnico, a leader, facilitatore relazionale. Questo passaggio sarà determinante per quei manager, soprattutto portatori di competenze tecniche tradizionali, che desiderano mantenere nel tempo la loro funzione di rilievo in azienda. Parlando di capacità di sapere direi che si possa pensare all’evoluzione dal saper fare al saper essere come riconoscimento di una leadership credibile ed efficace.

Angelo Rigillo. Per quanto mi riguarda il manager è colui che riesce a far lavorare al meglio le persone. Per poterle far lavorare al meglio deve risolvere loro i problemi. Deve avere sì, spesso, una conoscenza tecnica, ma anche e soprattutto, di processo, di relazione e organizzativa. Credo che in una grande azienda per chi lavora in aree non tecniche, il 90% dei problemi siano risolvibili con la conoscenza dell’organizzazione e delle responsabilità. Moltissime volte i team lavorano male perché loro e i loro manager non conoscono l’azienda, la struttura organizzativa e non la fanno funzionare come dovrebbero. È fondamentale conoscere le leve giuste da attivare, così da poter essere veloci e puntuali nella soluzione dei problemi e del raggiungimento degli obiettivi. Bisogna mettere da parte il “preservare il perimetro”, ma essere egoisti nel liberarsi di attività non di valore e molto generosi nel condividere i bisogni. Alle persone che lavorano con me dico che se hai un problema, per prima cosa devi capire se è un problema tuo oppure un problema che un collega ti deve risolvere.

Quindi non ci vuole paura a condividere i bisogni, non avere paura di sembrare debole: le carenze se le hai devi colmarle e questo è sacrosanto. Se invece non si tratta di una tua carenza, per poter andare oltre devi condividere e chiedere supporto.

Un’altra cosa importante è che bisogna essere in grado di saper usare strumenti digitali non come sostituto della relazione, ma come modalità per potenziare la relazione. Ad esempio, l’email è stata il sostituto della relazione e forse lo è tutt’ora. Probabilmente con il Metaverso supereremo questo, perché l’interazione via avatar o realtà aumentata ricrea la relazione interpersonale che fa vedere meglio problemi e soluzioni, migliora la collaborazione. Se si riesce a tornare alla relazione è più difficile che si sviluppino i conflitti, a beneficio di un aumento della cooperazione.

Francesco Varanini. Proviamo ad allargare il ragionamento. Rispetto a questo momento, la filosofia scolastica e la storia della tecnica possono insegnarci molto. Faccio riferimento, in particolare, a due libri degli anni ’60: “Il gesto e la parola” di Leroi-Gourhan e “Understanding Media” di McLuhan. Entrambi parlano di tecnica. E’ meglio riferirsi alla tecnica che alla tecnologia: quest’ultima è una parola nuova, inventata nel 1800 per subordinare la tecnica a un uso industriale. Ma il concetto di tecnica è più vasto, legato originariamente alla storia umana.

McLuhan usa la parola media, ma per lui questa parola è un sinonimo di tecnica. Sostiene che i media sono “extensions of man”, estensioni dell’uomo, un prolungamento del nostro corpo stando dentro a una cornice di pensiero simbolica e progettuale. Il personal computer è una tipica extension of man, uno strumento progettato per incrementare l’intelletto umano e per espandere l’area della nostra coscienza. Tuttavia, nonostante l’iniziale progetto,  l’estensione dell’uomo, presto il computer si è trasformato in un modello per l’uomo, in uno strumento che ti manda notifiche, ti dice cosa fare, chi sei e quali bias ci sono nella tua testa.

Leroi-Gourhan ha un analogo approccio. Non a caso è allievo di Marcel Mauss, autore negli anni ’30 di un articolo intitolato  “Le tecniche del corpo”: il nostro corpo è il primo strumento che impariamo ad usare. Vi è questa tendenza, questa linea di sviluppo, dove l’uomo, lungo l’arco dell’intera storia umana, diventa uomo, nel senso che raggiunge la posizione eretta, sviluppando un uso specifico delle gambe, delle braccia per fare gesti, della testa, del linguaggio. Questa evoluzione è l’argomento del libro di Leroi-Gourhan, che mette in luce però anche la continuità fra questo processo di umanizzazione e il passaggio e trasferimento delle capacità alla macchina. Anche lo strumento si evolve, si separa dall’uomo: cominciamo usando un bastone, che diventa coltello, ma poi quello che era strumento nelle mani diventa macchina: al posto del coltello il tornio, la fresa. Leroi-Gourhan osserva che la macchina diviene sempre più autonoma, un sé alternativo che fronteggia l’uomo, fino all’Intelligenza Artificiale, di cui Leroi-Gourhan già allora, negli anno ’60, vedeva lucidamente l’avvento. Tant’è che alla fine del libro si interroga su quale spazio può avere l’umanità in questo nuovo scenario. E conclude che, nonostante tutto, possiamo scommettere su di di noi, sul futuro dell’umanità. Sostiene che noi esser umani possiamo immaginare di avere un futuro stando dentro alla nostra storia. Questo riprende esattamente quello che, alla luce della situazione che viviamo, può essere considerato il punto chiave della filosofia scolastica, dove San Tommaso riprende i discorsi dei padri della Chiesa e parla di sinderesi. Sinderesi è la scintilla della coscienza. Ma cosa è la scintilla della coscienza? C’è una frase emblematica che ne riassume il senso, che è anche l’argomento del libro che sto scrivendo e che dice che si può immaginare simbolicamente che le capacità umane siano rappresentabili da delle immagini (ad esempio il leone come simbolo del coraggio), ma può darsi che questa capacità l’uomo non ce l’abbia più. Questo dice a noi oggi che il coraggio ce lo può avere una macchina, la ragione ce la può avere una macchina, perché l’abbiamo copiata e trasferita. Tuttavia, l’essere umano ha la capacità di avere sempre qualcos’altro da offrire, qualcosa che non sappiamo ancora cos’è, ma che ci darà nuovo spazio, ci offrirà una nuova possibilità, un nuovo modo di essere. Questa è la Scintilla della coscienza. È lo stesso concetto di Atman e Braham per gli indiani, è lo spirito, il soffio vitale.

Di fronte al fatto che ormai la tecnica c’è e la natura la abbiamo sempre trasformata, si pensa che quest’ultima sarà sempre più contaminata. Tuttavia, noi abbiamo comunque una responsabilità, che è il rispetto ma anche la difesa attiva della natura. Oggi, quindi, la caratteristica più importante dell’essere umano è la saggezza e non la ragione. Ecco, questa è l’essenza della leadership aperta oggi. Non è un caso che sia stato pubblicato il libro “The Wise Company: How Companies Create Continuous Innovation” di Nonaka e Takeuchi, un volume per me emblematico. La saggezza si configura come valore fondamentale, perché davanti a noi si prefigura un mondo senza fondamenti, dove galleggiamo in un mare di possibilità. Questa è la caratteristica che distingue il leader oggi, questa saggezza, attaccamento, attenzione agli altri, disponibilità all’ignoto, rispetto della natura, scommessa sull’umano anche nei momenti più critici.

Per essere noi stessi in questo mondo ci conviene pensare a come noi determiniamo il nostro sviluppo. Non conta solo la pressione genetica, ma conta anche l’epigenetica, conta la capacità dell’essere umano di curare sé stesso, di svilupparsi, di trovare un proprio equilibrio con la natura, conta l’educazione, conta il non perdere il rapporto con le nostre tradizioni, scoprirci sempre nuovi in contesti via via più esigenti.

C’è un concetto di Heidegger che si traduce in italiano in “gettatezza”, “throwness” in inglese: ci conviene pensarci gettati in un mondo sconosciuto, dove tutti gli strumenti che abbiamo sono vecchi, ma noi possiamo crearne di nuovi. E quindi in questo mondo sconosciuto noi possiamo conoscere. È qui che nasce un atteggiamento di scoperta, di innovazione, innovazione dal punto di vista umano. Heidegger, diceva che non c’è progetto senza auto-progettazione. Quindi, la nostra primaria responsabilità è auto-progettarci, che vuol dire anche scegliere se vogliamo farci contaminare da una macchina.

Ci sono dei testi di Varela in cui lui si racconta da conoscitore di sé stesso, attraverso un atteggiamento frutto della cultura buddista. Lui aveva subito un trapianto di fegato e c’è un articolo scientifico in cui racconta come sente delle sensazioni del suo corpo diverse dopo questo evento. Racconta di come si sia sentito caricato dalla responsabilità della persona che un’ora prima gli aveva donato il fegato da essere umano a essere umano, probabilmente dopo un incidente motociclistico in cui era morto. Racconta il ruolo del medico, che fa questi interventi sul corpo di altri essere umani, chiedendosi che responsabilità c’è dietro, che mondo di essere umani c’è dietro a queste cose. Se ci ricordiamo questo, allora essere leader significa, innanzitutto, essere leader di sé stessi, progettare sé stessi, perché altrimenti il leader non lo puoi fare.  Se non lavori su di te, puoi parlare anche di persone al centro, ma non vuol dire nulla, non serve a nulla. Questa percezione del proprio corpo, del proprio spirito sono elementi importanti dei quali tenere conto per immaginare il modo di essere leader, di essere guida per gli altri.

Davide Ippolito. A proposito di libri, mi è piaciuto molto negli ultimi anni leggere il libro di Bob Iger, ex CEO della Disney, “Lezioni di Leadership Creativa”. Iger dice chiaramante che un bravo leader deve avere una visione ed essere

in sintonia con il suo istinto. Emergono già due nuove dimensioni quindi: istinto e creatività. Ma le dimensioni credo siano diverse e corrispondono a dimensioni non strettamente legate al profitto. Dalla tanta letteratura sull’argomento uscita negli ultimi anni e dalle indicazioni derivanti dalla finanza io ho provato a buttare giù la mia personale lista di 6 dimensioni:

  1. l’ottimismo. È difficile essere leader se si è pessimisti. Nessuno ha voglia di seguire una persona pessimista, non in grado di illuminare la strada. L’ottimismo è contagioso, libera dalle ansie, alimenta l’entusiasmo e mette a proprio agio.
  2. Il coraggio. Senza coraggio non si affrontano le situazioni e non si prendono decisioni. Bisognerebbe sempre avere il coraggio di assumersi dei rischi perché non può esserci innovazione senza l’assunzione di un rischio. Spesso nelle imprese italiane c’è molta indecisione. L’eterno indeciso non fa il bene di nessuno, al contrario rallenta le decisioni comuni e mina l’umore. A volte l’indecisione è strettamente legata al ragionamento diffuso che è meglio non fare nulla piuttosto che fare qualcosa e commettere errori, e forse questo è legato all’idea che abbiamo del fallimento. Da noi l’idea del fallimento è disastrosa. Usiamo la parola “fallito” come insulto. Nei paesi di cultura più anglosassone il fallimento è parte della crescita. Più volte fallisci più esperienza hai. Più volte fallisci meglio è. Bisognerebbe avere quindi più coraggio e velocità di prendere decisioni con il rischio di fallire e sbagliare.
  3. Il Focus. Ci torno su, ma sapere in che punto ci si trova è fondamentale per comunicare esattamente le priorità di quel momento senza disperdere energie. Diventa importante rimanere focalizzati sui problemi, sulle strategie, sullo sviluppo delle attività e sulle sfide da vincere.
  4. La curiosità. Rimanere curiosi vuol dire rimanere aperti verso gli altri e il mondo circostante. La curiosità è un vero e proprio asset da coltivare in quanto ti permette di creare relazioni ed essere aperto verso la novità.
  5. L’onestà e la trasparenza. L’onestà, indispensabile, riguarda sé e gli altri. Se gli altri ti riconoscono l’onestà come valore, si fideranno di te e vorranno costruire con te una cultura sana, che è quanto avvenuto tra Steve Jobs e Iger. L’autenticità e la trasparenza vanno di pari passo con l’onestà.
  6. L’empatia, ovvero la capacità di ascolto nei confronti degli altri. Anche quando si creano prodotti, questi parlano alle persone. Se la finanza mondiale guarda al capitale umano e alla loro gestione, un leader rappresenta l’azienda ed è l’esatta estensione del “guardare oltre il profitto” richiesto da Larry Fink, ceo di Black Rock, nel 2018. Non esiste oggi leadership senza ascolto ed empatia.

Non l’ho citata ma, ovviamente, la competenza resta sempre la dimensione primaria.

Marco Minghetti. La letteratura è molto esplicita nell’indicare che i conflitti sono necessari per costruire una cultura del lavoro di squadra (dare un senso comune all’obiettivo, costruire il metodo di lavoro). Attraverso i conflitti le persone si conoscono e si riconoscono, costruendo l’armonia necessaria per la performance. Tuttavia negli ultimi anni è fortemente aumentato il disagio nelle organizzazioni, dando origine a fenomeni di uscita massiccia nel segno del YOLO (you only live once). Come si possono conciliare queste due dimensioni? Del conflitto come male inevitabile per conoscersi e far crescere il team e il buon clima come dimensione necessaria per tenere i talenti più giovani in azienda?

Mariacristina Gherpelli. Sono in disaccordo sul fatto che il conflitto abbia un ruolo così importante. Il conflitto si innesca perché non abbiamo una personalità robusta, la capacità psicologica di gestire le situazioni critiche e mettiamo in atto comportamenti disfunzionali. Pensiamo al tema generazionale, ovvero alla necessità di integrare, in azienda, personale senior molto esperto e giovani portatori di nuove conoscenze ma inesperti. Il conflitto non è scontato ma diventa inevitabile se le persone non hanno la capacità di relazionarsi in modo positivo ed equilibrato, non fanno leva sui punti di forza, non hanno senso di responsabilità.

Credo che il conflitto sia in parte dovuto anche alla difficoltà di ascoltare perché spesso pensiamo di essere più importanti di altri. L’ascolto invece mette al centro la persona e dimostra interesse per essa, un’ottima base per evitare i conflitti. Come pure cercare di non essere divisivi. Ad esempio, oggi si parla molto di leadership gentile e io sono una grande sostenitrice di questo concetto. Si applica ai giovani, che non sono schiavi del lavoro, danno al lavoro un’importanza diversa. Non sopportano arroganza e soprusi, hanno bisogno di un ambiente confortevole dal punto di vista psicologico. Ma è uno stile gradito anche ai meno giovani perché la gentilezza favorisce un clima aziendale più sereno e vivibile aumentando la qualità della vita lavorativa.

Davide Ippolito. Proverei a formulare il tema in questo modo: l’innovazione è una disobbedienza andata a buon fine. È la storia che ce lo insegna. Pensiamo a Copernico che disobbedisce a Tolomeo lavorando su una teoria che smentiva ogni lavoro del proprio maestro, mettendo per la prima volt il Sole al centro delle orbite degli altri paesi.

L’innovazione non ha una natura, ha una storia. È la storia degli uomini che la realizzano. Sono le persone che fanno la differenza. Il conflitto è necessario alla crescita. La rottura, la discussione, sono l’unica via possibile per la crescita. La cosa importante resta però lo scopo, avere una missione più grande in comune, un obiettivo da raggiungere, è sicuramente la chiave di mediazione e la strada migliore per innovare. Resta valida però la massima di Steve Jobs, non ha senso assumere persone intelligenti e poi dire loro cosa fare. Noi assumiamo persone intelligenti in modo che possano dirci cosa fare.

L’innovazione non consiste nel realizzare un’idea ma nel realizzare quelle idee che avvicinano al raggiungimento di un obiettivo. Tale obiettivo può essere rappresentato dallo sviluppo di nuovi prodotti desiderati dai clienti ma anche da un processo che semplifica la vita dei dipendenti, o ancora un sistema che aiuta a operare in modo più efficace.

Delegare piccoli processi di innovazione a figure più giovani può essere la chiave per trovare soluzioni a cui nessuno aveva pensato. Una cosa che chi lavora in campo accademico può confermare è che ogni nuova generazione cambia il proprio modo di approcciarsi ai problemi. Insomma a mio avviso il conflitto e la conflittualità riescono a generare innovazione se indirizzati a un obiettivo comune più grande, a una visione chiara del business di cui si fa parte e come si proietta nel futuro.

Tutti possono apportare piccoli cambiamenti quotidiani al proprio lavoro e alla propria vita, cambiamenti che possono sommarsi e fare una grande differenza nel raggiungimento di obiettivi personali e professionali.

Ilenia Montanari. A questo proposito vorrei osservare che parliamo spesso delle dimissioni, ma questo è un periodo anche di grandi assunzioni. C’è grande movimento. Il tema è sui tavoli HR da tanti anni. Il conflitto e il buon clima non sempre sono dimensioni contrapposte. Se il conflitto non è inutile ma serve per costruire il gruppo, i giovani lo vivono bene. Il manager deve gestire bene questo passaggio, non deve evitare il conflitto, ma essere in grado di governare il conflitto spiegando il senso di quello che sta succedendo.

Il conflitto è funzionale per costruire il gruppo, da sempre. I giovani vanno via perché i capi non sono in grado di gestire la situazione. Non vanno via per il conflitto in sé, se capiscono che in modo graduale può servire. I giovani chiedono di capire il senso per essere partecipanti, vogliono buttarsi nella mischia. Bisogna avere il coraggio di mollare la presa verso i giovani e chiedere loro, quali sono gli approcci nuovi per permettere di confrontarsi, negoziare su posizioni diverse avendo l’obiettivo chiaro. Certamente serve un buon clima, ma questo non significa che non ci possano esser posizioni diverse. Se lo si narra esplicitamente i giovani trovano il senso di quello che stanno vivendo, se sono impegnati in un progetto il conflitto diventa un negoziato, quindi ha un senso: il manager deve essere in grado di spiegare tutto questo. Il capo deve anche accettare che le regole siano cambiate per le ultime generazioni. Si parla di leadership gentile ma questo non basta: bisogna trovare un modo per coinvolgere giovani e senior che non si sentono più parte dell’azienda. Dobbiamo riprendere anche il tema dei colleghi senior.  Creare situazioni ibride in cui giovani e senior possano collaborare costruttivamente anche attraverso un confronto

I giovani scappano ma gli altri, i senior, ce li abbiamo e vanno motivati.

La differenza rispetto a temi noti da anni è che oggi le persone, di fronte a temi come questi ci chiedono che si diano risposte concrete, affinché l’organizzazione funzioni. Prima si faceva molto sofismo e adesso questi temi devono essere affrontati perché non c’è più il mito del posto fisso ma si cercano organizzazioni in cui stare bene e crescere. Se non si trovano si cambia.

Angelo Rigillo. Provo a rispondere alla sollecitazione con un esempio. Quando abbiamo attivato nella mia azienda lo smartworking alcuni miei colleghi temevano che i collaboratori avrebbero approfittato dell’occasione per lavorare di meno.  Io ho detto che innanzitutto questo lo si sarebbe dovuto gestire come un problema del manager, poiché è lui a dover capire chi ha davanti. Deve abbandonare la smania di controllo. Se il patto capo collaboratore è sano e aperto, il collaboratore sarà sincero fino al punto di dichiarare il proprio carico di lavoro e indicare dunque la propria disponibilità o meno di farsi carico di altre attività.

Invece le persone talvolta sono disallineate rispetto ai valori, e le aziende stesse potrebbero dichiarare determinati valori ma praticarne altri. In futuro le aziende dovranno essere estremamente attente alle necessità personali dei collaboratori. Poi c’è il concetto di solidarietà inter aziendale che si genera durante momenti di necessità. Ragionando per assurdo: cosa succederebbe se si riducesse dall’oggi al domani del 30% il numero di persone in azienda? Che le persone incomincerebbero a chiedere aiuto, a collaborare e a dedicarsi solo alle attività di valore. Si farebbero più economie di scala, meno liturgie, meno versioni dei documenti, etc. L’azienda al tempo stesso e il management, per evitare che si generi stress, dovrebbe accettare che si lavori solo sulle attività davvero fondamentali e a valore aggiunto.

Lo stesso smartworking collocando i collaboratori a casa, ha cambiato la relazione delle persone con il lavoro. I manager se ne sono accorti e hanno rimodulato le richieste, focalizzandosi di più sulle cose che producono valore e che consentono di essere valutate in una gestione per obiettivi.

Francesco Varanini. Giusto ieri leggevo i risultati di una ricerca che riguarda gli atteggiamenti degli italiani di fronte al concetto di pace. Dalla tradizione degli studi di Fornari sulla guerra vi è una delle principali collaboratrici di Fornari, Laura Frontori, una psicoanalista che aveva inventato un metodo nelle ricerche di mercato che si chiama test di trasformazione ludico-onirico, secondo cui attraverso immagini simboliche si può descrivere il nostro vissuto profondo.

Allora, da questa ricerca emerge che gli italiani hanno una immagine eccezionalmente bella della pace, la sanno descrivere bene, la sanno raccontare, scelgono esempi di animali come la rondine che vola nel cielo. Però, poi, se si analizzano e si raggruppano le risposte si scopre una cosa: l’80% degli italiani ha delle bellissime immagini della pace, adulte ma autoreferenziali, che esprimono il “mi godo quello che c’è”, oppure immagini infantili, protettive, del tipo “me ne sto sotto la coperta calda”. Solo il 20% propone un’idea di pace in cui si rinuncia anche a un po’ del proprio godimento per poter mantenere la pace.

Quindi, questo ci comunica, innanzitutto, che dietro c’è una cultura. Ragionare sull’Open Management in Italia implica cose che non necessariamente sono implicate in paesi differenti, non solo lontani da noi come gli Stati Uniti, ma anche più semplicemente già in Spagna e Francia. La questione del come si vive il ruolo di leader e di come si gestiscono i conflitti ha a che fare con questo tipo di sfondo, perché noi stessi siamo calati in questa cultura. Per cui, per prima cosa, dobbiamo stare attenti a fare appello a quel 20% che porta avanti un senso di responsabilità, che da personale diventa sociale, di cittadinanza attiva. E forse, la capacità di essere Open Mangement sta proprio in quel 20%.

Marco Minghetti. L’Open manager caratterizzato da Innovation Purpose è particolarmente sensibile al contesto. E negli ultimi mesi, dopo l’annuncio di Zuckerberg di cambiare il nome di Facebook  in Meta, siamo nel pieno del cosiddetto Meta-moment: il  Metaverso è al centro di discussioni ed iniziative di ogni tipo. Partendo dall’assunto che per Metaverso si intende un insieme di tecnologie che vanno dagli strumenti per creare realtà immersive e interattive (Realtà Virtuale, Aumentata, eccetera) a strumenti di pagamento digitali evoluti (Blockchain, Nft, eccetera), che ruolo avrà il Metaverso nell’organizzazione aziendale e nel lavoro? Come sarà la nuova Leadership, innovativa e sperimentale, chiamata a governare i nuovi (meta)io, ovvero i soggetti che andranno a popolare questa dimensione meta del mondo?

Angelo Rigillo. Il Metaverso che interessa a noi non è la virtualizzazione come la intende Facebook. Ci sembra più interessante il Metaverso in cui reale e digitale si aiutano vicendevolmente. Il Metaverso è un range che va dall’augmented reality alla virtual reality, e che consentirà di prendere le decisioni in modo più efficace e di migliorare la safety, la produttività delle persone, il benessere delle persone. Alcune attività che prevedevano lo scambio di mail per la condivisione dei problemi posso essere ripensate nel Metaverso. Ad es.  se c’è una “cricca” [crepa, NdR] sul pilone di un ponte, i tecnici si consultano come se tutti fossero lì sul posto e potessero esaminare la situazione dal vivo. In 5 minuti strutturisti, ingegneri gestionali, responsabili di budgeting e tecnici di cantiere potrebbero prendere decisioni che, con senza il supporto di una realtà digitalizzata, richiederebbero giorni per essere prese.

Condivido quello che intende Microsoft per Metaverso : una tecnologia che prevede ad esempio un avatar che parla allo stesso tavolo in virtuale con una persona reale che indossa il visore e un’altra che è lì in forma olografica.

Avrà un enorme impatto sulla formazione. Con il Metaverso il collega esperto prima di andare in pensione potrà trasferire al digitale le proprie conoscenze.  Quando il nuovo collega avvicinerà il device, potrà attivare spiegazioni di quello che ha davanti. Sarà un download di competenze di altri che sono venuti prima.

Il manager dovrà conoscere gli strumenti e farli conoscere ai suoi collaboratori, perché bisogna uscire dalla logica dell’asimmetria tra manager e collaboratore. Il manager è manager per competenze certamente e per capacità, ma anche per formazione, per relazioni ed anche, perché no, per un pizzico di buona sorte, ma non di certo perché è più intelligente dei propri collaboratori. Mantenere coi collaboratori l’asimmetria non sarà più sostenibile. Dovremo, sfruttare il più possibile le competenze dei collaboratori, il pensiero laterale, la capacità di fare sintesi e portare avanti le idee discusse.

Le aziende come le nostre useranno e già usano il Metaverso come un insieme di tecnologie che fanno aumentare l’efficacia del lavoro e la sicurezza delle persone

Davide Ippolito. Più in generale, Angelo, possiamo affermare che le nuove tecnologie, nel loro complesso, stanno cambiando sia il nostro lavoro che la nostra vita personale. Dai social media, che hanno cambiato il modo di comunicare con clienti, amici, colleghi e familiari, al modo di fare acquisti.

Il ritmo dello sviluppo tecnologico non accenna a rallentare. Tutto quello che oggi diamo per scontato – il lavoro, le competenze necessarie, lo stile di vita che conduciamo – cambia e si rinnova ad un ritmo sempre più veloce, oggi è stimato essere ogni cinque anni. Questo significa che, per poter crescere e andare avanti, anche noi dobbiamo cambiare. Costantemente.

Così come un personale trainer cambia le abitudini di un atleta al variare del peso, della massa muscolare, dell’ altitudine e dell’età, così dobbiamo dimenticare i nostri piani e le nostre strategie e crearne di nuovi, senza ripetere le stesse attività. E, come con qualsiasi allenamento, il più grande passo avanti è semplicemente provare.

Da quando Facebook ha dato il via al suo nuovo grande progetto Meta, tutte le grandi aziende che si occupano di intrattenimento hanno, o meglio, stanno cercando di percorrere la stessa strada. Stanno cercando di capire il modo migliore per posizionarsi in questa nuova dimensione ancora incerta ma estremamente allettante. Rubando le parole dello storico della Stanford University Leslie Berlin

“Cambiando gli strumenti si cambia il contenuto”. Io credo che non è prevedibile cosa sarà realmente il Metaverso e come impatterà sulla nostra vita e sul mondo del business. Sono convinto solo del fatto che se ragioniamo continuando a pensare a questa rivoluzione con la mentalità attuale, con il nostro modo di rapportarci ai problemi, rischiamo di fare come con il world wide web. Nel 1995 si diceva che il web fosse destinato all’estinzione. Nessuno aveva capito come questa cosa potesse cambiare le nostre vite. Si ragionava provando a ragionare con gli schemi che conoscevamo già. Sono serviti dei ragazzini di 18-20 per implementare tutte le grandi innovazioni che hanno dato vita al web 2.0 e hanno rivoluzionato la nostra vita.

Non credo quindi, per mia opinione personale, che ci trasferiremo nel Metaverso. Credo che si troveranno delle reali forme di interazione tra reale e meta nella definizione di esperienze di brand. In tal senso il progetto più interessante mi sembra proprio quello della Disney.

Disney, a differenza di Facebook, non ha intenzione di costruire un proprio metaverso ma piuttosto di creare un ponte, un collegamento che unisca il mondo fisico con quello digitale.

L’obiettivo è quello di collegare gli spazi fisici, cioè i loro storici parchi divertimento, con i servizi digitali che già offrono, come Disney+, il servizio di navigazione dei parchi dell’app Disneyland o agli ambienti virtuali che saranno man mano creati su specifici personaggi o progetti.

L’amministratore delegato della Disney, Bob Chapek, ha infatti definito il Metaverso come una “terza tela”. Questo mi sembra l’atteggiamento più saggio. Una nuova dimensione per completare un’esperienza.

Io personalmente quando faccio esperimenti su tecnologie nuove e dirompenti preferisco affidare la leadership di progetto a ragazzi molto giovani, magari ancora universitari. Unendo la loro capacità di visione a un senior che prova a portare quelle soluzioni nel mondo produttivo si ottengono a volte risultati straordinari.

Francesco Varanini. Il Metaverso è un trend commerciale esistente, come quello di Zuckenberg o gli altri citati fin qui, ma con una motivazione molto più profonda. Si tratta di una delle conseguenze avanzate, ma inevitabili, di una certa direzione di sviluppo, che è quella dell’innovazione intesa come deriva darwiniana, come costruzione di un mondo che l’essere umano si trova a dover subire, come cosa fatale e inevitabile.

Noi dovremo sempre abituarci a vivere in un mondo ostile o ignoto, dovremo sempre farlo con coscienza nel Metaverso.

Tuttavia, credo che abbiamo il diritto e il dovere di riflettere sulla possibilità di frenare questa deriva insensata e pericolosa. Di fronte a queste scelte tecnologiche, infatti, ritengo ci siano tre aspetti di cautela da considerare: il primo è rispetto al tempo, non dire “ormai è troppo tardi” o “ce ne occuperemo domani”. La seconda è la tendenza a pensare che se ne deve occupare qualcuno altro. In questo caso, ad esempio, il tecnico potrebbe dire che se ne deve occupare il politico e, quindi, come tecnici si sviluppa il Metaverso senza pensare alle implicazioni, perché se ne occuperà qualcun altro, sarà lo Stato a fare leggi, quando poi non può nemmeno farle sulle piattaforme esistenti. Un tecnico dovrebbe dire, secondo me, “rispetto a questo mi fermo e penso”. La terza, infine, è non nascondere il male dietro al bene. Il bene nel Metaverso può essere la nascita di un nuovo mercato, nuovi sviluppi delle neuroscienze, si può dire “ma io con il Metaverso posso aiutare una persona con una malattia neurale”, ma intanto viene costruita anche una macchina pericolosissima per altri esseri umani.

C’è un libro degli anni ‘60, un classico della sociologia di un filone che si potrebbe chiamare integrazionismo simbolico, in cui si parla della costruzione della società come viene vista dagli esseri umani, una tradizione post etnografica di due sociologi della conoscenza e teologi Berger e Luckmann, in italiano tradotto “La realtà come costruzione sociale”, ma in inglese “La costruzione sociale della realtà”, che non è la stessa cosa. Ecco, il Metaverso è la distruzione sociale della realtà. La realtà è frutto della interazionismo simbolico, mentre il Metaverso è l’ultimo dei gemelli digitali. Con questo si vuole far sostituire la realtà che emerge dall’interazione (anche se viziata dai mezzi digitali) con una realtà molto più artificiale, in cui siamo sostituiti nella relazione con un avatar che non avremmo mai costruito da soli. Quindi, in questo modo non è stata migliorata la relazione, ma è stata distrutta. Siamo stati costretti a indossare un vestito che ci imbalsama, che ci allontana da noi stessi. Io sono appassionato di tecnologie, ma di fronte a tanti che spargono fiducia io penso che di fronte a questo sia opportuno spargere cautela, perché in quel nuovo mercato nascente poi noi ci dovremo abitare.

Ilenia Montanari. Io ho un’estrazione HR in ambito sviluppo e credo sia importante per noi manager ed HR tenere in considerazione il Metaverso, capire quali dimensioni ci sono, in questa nuova realtà. Molti ancora non sanno bene cosa sia il Metaverso, ma ce lo troveremo nel business tra poco, come sta già accadendo nella moda. Ad esempio, come stanno già sperimentando le Università, bisogna costruire spazi e prodotti adeguati al Metaverso.

La formazione va ripensata anche utilizzando questa prospettiva. Va tenuto in considerazione che sarà una realtà sempre più pervasiva, non solo nel business, ma nei sistemi di apprendimento e di sviluppo oltre che nei sistemi sociali. Ad esempio, per far conoscere l’azienda ai candidati, oppure per prevedere sistemi di apprendimento integrati che permettano ai dipendenti di allenare capacità e competenze in modo individuale e collettivo. Il Metaverso lo permette quando si lanciano progetti: bisogna ragionare insieme e prendere in considerazione l’impatto sul collettivo. L’Open Manager dovrà sicuramente fare i conti con l’evoluzione sociale e collettiva che stiamo già vivendo trovando il coraggio anche emotivo per guidarla.

Mariacristina Gherpelli. Vero, tuttavia sembra quasi che un’ondata di cambiamenti così profondi, da spazzare via quello che abbiamo fatto fino ad oggi, sia l’opportunità di riscatto dei giovani, perché essendo nativi digitali hanno nel loro dna i codici per entrare in simbiosi con le nuove e dirompenti tecnologie di Industria 4.0. Anche questo punto richiama l’attenzione sul rapporto senior vs junior e bisogna spingere l’acceleratore sull’integrazione intergenerazionale. In GHEPI stiamo partecipando a progetti europei sulla robotica collaborativa. Siamo partiti con una call con cui la UE voleva investigare l’impatto psicofisiologico dei cobot sulle persone. Sono robot “gentili”, non sono pericolosi, ma va indagato l’impatto emotivo nell’aver vicino una macchina che si muove senza le classiche protezioni che isolano i robot tradizionali.

Abbiamo lavorato con alcune università e centri di ricerca e identificato un team di collaboratori (donne/uomini, giovani/meno giovani) per la sperimentazione con dispositivi wearable per il monitoraggio di alcuni parametri biologici. Il sistema robotizzato applicato al nostro processo produttivo è stato programmato dai giovani ingegneri delle università in base ad algoritmi di AI e i risultati sono stati eccellenti. Il punto critico è costituito dalla nostra capacità di proseguire queste attività perché il set di competenze non è compreso nel bagaglio dei nostri tecnici di produzione. Stiamo inoltre valutando l’informatizzazione complessiva dei reparti produttivi tramite tablet industriali o sistemi di AR/VR.

Anche su questo dovremo valutare l’adattabilità dei tecnici senior ai nuovi strumenti digitali. Queste criticità, però, non significano che le competenze tecniche attuali siano superate perché i processi di base e, nel nostro caso, i materiali polimerici, richiedono tuttora quel tipo di competenze per essere processati. Sarà piuttosto opportuno creare, da un lato, una differenziazione di ruoli e specializzazioni e, dall’altro, fare leva sul trasferimento progressivo e reciproco di know how per cui la collaborazione dovrà essere sempre più stretta ed efficiente.

Non possiamo pensare che le nuove competenze del Meta-moment richiedano l’allontanamento delle persone portatrici delle competenze storiche. E’ facile intuire, anche qui, l’assoluta importanza, per i leader, di possedere competenze e abilità più trasversali che verticali e un forte orientamento all’innovazione per favorire una transizione che esprima valore per le persone e per l’azienda.

L’immagine di copertina  è di  Silvia Castagnoli.