Immagine di Marcello Minghetti per Ariminum Circus Stagione 1

Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 24 – Organizzazione Pop. Opinion Piece di Nello Barile

L’evoluzione che sta vivendo il settore retail è descritta in questo articolo dal Pop Opinionist Nello Barile, che attualmente insegna Sociologia dei Media e Politiche per la cultura allo IULM. Ha svolto attività di lecturing e visiting presso importanti centri di ricerca internazionali tra cui il Graduate Center della CUNY, l’Università Waseda di Tokyo e l’ECA/USP di San Paolo del Brasile. È autore di numerosi libri in italiano e di articoli/contributi pubblicati in Usa, UK, Brasile, Russia, Germania, Francia, Spagna, fra cui Dress Coding. Moda e stili dalla strada al metaverso, Milano, Meltemi, 2022. A lui va il mio sentitissimo ringraziamento per l’ampiezza dell’analisi storica, la ricchezza della documentazione di riferimento, l’analisi acutissima e perfettamente argomentata.

Spoiler: in questo articolo (così come in altri Opinion Piece fra cui in particolare quello firmato da Vanni Codeluppi) sono illustrati alcuni elementi importanti per la definizione del modello organizzativo Pop dell’Hypermedia Platfirm (evoluzione della Social Organization collaborativa analizzata nei post dedicati a Collaborazione Pop e Leadership Pop) che presenterò nell’ambito di questi Prolegomeni nel corso del mese di settembre.

Il negozio del futuro nel nuovo regime customer-centrico: dalla rivoluzione copernicana al rischio di una deriva populista

Nello Barile

Il regime customer-centrico

Viviamo in un regime customer-centrico, che pone il consumatore al centro del nuovo ecosistema digitale, per due motivi principali: perché esso produce dati che sono sempre più il vero prodotto della nuova economia dell’attenzione; perché grazie a questi dati è possibile conoscere, prevedere e coinvolgere sempre più le scelte del consumatore. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella moda espanderà enormemente il processo di centralizzazione e customizzazione dell’offerta, tanto da coinvolgere anche la parte più ideativa e creativa, che storicamente spettava allo stilista. La centralità del consumatore, già paventata nella retorica comunicativa dei marchi anni Novanta, è oggi implementata dal nuovo ecosistema digitale. Per capire meglio tale processo occorre fare un passo indietro, alle origini della mass customization.

Agli albori degli anni Settanta, il futurologo Alvin Toffler esordì con il libro Future Shock (1970) nel quale elencava con estrema precisione le principali trasformazioni che la tecnologia avrebbe indotto nella società e nel mercato da lì a pochi anni. Tra queste aveva già insistito sulla problematica dell’iperscelta per evidenziare come il nuovo capitalismo stesse implementando strategie di offerta altamente complesse e diversificate che sfruttavano l’automazione e rivoluzionavano il rapporto tra aziende e consumatori. La cosiddetta super-industrializzazione era allora sconosciuta in Europa ma si stava affermando negli Stati Uniti.

«[…] la società del futuro offrirà non già un afflusso di beni limitati e standardizzati, ma la più grande offerta di beni e di servizi non standardizzati che qualsiasi società abbia mai veduto […]. Stiamo in effetti correndo verso l’iper-scelta. Il punto nel quale i vantaggi della diversità e dell’individualizzazione verranno annullati dalla complicazione del processo della decisione da parte dell’acquirente» (pp. 265, 269).

Già appariva chiaro il passaggio che dalla microsegmentazione del mercato avrebbe condotto all’integrazione attiva del consumatore nella filiera produttiva, le cui dirette ripercussioni sulla sfera culturale mettevano in discussione le teorizzazioni che invece avevano insistito sulla crescente omogeneizzazione delle pratiche di consumo. Nel suo libro successivo, The Third Wave (1980), lo studioso tematizza l’avvento del prosumer, che riporta in auge la fusione preindustriale tra produzione e consumo grazie all’evoluzione delle tecnologie informatiche. Nel medesimo libro Toffler si spingeva a prevedere un mercato completamente stravolto dalle nuove invenzioni che avrebbe incluso, progressivamente, il consumatore nella filiera dalla produzione. Dopo aver riflettuto sulle implicazioni dell’ampio utilizzo delle tecnologie informatiche e sul computer-aided design, si spinse a formulare la seguente previsione:

«We are moving rapidly beyond traditional mass production to a sophisticated mix of mass and demassified products. The ultimate goal of this effort is apparent: completely customized goods, made with wholistic, continous-flow processes, increasingly under the direct control of the consumer» (Toffler 1980, pp. 187-188).

Anche se alcuni aspetti della sua “profezia” erano troppo suggestionati dalla fantascienza, il suo nocciolo sostanziale si è realizzato tanto che oggi parliamo di un nuovo regime customer-centrico gestito dalle piattaforme digitali (cfr. Platformication, conversazione fra Marco Minghetti e Cosimo Accoto). Tale regime è in qualche modo stato preparato dalla mass customization degli anni Novanta, come momento culminante del cosiddetto postfordismo che ha introdotto innovazioni di tipo tecnico e organizzativo al fine di erogare prodotti/servizi a elevato livello di differenziazione. Il presupposto decisivo in tale rivoluzione sta nell’esigenza delle aziende di coltivare un concetto olistico di qualità che arriva a coinvolgere la relazione con il consumatore. Questi, infatti, ha dimostrato nel corso degli ultimi decenni una sempre maggiore perizia nelle indicazioni di consumo tanto che oggi si parla di competenza del consumo quando invece tale attività, nel periodo dominante del fordismo-taylorismo, era intesa come passiva e automatica.

La demassificazione delle pratiche vestimentarie

Come si è detto, il progresso tecnologico ha profondamente alterato le modalità di produzione e di fruizione della moda contemporanea verso una crescente demassificazione delle pratiche vestimentarie, in perfetta coerenza con le progressiva ibridazione fra cultura d’impresa e Cultura Pop ipotizzata in questi Prolegomeni da Marco Minghetti  nei suoi tratti generali e sostenuta da argomentazioni applicative a diversi aspetti del management dagli Opinion Piecers che si stanno scambiando il testimone in questo blog. Le nuove tecnologie della comunicazione hanno stravolto tanto le procedure di ideazione, disegno e confezionamento dei capi, quanto quelle di distribuzione e di reperimento da parte dei consumatori. A ben vedere, le tappe evolutive del sistema moda sono scandite dall’innovazione tecnologica.

L’innovazione tecnologica, portando l’offerta verso la cosiddetta fabbrica automatica, dove il “sarto robot” provvederà a realizzare gli abiti, sarà così sempre più in grado di rispondere alle esigenze del mercato; essa diventerà un fattore dominante di crescita imprenditoriale, di raggiungimento di un sempre più alto livello qualitativo, di una maggiore competitività (Foglio 2007, p. 23).

La MC, definibile come produzione industriale su misura (Fabris 2003), mira a coniugare i vantaggi della produzione industriale – primo fra tutti l’abbattimento dei costi – con quelli della produzione artigianale. Nella produzione di massa la relazione con il cliente – fondata sul suo anonimato – era sacrificata a vantaggio della reperibilità immediata e diffusa dei beni. Nella MC, al contrario, ogni transazione rappresenta un accrescimento di conoscenza da parte dell’azienda delle caratteristiche idiografiche del cliente. Un feedback che può essere mediato dal punto vendita oppure disintermediato tramite la rete. Il principio tramite il quale sono nate le prime strategie di questo genere è quello della modularizzazione, che ha consentito alle aziende di produrre merci sempre più personalizzate. Esso si basa sulla fabbricazione tramite economie di scala di componenti basilari che possono essere riassemblate in modalità differenti per offrire prodotti relativamente diversificati. Ci si concentra sulla “conoscenza del sistema cognitivo del consumatore, rispetto al quale l’adattamento dell’offerta rappresenta la più efficace strategia di differenziazione” (Costabile, Ricotta, Miceli 2003).

Anderson (1997) ha classificato quattro tipologie basilari di MC, in funzione del grado di coinvolgimento del cliente nel processo produttivo, specialmente nel settore delle calzature: ricerca/selezione espansa, opzione design, co-design e total custom. Nella prima, che è anche la più banale, il cliente sfrutta le sue facoltà, le sue competenze e il suo gusto per effettuare ricerche avanzate tra le varie linee di produzione. Nel secondo livello, quello della opzione design, alle capacità cognitive del cliente sono sottoposte decisioni più complesse che riguardano il design, le taglie, i colori, i tessuti e alcuni dettagli stilistici. Con il co-design si entra nella sfera effettiva della personalizzazione. Esso offre al cliente la possibilità di interfacciarsi con un design manager per elaborare “maieuticamente” la migliore configurazione di prodotto che egli possa desiderare. Nell’ultima opzione, la total custom, il cliente è messo nelle condizioni di esprimere la sua creatività tramite un disegno in formato digitale che viene consegnato ai produttori tramite web, oppure ai rivenditori, e che verrà trasformato dall’azienda nel prodotto finale. In tale circostanza appare definitivo il ribaltamento della relazione produttore/consumatore dato che il secondo si trasforma in ideatore/designer mentre l’azienda, che è talvolta un colosso multinazionale, si trasforma in semplice esecutore, che mette a disposizione macchine e manodopera.

Nella moda contemporanea sono numerosi gli esempi di tali applicazioni che coinvolgono non solo aziende di sportswear e di jeanswear, che sono per natura più inclini a un simile approccio, ma anche alcune della Haute Couture.

Tra le prime aziende del tessile-abbigliamento che hanno sperimentato la nuova frontiera troviamo Levi’s. Dal 1994 l’azienda americana ha implementato il programma personal pair: in cui il commesso del punto vendita prende le misure del cliente su quattro punti (vita, gambe, cavallo e risvolto). I dati vengono inseriti nel computer che elabora un prototipo del jeans sul quale il cliente sceglie di apportare ulteriori modifiche. In media bastano due o tre prove per raggiungere la forma ideale dopodiché il commesso inoltra la richiesta all’azienda che provvede a produrre il jeans e, nell’arco di tre settimane, il prodotto viene spedito al negozio e venduto a un costo lievemente superiore a quello dello stesso jeans standardizzato. Nel 1997 il progetto, che era riservato solo al pubblico femminile, cede il passo a Original Spin che rappresenta un’evoluzione dalla semplice opzione “ricerca/selezione” all’opzione “design”. Con esso, infatti, il cliente ha la possibilità di scegliere tra sei tonalità di colore, cinque misure per l’ampiezza della gamba, due tipi di abbottonatura. Questo perché il primo progetto rappresentava una fase di test della nuova strategia mentre con Original Spin si è voluto estendere l’offerta tanto che, da 130 modelli iniziali, si è passati a 750 possibili combinazioni; il nuovo sistema era inoltre potenziato dall’ausilio del web.

Sulla stessa linea si è posta Nike con il progetto Nike Id che nella presentazione del suo presidente storico, Phil Knight, avrebbe ricondotto l’azienda alle proprie radici, quando lui e un socio vendevano scarpe su misura nel bagagliaio della loro macchina. La nuova iniziativa prende vita nel 1999 e, a differenza di quella della Levi’s, è sviluppata completamente sul web tramite un’interfaccia friendly che risparmia l’utente di particolari sforzi. Anche nel caso di Id c’è stata un’evoluzione dalla semplice opzione ricerca/selezione, che consente di scegliere tra un modello di running e uno di cross training, all’opzione design tramite cui l’utente può scegliere colore del prodotto, dello swoosh e addirittura apporre la sua sigla sulla scarpa. Tutto ciò a un prezzo maggiorato di dieci dollari con in omaggio una t- shirt sulla quale è stampata la sigla dell’utente. Le possibilità di customizzazione sono state estese ad altri modelli di scarpe e ad altre tipologie di prodotto (zaini e guanti). Al contrario di Levi’s la sperimentazione nel punto vendita è venuta dopo quella sul web. Con essa si è accentuata la componente esperienziale che consente di supportare psicologicamente il consumatore con la consulenza di un commesso e con l’ausilio di un pannello touch screen che illustra l’intero processo di produzione su misura.

L’evoluzione del sistema moda

Nessuna delle precedenti iniziative raggiunge il livello del total custom con la quale l’azienda riconosce al consumatore lo status di coautore nella progettazione del capo (la co-creazione di valore è uno dei cardini della Social Organization descritta in Intelligenza Collaborativa e quindi del Pop Management, NdR). Questo perché le caratteristiche delle aziende, che operano sui segmenti dello sportswear e del jeanswear, sono più legate alla logica della modularizzazione. Al contrario, le aziende della Haute Couture sono state più libere di sperimentare formule estreme di personalizzazione. Ne è un esempio la collezione A-POC di Issey Miyake ovvero un progetto che “ha l’intento di coinvolgere il consumatore nell’operazione progettuale e di lasciare un margine di scelta a chi acquista, oltre che di offrire un esempio ai problemi ambientali attraverso la riduzione degli scarti di lavorazione” (Danese 2004, p. 76).

Passiamo dunque dalla customizzazione di massa a quella più esclusiva di A-POC in cui è la struttura stessa del vestito, progettata appositamente dal designer, a incentivare l’interpretazione del cliente che elabora la sua propria forma preferita. Una coazione che si attua su di un comune sfondo etico e che ha ricadute politiche in quanto contribuisce ad alimentare una coscienza ecologista tramite un’esperienza d’acquisto, in cui lo stesso commercio può diventare un sistema di educazione del consumatore.

Tali approcci insistono da un lato sul fatto che la fonte della creatività sia esterna al sistema moda e dunque vada cooptata, dall’altro sulla necessità di coltivare la relazione con il cliente che può passare da singoli consumatori a comunità, entrambi investiti da un alone di autorialità che li avvicina ai protagonisti del periodo d’oro del fashion system. Mai come oggi il sistema moda sta attraversando grandi cambiamenti che, con buona probabilità, ne modificheranno radicalmente la struttura nel prossimo decennio. Molte delle considerazioni sviluppate negli anni Novanta – come quelle di Ted Polhemus sullo style surfing e le pratiche di sampling and mixing (1994) – appaiono oggi non solo diffuse su larga scala ma anche portate alle loro conseguenze più estreme dai fashion designer. D’altro canto una più generale dinamica socioeconomica sta letteralmente ristrutturando il mercato in seguito alla nuova polarizzazione tra classi sociali, cioè tra una superelite dedita a consumi ineguagliabili e una moltitudine dedita a consumi accessibili di basso costo (Barile 2011). In questa situazione a dir poco composita, in cui si contrappongono dinamiche culturali e dinamiche economiche, si innesta il ruolo chiave delle tecnologie digitali, che, si badi bene, non sono semplici mass media aggiunti ai media tradizionali come TV, radio, e cinema.

Il digitale è più di ogni altra cosa un nuovo ambiente capace d’inglobare tutti i media precedenti e di riconfigurare le relazioni sociali ed economiche sia in termini quantitativi che, soprattutto, in termini qualitativi. Il digitale pervade completamente e profondamente ogni ambito della cultura, dell’economia e della creatività contemporanea. Nel prossimo futuro, l’uso dei chatbot tenderà a sostituire il rapporto tra brand e consumatore con quello tra sistemi di intelligenza artificiale e assistenti digitali. Già implementati da grandi brand come Armani e Hilfiger, i chatbot consentono di automatizzare il rapporto con un cliente sempre più profilato; in questo modo aiutano a spostare il focus della moda dallo stile del designer alla performatività del consumatore-utente. Il grande dibattito sull’intelligenza artificiale non riguarda solo l’idea che molto del lavoro di oggi scomparirà nel prossimo decennio a causa della Quarta Rivoluzione Industriale, ma anche e soprattutto il modo in cui la nostra vita quotidiana sarà totalmente trasformata dall’automazione non solo in attività fisiche ma anche in quelle cognitive.

Nella moda, l’Intelligenza Artificiale può rappresentare una tecnologia “distruptive”, (cioè dirompente, di sostituzione), non solo rispetto ai processi di comunicazione, ma anche con quelli creativi (Luce 2019) – come in alcune applicazioni di IBM / Watson e Google che mirano a sostituire il ruolo del progettista proponendo modelli disegnati sulle caratteristiche dei consumatori trasformati in flussi di dati. Ne è stato un chiaro esempio il progetto Muze realizzato da Zalando in collaborazione con Google. Un sistema di machine learning che “apprende” sulla base di una banca dati in cui vengono raccolti pareri creativi su colori, pattern e scelte stilistiche da parte di seicento operatori del settore, combinati con i dati offerti dai Google Fashion Trends Report. Il sistema si basa su un elevato livello di customizzazione in cui si richiede all’utente di scegliere il proprio mood (triste, allegro, eccitato ecc.), il proprio stile (gotico, rockabilly ecc.) e di tracciare un disegno intorno alla figura umana raffigurata al centro del video, da cui verrà ricavato l’outfit finale proposto dalla piattaforma. A prescindere dalla semplicità esecutiva dell’interfaccia, si tratta di una riflessione importante sul futuro della moda e sulla sostituzione dello stilista da parte dell’utente che, a ben vedere, collega i diversi capitoli di questo libro, giungendo a una conclusione che è in linea con gli sviluppi odierni del mercato (anche se non del tutto desiderabile).

Tre scenari

In un articolo divulgativo uscito sul numero speciale di “Marieclaire likes” (Barile 2017), ben prima della pandemia, provavo a individuare e definire almeno tre scenari che descrivono la possibile interazione tra il nuovo sistema moda, l’intelligenza artificiale e l’esperienza situata del consumatore:

1) Isolation – era strutturata intorno al nucleo domestico. I sistemi di consegna, l’e-commerce, Netflix e un outfit pseudodomestico anticipato dalla moda anni fa, costituivano insieme un nuovo stile di vita estremamente “isolato”, interrompendo le pratiche di consumo tradizionali. La domesticazione delle tendenze moda, dalle pantofole in pelliccia di Gucci ai pigiama indossati in pubblico – hanno in qualche modo anticipato tale condizione.

2) Integration – è l’integrazione tra immateriale e materiale, digitale e fisico, virtuale e reale. Nuovi dispositivi, dalle tecnologie indossabili alla realtà aumentata, ridefiniranno le funzioni e i valori di negozi e luoghi fisici. Il profilo del consumatore sarà il fulcro di un universo esperienziale guidato dall’IA.

3) Co-design – descrive un uso collettivo dell’IA integrato con l’innovazione sociale, il co-design e la produzione tra pari per valorizzare il genius loci e trasformare il processo produttivo in un’azione politica.

Tali dimensioni non sono affatto contraddittorie ma convivono in un continuum in cui la penetrazione crescente delle piattaforme nel quotidiano (isolation) è accompagnata da esigenze di integrazione tra sfera fisica e virtuale (integration) e dalla condivisione “comunitaria” (co-design) con gli abitanti di un territorio. Poco prima dell’avvento del Metaverso la risposta delle aziende a tali esigenze è data dalla prospettiva omnichannel. Concetto come al solito sospeso tra la promessa di uno scintillante futuro e la limitata applicazione del principio nel presente. Se si pensa allo schema che solitamente viene utilizzato per descrivere questa innovazione strategica, si passa dall’epoca del single channel, ovvero del negozio fisico come unico canale di acquisto dei prodotti moda, a quella del multi-channel in cui s’aggiungono nuovi canali di vendita (e-commerce), passando per il cross-channel in cui i diversi canali finalmente si integrano offrendo un’esperienza unica all’utente (ad esempio integrazione dei prezzi), per giungere finalmente all’omnichannel in cui i diversi canali integrati si trasformano in un ambiente che circonda l’utente-generatore di dati. Il vero problema che l’omnichannel tentata di risolvere è infatti l’anello mancante tra esperienza online, di cui si sa pressoché tutto, ed esperienza off-line di cui si sa ben poco. La possibilità di collegare i due livelli offrirebbe alle aziende uno strumento ancor più potente di conoscenza e previsione delle scelte del cliente (vedi su questo il post di Marco Minghetti Tempo di Total Communication Strategy!, NdR).

Il futuro del retail

Doug Stephens in Reengineering Retail (2017), dedica un capitolo a un argomento che è diventato negli ultimi anni un concetto-mantra: quello del futuro del retail. Un problema che desta grande interesse non solo dal punto di vista dei brand di moda e delle aziende hi-tech, ma anche da parte delle amministrazioni locali, preoccupate dal processo di desertificazione dei luoghi pubblici, come conseguenza della nuova egemonia commerciale delle piattaforme e ancor più recentemente alla crisi pandemica. Il case study del concept store di Manhattan, chiamato Story, è particolarmente significativo dell’integrazione tra tecnologie e spazio fisico nel cosiddetto retail esperienziale. Lo stesso nome gioca semanticamente con i termini “store” e storytelling, ovvero un luogo fisico allestito per coinvolgere il visitatore in una narrazione composita.

Secondo Rachel Shetchman, sua fondatrice, il negozio del futuro dovrebbe offrire il punto di vista di una rivista di moda, ovvero proporre un taglio curatoriale capace di coinvolgere l’interesse del cliente; inoltre dovrebbe cambiare ogni 4-8 settimane come se fosse una galleria d’arte, offrendo un’esperienza che permane nella memoria. Infine vendere i propri prodotti. In Story i brand raccontano se stessi a partire dalla loro unicità. Vengono infatti selezionate marche di nicchia e serie limitate a cui si accostano marchi più commerciali che trovano vantaggio a posizionarsi in quel contesto guadagnando in termini di credibilità e reputazione. L’utilizzo di tecnologie intelligenti, basate sul machine learning, consente di monitorare il comportamento del consumatore: sistemi di riconoscimento facciale anonimo, emotions tracking, fitting room technologies, mobile identification tracking, RFID, video analytics. Si tratta di tecnologie innovative che vengono classificate da McStay (2018, pp. 191-192) come “media empatici”, ovvero capaci di riconoscere le emozioni umane e di interagire con esse.

Dal retail esperienziale descritto da Stephens (2017), si passa a quello “aumentato” (McStay 2018) che utilizza realtà aumentata e media empatici per potenziare l’esperienza del consumatore. Lo stesso termine viene utilizzato da Farfetch, dal lato delle piattaforme, per occupare un territorio che inizialmente era stato sacrificato dall’e-commerce: quello fisico. La divisione Augmented Retail ha difatti l’obiettivo di integrare le attività di e-commerce con quelle degli spazi fisici, proponendo un’esperienza integrata che tocca ogni punto della cosiddetta “customer journey”. A partire dal 2017 nasce la collaborazione con la catena Browns, specialmente nel flagship store posizionato in Brook Street, il cui landmark rappresenta la filosofia e la concezione del lusso di questo brand. In questo “laboratorio vivente” Browns vuole che i visitatori rimangano il più a lungo possibile nel negozio trasformato rispetto ai precedenti criteri organizzativi, per offrire esperienze di consumo e culturali. Come ad esempio quelle volte a “coinvolgere la comunità (la prima line-up include l’ipnoterapeuta Michele Occelli, la celebrità nail artist Jenny Longworth e il tatuatore Sang Bleu Delphin Musquet)” (Chitrakorn 2021).

Phygital omni-channel

«Il “phygital” store è una combinazione tecnologica di risorse: un negozio in grado di integrare la tecnologia con l’esperienza in-store e di generare e gestire informazioni, relazioni, desideri, aspirazioni e scelte sotto forma di Big Data. […] Pertanto, la capacità di utilizzare i dati è la chiave per lanciare nuovi processi di innovazione del retail in cui il riconosci- mento della complessità stessa diventa lo spazio per un nuovo design» (Iannilli, Spagnoli 2021, p. 51).

Le autrici discutono l’innovazione dell’ecosistema omni-channel e il suo effetto “phygital”, all’interno delle trasformazioni della cosiddetta industria 4.0. Le aziende ispirate da tali trasformazioni introducono nuove tecnologie nei propri store. Ne è un esempio Burberry, che “è stato uno dei primi a implementare l’uso dell’RFID all’interno di alcuni flagship store dal 2012” (ivi, p. 53) ma anche a sviluppare un concetto di spettacolo e intrattenimento nel suo flagship store di Regent Street. Il contrasto tra la sede storica e l’innovazione tecnologica trasforma tale negozio in un luogo per eventi dove i clienti possono esperire i valori e i contenuti del brand, attraverso diversi dispositivi. Come l’enorme schermo che trasmette in streaming le sfilate ma che dà anche vita a “eventi” meteorologici inattesi (Alexander 2012), come il temporale digitale che ricorda il legame tra il brand, il suo prodotto di punta e le caratteristiche del contesto.

Questi luoghi, «collocati nelle migliori location della città, con l’intenzione di creare un ambiente di vita: un ‘brandscape’ […] per facilitare l’identificazione del cliente con il mondo del marchio” utilizzando “la teatralità come strumento di seduzione per ottenere un impatto sensoriale su larga scala» (Soloaga 2017, p. 42).

Per concludere, le principali caratteristiche del nuovo ecosistema tecnologico che sta trasformando il retail sono: a) la dimensione Customer-Centrica; b) la dimensione phygital. Entrambe mirano a colmare lo scarto che sussiste tra la comunicazione online, in cui si sa praticamente tutto del consumatore, e quella offline in cui mancano numerose informazioni sul suo comportamento. Tali trasformazioni non modificano solo i canali distributivi ma intervengono sulla natura stessa del brand che tende a modificarsi in maniera sostanziale in funzione dei pubblici a cui si rivolgono. Come nella collaborazione di qualche anno fa tra Fendi e Fila, in cui il logo stesso della griffe di lusso viene ibridato con quello dell’azienda di sportswear per raggiungere più efficacemente i consumatori della gen z (soprattutto attraverso le vetrine della Rinascente). La vocazione Customer-Centrica non è animata solo da un’esigenza umanista che vuole porre il consumatore al centro dell’universo gestito dalle marche, come nelle più rilevanti rivoluzioni “copernicane” realizzate in fisica e in filosofia. Il rischio di tali innovazioni è talvolta quello di realizzare una sorta di populismo dei brand, che a ogni costo aspirano a intercettare le esigenze dei consumatori: una di quelle possibili derive negative della Cultura Pop rispetto a cui spesso in questi Prolegomeni Marco Minghetti ci ha stimolato a tenere alta la guardia.

BIBLIOGRAFIA

Anderson, L.J., Discoverig the process of mass customization: a paradigm shift to competitive manufacturing, National Textile Center Research Brief, 1997.

Barile, N., Dress Coding Moda e stili dalla strada al metaverso, Milano, Meltemi, 2022

Danese, E., Issey Miyake. Tecnologia e tradizione negli abiti, “Disegno in- dustriale”, settembre 2004.

Fabris, G.P., Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano 2003.

Foglio, A., Il marketing della moda. Politiche e strategie di fashion marketing, Franco Angeli, Milano 2007.

Iannilli, M. V., Spagnoli, L., Phygital Retailing in Fashion. Experiences, Opportunities and Innovation Trajectories, “zoneModa Journal”, Vol.11 n.1, 2021.

McStay, A., Emotional AI. The rise of empathic media, Sage, London 2018.

Soloaga, P. D., Fashion films as a new communication format to build fashion brands, in AA.VV., Fashion Film & Transmedia – An Antho- logy of Knowledge and Practice, Published by VIA Film & Transmedia Research & Development Centre, 2017.

Stephens, D., Reengineering Retail: The Future of Selling in a Post-Digital World, Figure 1 Publishing, Vancouver 2017.

Toffler, A., Future shock, Random House, New York 1970; tr. it. di B. Oddera, Lo choc del futuro, Rizzoli, Milano 1972.

24 – continua

Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)

Puntate precedenti:

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE  POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO
22 – OPINION PIECE DI ROBERTO VERONESI
23 – OPINION PIECE DI FRANCESCO GORI