La centralità del nome proprio come depositario dell’identità, su cui abbiamo insistito in E ricorda il tuo nome! – Alice annotata 38, non deve farci cadere nell’illusione di poter ricondurre tutto il mondo ad un mantra, ad un algoritmo, a una formula (cfr. L’Identità Molteplice, Parte seconda – Alice annotata 8b e La sincerità di Alice e il realismo di Robinson – Alice annotata 24). Silvia Demozzi in Le avventure di Alice tra controllo e cambiamento Una rilettura pedagogica del classico di L. Carroll, ricorda che “Gregory Bateson, nel metalogo Perché le cose hanno contorni?, fa riferimento alla storia di Alice la quale, con le sue avventure, dimostra di sapere molte cose su di noi, sul nostro porci come esseri umani.
«Secondo Bateson, insomma, Carroll ci aiuta a riflettere su quanto e come il nostro Paese reale funzioni usualmente in modo analogo al Paese delle Meraviglie, appena al di sotto dell’apparenza quotidiana». Pensiamo alla strana partita di croquet in cui Alice si trova a dover giocare nel regno della stravagante regina di Cuori: Bateson definisce la partita come un assoluto «pasticcio» (fenicotteri come mazze, porcospini come palle, carte da gioco animate…), in cui tutto è bizzarro e privo di logica (almeno di quella comune). In realtà una logica esiste ed è lo stesso Bateson a sottolinearla. Il fatto che i fenicotteri possano girare la testa in ogni momento, cambiando la direzione dei tiri, fa sì che ogni cosa sia «talmente ingarbugliata che nessuno ha la minima idea di ciò che può accadere».
E per rendere questo un reale pasticcio, occorre che ogni elemento che vi prende parte sia vivo; e che sia in viva relazione con ogni altro elemento. I giocatori, in questo senso, non possono imparare a cavarsela. Ossia, non esiste un qualcosa, nel nostro mondo reale di interazione tra esseri viventi, che possiamo apprendere come definitivo ed assodato, non esiste una formula che possiamo riutilizzare, ma esiste, piuttosto, la necessità di giocare costantemente all’interno del «pasticcio» e di riaggiustare il tiro ogni qual volta l’altro (l’altro-soggetto, l’altro-mondo o un’altra parte di sé) cambi direzione[i]”.
E’ un tema attualissimo: il mondo, anche il mondo liquido della Rete, sembra gestibile e ingabbiabile sulla base di formule e algoritmi, come quelli con cui i motori di ricerca supportano le nostre ricerche in Internet o quelli con cui un ricercatore italiano ritiene di poter addirittura leggere (e manipolare) le emozioni umane[ii].
Il problema con cui si confronta oggi lo scientific manager è insomma lo stesso che hanno dovuto affrontare gli esperti di tutte le discipline scientifiche a partire dalla fisica, con Heisenberg, nel corso del Novecento: fra il mondo semplice ma astratto descritto dalle leggi scientifiche e il “mondo dei plena” di husserliana memoria, fra il mondo dei “granelli di sabbia” (descritto mirabilmente da Wislawa Szymborska), ovvero degli “oggetti senza nome” che Alice incontra nel Paese dello Specchio, e quello che nel Manifesto dello Humanistic Management chiamiamo il mondo vitale abitato da persone, si apre uno spazio, lo spazio dell’interpretazione, lo spazio abitato da quella che Ugo Volli ha definito l’”eccezione umana”.
Come ha osservato Piero Trupia, “la nostra conoscenza procede per concettualizzazione delle cose del mondo che in sé sono plena e non concetti. Il concetto astrae, semplifica e lascia fuori pezzi di realtà”. Ma questi pezzi a volte ritornano, direbbe Stephen King, ad inquietare non solo i sonni ma anche le veglie di coloro che, illudendosi di ridurre la realtà a un meccanismo semplice da manovrare, si ritrovano ad essere stritolati in un incubo di cui non comprendono le logiche, poiché estranee alla “one best way”.
Per questo motivo si chiede allo humanistic manager di essere soprattutto un sensemaker, un produttore di senso: contro la dittatura del “significato unico” imposto dalle procedure, dagli standard e dalle best practices, emerge la necessità di passare a nuove modalità di Management 2.0 che consentano a tutti di generare nuovi percorsi di senso all’interno delle organizzazioni. Di costruire imprese, cioè, in cui sia possibile scoprire le molteplici possibili strade che conducono alla piena valorizzazione del proprio potenziale e quindi alla generazione di valore per l’azienda. Un valore che McKinsey stima in 1300 miliardi di dollari.
Ecco allora che attivare percorsi di change management, mirati alla costruzione di una collaborative o social organization, significa mettere in atto la lezione proposta da Kundera nel suo saggio Il sipario, quando ricorda il modo in cui Fielding definisce l’arte del romanzo: “Inventando il suo romanzo, il romanziere scopre un aspetto sino allora ignoto, nascosto, della ‘natura umana’; un’invenzione romanzesca è perciò un atto di conoscenza che Fielding definisce ‘una rapida e sagace penetrazione della vera essenza di tutto ciò che costituisce l’oggetto della nostra contemplazione’”.
Come il romanziere dovrà allora comportarsi lo humanistic manager: ricercare continuamente itinerari inesplorati per andare verso l’anima delle cose, attraverso scoperte che sono in certa misura sue proprie invenzioni: proprio come quelle del Cavaliere Bianco (cfr. La creatività del Cavaliere Bianco – Alice annotata 25 e Creatività, social innovation, social learning – Alice Annotata 36).
Scrive ancora Kundera: “simile a una donna che si trucca per poi affrettarsi verso il suo primo appuntamento, il mondo… ci corre incontro già truccato, camuffato, preinterpretato”: è il mondo dei “fatti” (cfr. queste Note da I nostalgici del pensiero forte – Alice annotata 22b a La sincerità di Alice e il realismo di Robinson – Alice annotata 24). Occorre dunque, letteralmente, svelare il trucco, ovvero, come già aveva compreso Cervantes prima di Fielding, quando ha inventato l’arte del romanzo creando il Don Chisciotte (padre spirituale del Cavaliere Bianco), strappare “il sipario della preinterpretazione”.
Questo atteggiamento esistenziale è propriamente ciò che fa di entrambi – il romanziere e il manager – dei poeti. Non diversamente da Alice che così afferma l’importanza della scrittura e della narrazione (storytelling) per dare un senso (sensemaking) alle nostre esperienze (reali o sognate che siano): “There ought to be a book written about me, that there ought! And when I grow up, I’ll write one”. Lo scriverò IO, non qualche Esperto di tayloristica memoria. In questo consiste la gioia di scrivere, dicevamo in Wislawa Szymborska, la gioia di scrivere e il management 2.0.
Alessandro Baricco ha espresso molto bene il senso di questo gesto nel corso della puntata del 29.10.2011 di che Tempo che fa. Al termine di una lezione magistrale molto ispirata, da Maestro Zen, sul “perché scrivere”, conclude: “scrivere libri significa scegliere fra quanto di più raro c’è nell’universo e di più caro c’è nel nostro animo. E lo lavoriamo con le mani, in un materiale affascinante che sono la lingua, le parole, il suono delle parole, il respiro della storia. E tutto questo solo perché vogliamo testimoniare di cosa è capace un certo genio umano e per esprimere in qualche modo il gusto di un Maestro. Di quel Maestro che in quel momento siamo noi”[iii].
Alice annotata 39. Continua
Se vuoi partecipare alle discussioni su Alice annotata iscriviti alla nostra pagina Facebook.