Edoardo Morelli, professionista e cultore della comunicazione da quindici anni, ha contribuito a fondare Colhub, agenzia di comunicazione fiorentina. Oggi è responsabile Marketing e Comunicazione di Timenet e autore del romanzo di formazione Clack!
La collaborazione nei Team tra neuroscienze e visione sistemica
Edoardo Morelli
La Collaborazione Pop
Le persone funzionano bene se è dato loro modo di funzionare come tali. A quarant’anni, con in testa una nutrita schiera di capelli orgogliosi che proprio non se la sentono di imbiancare – più volentieri si lanciano di sotto – posso dichiarare di aver avuto modo di fare molte riflessioni.
Dopo aver avviato un’azienda e partecipato a più di un team di lavoro, ho sentito varie volte termini come “visione sistemica”, “comunicazione efficace”, “empatia”, “assertività”… Tutti indicati come buoni ingredienti per favorire la collaborazione di un team.
Ma, se vogliamo rendere Pop il concetto di collaborazione, dobbiamo radicarlo nelle evoluzioni attuali in ambito psicologico e neuroscientifico. Perché di solito si perde di vista il fatto che il/la componente di un team è prima di tutto un essere umano: non un ruolo, non una competenza, non l’ingranaggio di un processo.
La collaborazione, dunque, diventa POP quando attinge ai caratteri propri dell’essere umano. Il gioco, la relazione con le sue dinamiche, le emozioni… Lo spiega bene Roberto Veronesi parlando di leadership nel suo Opinion Piece. La collaborazione diventa POP non se parte dal processo, ma dalla persona. Prendiamo POP come “popolare”, e quindi radicato nell’istinto delle persone: coltiviamo l’istinto positivo e innato di trovare soluzioni e di dare sicurezza al gruppo di appartenenza.
Se dovessi dare una definizione precisa di collaborazione POP direi che è quella pratica che parte dal valorizzare i risultati del gruppo e che trova sicurezza nel senso di appartenenza.
Visione Sistemica: dove inizia e dove finisce il “sistema”
Ambizione di ogni azienda e di ogni manager è quella di avere con sé persone in grado di avere un occhio teso al contesto. Ma dove inizia e dove finisce il “sistema”?
La psicologia moderna ha archiviato il concetto computazionale della mente. La mente non è un elaboratore in una scatoletta. Si parla ormai di Mente Estesa e Incarnata: “Embodied Cognition” (Cognizione Incarnata).
Il concetto incarnato vede la mente come un tutt’uno con il corpo, votata all’azione, che lo influenza e ne viene influenzata attraverso particolari neuroni a questo dedicati. Il concetto di mente estesa invece la vede costantemente influenzata dal contesto esterno e costantemente con l’obiettivo di influenzarlo a sua volta.
Dunque di cosa parliamo quando parliamo di visione “sistemica”? Spesso ci si aspetta che i team tengano in considerazione l’un l’altro bisogni e obiettivi. Altre volte che tutti ragionino nell’interesse dell’azienda tutta. In ognuno di questi casi il ragionamento è “azienda-centrico”.
Ma l’essere umano non funziona così.
Il sistema inizia e finisce nella persona. La persona è fatta per agire. La mente è strutturata per produrre azioni e non pensieri. E infine siamo entità bonariamente egoiste: il nostro cervello ragiona prima di tutto per la sopravvivenza e il benessere dell’individuo che lo ospita.
E se il sistema radica nella persona non possiamo non allargare la visuale.
Perché a questo punto il sistema azienda, se lungimirante, cerca di integrarsi il più possibile con tutto il sistema sociale attorno alla persona.
E da qui iniziamo a capire perché la flessibilità di cui tanto si parla sta avendo così tanto successo: riverbera la naturale tendenza della mente a operare in sistemi ampi e interconnessi. La logica dei compartimenti stagni è data per obsoleta da tempo, ma forse ancora c’è margine di miglioramento. Il sistema si estende talmente oltre che spesso si perde di vista l’intricata rete di interconnessioni e di come le community aziendali interagiscono dentro e fuori dall’azienda: su questo offre spunti interessanti l’Opinion Piece di Alessio Mazzucco.
Ruoli e competenze: interpretarli per massimizzare la collaborazione.
Come siamo messi a competenze? Com’è che piacciono?
C’è chi le vuole a T, c’è chi le vuole a I, c’è chi “basta che ci siano”… Il punto è ancora una volta biologico. Nulla nella mente è totalmente isolato.
Perfino le emozioni che si pensavano relegate a particolari aree del cervello come l’amigdala o l’insula, sfruttano e riciclano reti neurali parzialmente condivise.
In un team anche le persone sono concentrati di esperienze e non solo di competenza.
In un team, uno del mondo della comunicazione come me lo si vede per esempio come designer, copywriter e fotografo. Credo dovremmo vedere in primis tre persone, che attingono a un bagaglio enciclopedico vasto che va oltre la competenza tecnica.
Persone che contribuiscono al valore progettuale (e concettuale) prima ancora che al prodotto finito.
Il team performa al meglio se c’è parità e sicurezza psicologica. Ogni parte di questa piccola rete neurale deve avere la libertà di far circolare le informazioni: adattarle, smontarle e rielaborarle a ogni passaggio. Proprio come farebbe il cervello.
Quella delle job title è una pratica necessaria per la gestione amministrativa: dobbiamo sapere chi cercare quando ci serve. Non tiene però conto di una tendenza tutta umana, quella di fare economia cognitiva. Il nostro cervello semplifica per natura e va a nozze con le etichette facili. Purtroppo tende presto a confermarsi se non ci impegniamo a destrutturare questa inclinazione.
Il rischio? “Non è compito mio” (suona familiare?).
Come evitarlo? Comportamento (non a caso molti Prolegomeni sono dedicati a Leadership e Collaborazione) e linguaggio (cui Annamaria Gallo ha meritoriamente dedicato la sua riflessione) facendo attenzione alle coerenze.
Se, ad esempio, la leadership di oggi da top-down diviene collaborativa, dunque inclusiva, come illustra bene Roberta Profeta nel suo Opinion Piece, questo non significa che il linguaggio inclusivo sia quello degli asterischi. Il linguaggio inclusivo è quello che si fa capire e che sa tacere quando le altre persone parlano.
Il linguaggio inclusivo non usa la job title, ma si appella al punto di vista delle persone.
Il linguaggio inclusivo fornisce libertà di scelta. Se ogni giorno tutti cercano il “responsabile marketing” tu inizierai a definirti così e inizierai pian piano a non vedere oltre quel titolo.
Il linguaggio naturale di ogni giorno deve abbandonare le etichette.
Dobbiamo riscoprire un pizzico di umanesimo.
Il comportamento inclusivo poi è quello che ascolta, riflette ed è attento ai bisogni esterni.
L’interazione tra le persone del team tiene conto quindi dell’unicità degli individui oltre le competenze e dei loro contesti (sistemi) più ampi.
Una Comunicazione POP per una Collaborazione POP
Se c’è un minimo comun denominatore a ogni forma di interazione è proprio la comunicazione. E spesso i corsi di comunicazione efficace sono una sequela di informazioni (più o meno datate) di tecniche e procedure.
Di rado si parte dalla consapevolezza.
Pensiamoci un attimo: la mente è radicata a fondo nel contesto ambientale e nel corpo, i ragionamenti hanno un grado di variabilità molto più ampio di quello che i classici corsi “take away” raccontano.
Ma si parte sempre dalle percentuali di Mehrabian e dal classificare (etichettare) le persone come “o così” o “cosà”.
Ma le persone, per quanto abbiano una attitudine peculiare, possono essere in alcuni momenti “più o meno così” piuttosto che “cosà”.
Il Sole 24 Ore conosce molto bene Paolo Borzacchiello. Da qualche anno è per me un punto di ispirazione perché, scoprendolo, ho dato un’accelerata su un sentiero che stavo percorrendo con molta attenzione e molti stop & go.
Mentre io cercavo di studiare cosa ci fosse a monte della comunicazione, lui già aveva fatto tutto il percorso ed era tornato.
Quella è a mio avviso una strada per trovare una forma POP di collaborazione: riconoscendo nelle persone che abbiamo accanto la loro unicità e impegnandoci a trovare tutti i modi possibili per rendere utili le interazioni con loro. Utili per entrambe.
Dunque, tenere conto del loro stato d’animo, di cosa succede loro a casa, di cosa succede loro prima di arrivare a lavoro e dopo. Tutto conta e quel che oggi ha funzionato non è detto funzioni domani.
Anche una gratifica che oggi ha fatto da stimolo domani potrebbe non fare lo stesso effetto.
Prendiamo coscienza che ogni persona vive una sua realtà e che questa non la puoi separare dalla persona.
La comunicazione di oggi dovrebbe tenere conto di questo.
Il mio personale concetto di inclusione, oggi molto inflazionato e relegato ai termini di “diversity&inclusion”, è quello di una “inclusione inversa”. Primo step entrare nella realtà delle persone di fronte a noi (per quanto possibile). Poi, presa coscienza dei bisogni, possiamo pure pensare di portare un contributo alla relazione.
Calare dall’altro il contributo, convinti di avere la palla di vetro solo perché abbiamo studiato le 10 regole del buon comunicatore o I 6 principi di persuasione di Robert Cialdini (bellissimi), è un atto di presunzione.
Le interazioni, quelle sane e di valore, si basano sull’amore e sulla cura (cfr. Prolegomeni 30).
E questo non è buonismo spicciolo, se lo inquadriamo in un quadro sistemico che comprenda la condivisione di responsabilità e obiettivi.
Quando il sistema condivide una base valoriale e relazionale coerente ne giova l’azienda tutta. Oggi, nel mondo del branding, l’identità parte dall’interno e si radica nelle persone che ne saranno portatrici.
Luca Cavallini nel suo Opinion Piece approfondisce un concetto POP di Branding e lo indaga molto bene. Io aggiungo che se la marca si cela nella mente, la mente di un’azienda è condivisa con tutte le persone che la compongono.
Generare collaborazione: tra assertività, empatia e obiettivi
Altri aspetti, non sempre approfonditi, sono quelli che poi determinano la capacità delle persone di rispettare le altre e contestualmente di farsi valere.
Partiamo dalla prima: assertività. Un elemento comunicativo che leggo qua e là radicato nell’atteggiamento, specie nel linguaggio paraverbale. Essere persone ferme e risolute, senza mancare di garbo.
Simulare assertività non vuol dire essere persone assertive. Ecco il nodo gordiano della consapevolezza. Si parte sempre dal perché come insegna Simo Sinek.
Perché dovremmo produrre quegli atteggiamenti, o altri assimilabili?
L’assertività prima di avere a che fare con la comunicazione ha a che fare con l’autodeterminazione: sapere di avere dei diritti come persona.
Diritto a sbagliare, diritto a correggermi, diritto a esternare… E via dicendo.
Ma la magia dei diritti è che sono di ogni persona sulla terra. Qui sta l’assertività vera: avere contezza del fatto che anche le altre persone hanno medesimi diritti.
L’assertività è scambio di rispetto tra chi partecipa a un confronto.
Non è chiedere rispetto. Non è far valere la propria personalità. Prima di tutto è permettere alle altre persone di farlo, chiedendo venga fatto altrettanto.
Altra spada di Damocle sulla testa di un team è proprio l’empatia. Sì perché farsi carico delle emozioni altrui è bellissimo ma altamente disfunzionale in molti casi.
Se ho paura per te non ti aiuto. Se sto male per te non ti aiuto. Ti aiuto se comprendo il tuo stato d’animo ma mantengo lucidità.
Ci sono due tipi di empatia: una più ancestrale, quella che ha permesso al genere umano di prosperare.
Quella che ci fa leggere le emozioni di altri individui per capire cosa sta succedendo attorno a noi. Una sorta di comunicazione immediata di base.
Se lui ha paura ci sarà una minaccia: attenzione!
Una delle prime funzioni delle emozioni è comunicare e creare uno scambio di informazioni a livello sociale.
Ogni emozione poi richiede un’azione, non è solo un segnale fine a se stesso. Tutto il corpo è interconnesso, le emozioni allertano neuroni premotori che si approntano a dare il via a tutta una serie di azioni collegate a quell’emozione.
Lo stesso sorriso è un elemento che serve per agire a livello sociale e creare unione e comunanza.
Hai mai provato a essere felice in casa, in solitudine, pur davanti a un film comico? Non è la stessa cosa…
Ma c’è una forma diversa di empatia, chiamiamola cognitiva. Quella che ci fa elaborare e capire lo stato d’animo senza farcelo crollare addosso.
Si assimila dal linguaggio e dai comportamenti di chi abbiamo davanti.
Si raggiunge anche imparando a inibire la deriva emotiva che ci arriva quando siamo troppo coinvolti.
Un importante approfondimento di Marco Minghetti a questo concetto si trova in un Prolegomeno dedicato. Elevando questo secondo tipo di empatica a livello sistemico come mezzo per una comunità di creare il giusto tessuto collaborativo.
Qual è il punto? Che tutti hanno accesso all’empatia. In primis per DNA. Poi per potenzialità. Scegliere di non usarla per niente è, appunto, una scelta. Vuol dire scegliere di ignorare un’informazione o, in altri casi, abituarsi a ignorare certe informazioni.
Un atto deliberato di arroganza.
Esercitare l’empatia vuol dire esercitare ascolto e attenzione. Vuol dire dare un peso alle parole. Vuol dire non dare per scontato che quel che è buono per noi sia buono per altre persone. Vuol dire non dare per scontato che quel che buono oggi sia buono domani.
Ora, obiettivi. Se le persone non sono attrezzi da cui attingere competenze e non sono macchine da cui trarre operazioni, va da sé che siano tutte inclini a cercare un certo grado di libertà.
Non tutti siamo uguali e non sempre allo stesso modo. Il grado di libertà è molto soggettivo. Qualcuno performa se pienamente libero di gestirsi, altri performano su compiti maggiormente legati a processi definiti.
Tutto questo non è un problema se gli obiettivi vengono progettati e cuciti insieme al team.
Che non vuol dire fare brainstorming per tutto (e non approfondiamo i brainstorming in questa sede ma limitiamoci a prenderlo come metafora).
Vuol dire concertare quanto sviluppato, affinarlo e modificarlo. Vuol dire avere l’apertura mentale al dialogo.
Perché, tralasciando acronimi tecnici come “SMART” riguardo agli obiettivi, il senso generale è che sono un po’ come i processi: si devono adattare alle persone e non viceversa.
Flessibilità e adattamento per generare trasformazioni in azienda. Francesco Gori nel suo Opinion Piece parte dalle AI per fare un parallelo sui modelli innovativi in Azienda.
Torniamo a sottolinearlo: le persone funzionano bene se è dato loro modo di funzionare come persone.
E per quanto metodica una persona sia a un certo punto sentirà bisogni diversi. Poco o tanto.
I processi sono necessari: più un ecosistema scala e più serve definire regole precise.
Ma, per esempio, l’ingresso o l’uscita di una persona dal team è un cambiamento forte dell’ecosistema a cui sono legati gli obiettivi. Non stupiamoci se ci fosse bisogno di apportare qualche modifica. Non è colpa della nuova persona ma frutto del naturale mutamento dell’organismo tutto.
Inserire una nuova persona in gruppo sociale può cambiare talmente tante cose a livello umano… Non è mai solo + 1 o – 1 quando si parla di persone.
In sintesi, solo obiettivi condivisi e riconosciuti creano orientamento e solo un obiettivo comune genera una collaborazione legata alla visione sistemica.
Conclusioni
La collaborazione diventa POP quando guarda alle persone come tali e non come a pezzi di un processo.
Si sono abbandonati (non sempre) i compartimenti stagni e i silos a beneficio del silos azienda, dimenticando che da questo silos le persone escono e che ci sono elementi esterni che impattano.
La comunicazione viene usata più come dottrina che come mezzo di consapevolezza. Questo genera forse la gara a chi comunica meglio ma non a chi si relaziona meglio.
L’inclusione dovrebbe essere abbandonata a favore del “riconoscimento”. Per ché riconoscere vuol dire conoscere più volte. Includere vuol dire “chiudere dentro”.
Le persone sono tanto più unite e collaborative quanto più percepiscono un coerente grado di libertà… Qualunque essere che si senta stretto reagisce scappando, a costo di strapparsi la pelle.
Qualche riferimento bibliografico che mi è stato utile
Come funzionano le emozioni – Fausto Caruana
Pensieri lenti e veloci – Daniel Kahneman
Metafora e vita quotidiana – George Lakoff, Mark Johnson
HCE La scienza delle interazioni umane: Vol. 1 – Paolo Borzacchiello
42 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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