I valori della Pop Economy: Co-creazione
Come abbiamo visto nei Prolegomeni dedicati in particolare a Leadership Pop, Collaborazione Pop e Organizzazione Pop, l’approccio conviviale e convocativo è decisivo per lo sviluppo dei processi di co-creazione del valore affermatisi con l’avvento della Socialnomics[i] e più in generale di un mondo sempre più digitalizzato, virtualizzato, piattaformizzato e metaversalizzato (ovvero nell’era dei media digitali descritta da Vanni Codeluppi in Prolegomeni 10).
Tuttavia, c’è chi, come Ivan Pais (anche lei fra i partecipanti dell’imminente Digital Festival parmense), solleva ragionevoli dubbi[ii]: «Il 30 dicembre 2014 l’Economist metteva in copertina un rubinetto d’oro da cui sgorgavano autisti, medici, lavoratori domestici, manager, camerieri. L’immagine rappresentava in modo efficace la diffusione del lavoro a chiamata, con lavoratori a disposizione come l’acqua di rubinetto, che si apre e si chiude a piacimento. La diffusione del lavoro intermittente veniva attribuita alle piattaforme digitali che facilitano l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro e quell’articolo di copertina può essere considerato il punto di avvio di un dibattito pubblico e accademico molto vivace sul cosiddetto lavoro di piattaforma.
A dieci anni di distanza, la riflessione su questo fenomeno è a un punto di svolta: se per tanto tempo l’attenzione è stata rivolta alle “aziende piattaforma” (come Uber, Glovo, Amazon, Upwork, eccetera) ora è sempre più evidente che il lavoro di piattaforma non è un settore ma è un modello organizzativo, che può essere adottato da tutte le aziende.
Si sta riproponendo quanto avvenuto con innovazioni precedenti: nel 1913 Henry Ford implementò la catena di montaggio, adottando i principi di organizzazione scientifica del lavoro identificati da Frederick Winslow Taylor.
Le teorie di ottimizzazione e le pratiche di produzione di massa promosse dal taylor-fordismo hanno poi trovato applicazione fuori dal settore automobilistico, hanno trasformato l’industria moderna e hanno interessato anche il settore dei servizi».
Il management algoritmico
Quali sono dunque le caratteristiche del modello organizzativo introdotto dalle aziende piattaforma?
Un primo elemento distintivo è il management algoritmico, che è stato definito dalla Commissione europea come «l’uso di procedure programmate al computer per il coordinamento dell’input di lavoro in un’organizzazione».
Prosegue Pais: «Abbiamo iniziato a conoscere il (mal)funzionamento degli algoritmi con le prime proteste dei lavoratori di Uber nel 2015, a cui sono seguiti gli scioperi contro Frank, l’algoritmo di Deliveroo, o quelli dei lavoratori di Amazon Mechanical Turk. Le principali critiche riguardano la mancanza di trasparenza, i rischi di discriminazione e l’aumento dell’intensità del lavoro. Gli algoritmi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro vengono oggi adottati da un numero crescente di aziende, anche nella pubblica amministrazione. Sono ormai numerose le sentenze a favore di insegnanti che hanno contestato la legittimità e l’equità del sistema algoritmico per l’assegnazione delle supplenze utilizzato dal Ministero dell’istruzione già dal 2017».
Sul tema dei “bias” che condizionano gli algoritmi vedi Come cambia il linguaggio umano di fronte all’avvento del linguaggio artificiale? Una Conversazione con Elena Esposito. Mi interessa adesso concentrare l’attenzione sul secondo elemento distintivo di una azienda piattaforma secondo Pais: «il ruolo dei consumatori, che si fanno carico – spesso involontariamente – del lavoro di supervisione e controllo dei lavoratori, tradizionalmente esercitato dai manager intermedi. Le aziende piattaforma, al termine di ogni prestazione, non rilevano solo la soddisfazione dei clienti rispetto alla qualità del servizio, ma chiedono loro di valutare la prestazione del singolo operatore e poi utilizzano questi giudizi per definire i sistemi di ricompensa e i percorsi di carriera dei lavoratori.
La datificazione della persona
Se il controllo è delegato ai clienti, il potere resta accentrato nelle mani del management di primo livello, che definisce le modalità attraverso cui le valutazioni dei clienti vengono aggregate e poi usate per disciplinare il comportamento degli utenti sulla piattaforma. Le criticità legate a questo meccanismo sono emerse, anche in questo caso, con Uber, che disconnette dalla piattaforma gli autisti con una valutazione media sotto 4,6 in una scala da 1 a 5.
Nonostante la disponibilità di numerose ricerche che dimostrano l’inefficacia delle valutazioni espresse dai clienti, questo modello si sta diffondendo in tutti i settori. Anche nelle professioni qualificate, come medici e professori universitari, dove il giudizio profano dei pazienti e degli studenti integra – a volte sostituisce – il giudizio esperto dei pari.
Nel modello piattaforma, la centralità del cliente è molto più di una semplice strategia di marketing: oltre a sostituire (almeno in parte) il management nella valutazione della forza lavoro/forza vendita, i consumatori producono valore attraverso i loro dati. Nelle aziende piattaforma questo processo di datificazione è particolarmente evidente: Netflix, per esempio, analizza i dati degli spettatori per determinare quali generi e formati sono più popolari e ottimizzare la produzione di contenuti originali. Processi analoghi sono in corso anche in aziende tradizionali.
A dieci anni dall’articolo dell’Economist, la frammentazione del lavoro perde centralità anche per la comparsa di piattaforme che offrono maggiori tutele. D’altro canto, emergono nuove criticità legate alla diffusione del modello piattaforma in tutti i settori dell’economia, che potrebbero aumentare con l’adozione di sistemi di Intelligenza artificiale».
Co-generazione e sensemaking
Cosa rispondere a questi rilievi? Innanzitutto, che si può avere co-creazione creativa, ovvero generazione e realizzazione di un valore aziendale condiviso con gli stakeholder, solo in quei contesti imprenditoriali fondati sulla produzione individuale e collettiva di senso (sensemaking) che in letteratura vengono chiamati Social Organization. Con questo termine si indicano le organizzazioni nelle quali la creazione del valore e del vantaggio competitivo dipendono fortemente dall’utilizzo dei social media, interni ed esterni, che favoriscono quella che viene chiamata “mass collaboration”, ovvero il lavoro collettivo di persone, anche lontanissime fisicamente, grazie alla costituzione di community (di progetto, di processo, di ingaggio, di formazione, di pratica, di innovazione: vedi Prolegomeni 12, Prolegomeni 13, Prolegomeni 14 e Prolegomeni 15).
Secondo questo approccio, il mercato può essere un luogo dove aziende e clienti/consumatori condividono, combinano e rinnovano insieme risorse e capacità per creare valore attraverso nuove forme di interazione e metodologie di apprendimento, che non escludono a priori l’Intelligenza Artificiale– cfr. gli Opinion Piece di Alessio Mazzucco e Marco Milone.
Come ho cercato di dimostrare nel mio libro Intelligenza Collaborativa, tuttavia, la co-creazione di valore, intesa come principio fondativo di un modello organizzativo umanistico (e Pop, aggiungo oggi: vedi i Prolegomeni introduttivi) alternativo a quello tradizionale, scientifico o taylor-fordistico, alias populistico, dove sono presenti aziende attive e consumatori/clienti passivi, può darsi solo in contesti autenticamente conviviali e convocativi, dove il potere di parola è dato all’interno alle persone nella stessa misura in cui è dato all’esterno ai clienti/consumatori.
Alla base di una Social Organization conviviale vi è dunque il valore della condivisione nel senso che ad esempio è stato celebrato anche dal Presidente della Repubblica in un messaggio inviato a Pordenonelegge 2024: «Questo festival — scrive il capo dello Stato — rappresenta da sempre un momento di dialogo fra saperi, conoscenze e generazioni diverse, in sintonia con lo spirito del Friuli-Venezia Giulia, terra di incontro fra popoli e culture differenti. Con il merito di stimolare il confronto non solo sui temi più strettamente legati alla letteratura, ma anche sulle tematiche più vicine all’attualità».
La nascita della co-generazione
Per contestualizzare ancor meglio il discorso, ricordiamo che sono stati gli studiosi C. K. Prahalad e Venkat Ramaswamy a introdurre il concetto di co-generazione nel loro articolo del 2000 apparso sulla rivista Harvard Business Review, Co-Opting Customer Competence.[iii]
Essi svilupparono le loro idee ulteriormente nel libro The Future of Competition[iv]dove offrivano esempi di realtà allora allo stato nascente come Netflix, mostrando che i clienti/consumatori all’alba del nuovo millennio non erano più soddisfatti semplicemente dal dire sì o no ai prodotti e ai servizi lanciati sul mercato. Il valore, affermavano, sarà sempre più co-creato dall’azienda e dal consumatore/cliente.
La co-creazione, sostenevano, non è solo una tendenza alla produzione/creazione condivisa delle soluzioni (prodotto/servizio): descrive anche un passaggio dai clienti/consumatori che acquistano prodotti e servizi come transazioni a quelli che vedono questi acquisti come parte integrante della esperienza totale percepita: consumatori che scelgono di interagire con l’azienda attraverso una gamma di esperienze diversificate e personalizzate.
L’alba del prosumer
Si trattava di un processo iniziato già agli albori gli albori degli anni Settanta, quando il futurologo Alvin Toffler esordì con il libro Future Shock (1970), nel quale elencava con estrema precisione le principali trasformazioni che la tecnologia avrebbe indotto nella società e nel mercato da lì a pochi anni.
Già appariva chiaro il passaggio che dalla microsegmentazione del mercato avrebbe condotto all’integrazione attiva del consumatore nella filiera produttiva, le cui dirette ripercussioni sulla sfera culturale mettevano in discussione le teorizzazioni che invece avevano insistito sulla crescente omogeneizzazione delle pratiche di consumo. Nel suo libro successivo, The Third Wave (1980), lo studioso tematizzava l’avvento del prosumer, che riporta in auge la fusione preindustriale tra produzione e consumo grazie all’evoluzione delle tecnologie informatiche. Nel medesimo libro Toffler si spingeva a prevedere un mercato completamente stravolto dalle nuove invenzioni che avrebbe incluso, progressivamente, il consumatore nella filiera dalla produzione.
La realtà contemporanea della co-creazione
Quarant’anni dopo, la co-creazione di prodotti, servizi, contenuti mediatici, promozioni, spot pubblicitari è considerata parte integrante e ineludibile dell’innovazione, della competitività e del miglioramento del sistema offerta-domanda. Nella realtà contemporanea della co-creazione, gli utilizzatori collaborano attivamente con i produttori nell’ideazione, nell’implementazione, nella fruizione e perfino nella promozione dei prodotti o servizi co-creati nell’ambito delle piattaforme digitali ormai saldamente presenti nella nostra vita quotidiana.
Un buon esempio pratico di questa realtà è costituito da ELIS Innovation Hub, ispirata ai criteri di Open Innovation di cui abbiamo parlato in Prolegomeni 7, la cui mission, leggiamo su Economy Up del 13 ottobre, «è quella di accompagnare aziende, territori ed istituzioni nel loro processo di cambiamento, facendo leva sul potenziale delle persone.
Il modello di innovazione messo in campo prevede la collaborazione tra i diversi attori dell’ecosistema, per far convergere il loro potenziale innovativo e generare un cambiamento di valore per il business e la società civile. Lavorare ed innovare insieme permette la costruzione di nuove architetture, che combattono la resistenza al cambiamento e generano impatto in tutte le sfide sociali, legate dal filo rosso dell’innovazione».
L’esempio di Enilive: co-creazione per la mobilità
«Uno degli esempi di applicazione del modello di ELIS Innovation Hub è la collaborazione con Enilive, la società di Eni dedicata alla trasformazione della mobilità tramite la formulazione di modelli di business multi-energy e multi-service incentrati sul cliente. L’ecosistema della mobilità è nel pieno di una rapida evoluzione: l’integrazione degli strumenti digitali e le sempre più numerose fonti energetiche a disposizione degli automobilisti fanno sì che le nuove stazioni di servizio debbano soddisfare non più solo il guidatore, ma il viaggiatore, offrendo spazi multifunzionali dedicati alla vettura, alla persona e al viaggio stesso. Ecco perché il gestore della stazione di servizio progettata da Enilive deve assumere i tratti di un vero e proprio imprenditore in grado di sviluppare, proporre, monitorare e adattare tutte le attività del proprio hub di servizi con un approccio dinamico e innovativo.
ELIS Innovation Hub ha supportato Enilive nella definizione della nuova figura professionale dello Station Manager e lo ha affiancato lungo il percorso di identificazione dei parametri da adottare per il processo di recruiting e delle soft skill da trasmettere agli aspiranti Station Manager. L’obiettivo è stato quello di alimentare un approccio innovativo, customer-centric, alle evoluzioni richieste da questo ruolo non solo in termini di servizi non-oil, ma anche e soprattutto rispetto all’emergere di nuove tecnologie abilitanti».
L’azienda piattaforma: il modello sottostante
Siamo dunque ormai entrati a pieno titolo nell’era delle aziende piattaforma, la cui caratterizzazione fondamentale viene data un po’ per scontata da Pais nel suo articolo. Credo sia dunque utile a questo punto richiamare il testo fondamentale di Choudary Platform Revolution[v], secondo cui una piattaforma digitale è «un modello di business plug-and-play che consente agli utenti e agli oggetti connessi di collegarsi, orchestrandoli attraverso interazioni efficienti».
La piattaforma lavora su tre dimensioni crowd-driven: pull – attraggo una crowd, una moltitudine di persone, che produce; facilitate – agevolo le interazioni sulla piattaforma; match – incrocio quanto prodotto con le esigenze di una crowd che consuma. In questo modello, sottolineava Cosimo Accoto in una Conversazione pubblicata il 22 febbraio 2016 su NOVA100, «è rilevante la capacità delle piattaforme di attivare dei filtri, che possono essere di natura editoriale, algoritmica o social, con cui la produzione della crowd viene filtrata (la produzione crowd non è sempre di qualità o mirata) e può arrivare alla crowd che consuma nella maniera più significativa possibile. Airbnb attiva meccanismi di filtro, curation e customizzazione (tag, rating degli utenti, selezione per geolocalizzazione, prezzo, eccetera) per connettere chi propone una stanza e chi la sta cercando».
Comunicazione simbolica vs comunicazione algoritmica
«Secondo alcuni« sosteneva ancora Accoto «questo lascerebbe presagire una perdita di efficacia della “comunicazione simbolica” (branding, advertising, media, journalism) a favore della “comunicazione algoritmica” (sensing, filtering, sorting, matching). Nella comunicazione con gli umani, in altre parole, il marchio è finora servito come meccanismo di riduzione di incertezza, complessità e congestione. Ha aiutato chi consuma a scegliere una specifica crema di nocciole (o un libro) in mezzo a tante possibilità proposte su uno scaffale.
Ma nelle interazioni di mercato sempre più automatizzate con bot, dati, software, sensori e Intelligenza Artificiale, il meccanismo di riduzione dell’incertezza diviene l’algoritmo. Algoritmi che selezionano, suggeriscono, anticipano, personalizzano servizi, applicazioni, esperienze. In effetti» concludeva profeticamente Accoto «in molti sono impegnati a ragionare intorno alle macchine intelligenti, ma sottostimano una dimensione forse ancor più rilevante. Vale a dire l’emergenza di macchine retoriche».[vi]
L’attuale esplosione di Chat GPT e di altri dispositivi che istanziano un “modello linguistico su larga scala” (LLM o Large Language Model) gli sta dando clamorosamente ragione (e, nel frattempo, Accoto è diventato una vera e propria superstar Pop del tecnoevangelismo: protagonista di decine di eventi ogni anno – convegni, workshop, programmi televisivi – nonché indefesso autore di post giornalieri sul suo profilo LinkedIn, nella business arena è più popolare dei Ferragnez prima dei noti scandali).
Tuttavia, per tornare al punto, la plat-firm (l’azienda-piattaforma)[vii] deve prevedere non solo meccanismi di filtro, ma soprattutto, ancora una volta, di co-creazione del valore: in particolare, la moneta di scambio (che può essere simbolica o monetaria) e i sistemi di cattura del valore specifico creato da chi interagisce, collaborando con essa. Attraverso questo processo evolutivo si attua anche la trasformazione da quella che un tempo veniva chiamata Media Company alla Hypermedia Company. Anzi, Platfirm.
La Media Company
Cosa intendiamo per Media Company? Una possibile definizione è la seguente: un’organizzazione che utilizza la comunicazione come leva del marketing, trasformandosi in un editore che crea e/o distribuisce contenuti rilevanti e di valore per attrarre, acquisire e coinvolgere un pubblico circoscritto con l’obiettivo di indurlo a compiere azioni volte al profitto dell’azienda.
I principali driver di una Media Company sono:
- multicanalità/multimedialità. Un concetto antichissimo: pensiamo ai codici miniati medioevali, dove le illustrazioni accompagnano e arricchiscono il testo originale. Una tradizione che arriva fino ai giorni nostri, passando attraverso la grande tradizione dei libri illustrati e fotografici di cui quelli di Alice sono esempi celebri e in cui rientrano testi come L’Impresa shakespeariana, Nulla due voltee Ariminum Circus Stagione 1;
- convergenza e transmedialità. Jenkins intende per convergenza il flusso dei contenuti su più piattaforme, la cooperazione tra più settori dell’industria dei media e il migrare del pubblico alla ricerca continua di nuove esperienze di intrattenimento[viii];
- ri-mediazione (remediation). Il neologismo coniato da Bolter e Grusin indica l’utilizzo di un medium di massa in un altro[ix];
- l’innovazione del sistema distributivo in ottica omnichannel e il suo effetto “phygital”, all’interno delle trasformazioni della cosiddetta industria 4.0 e della scomparsa degli ecosistemi chiusi, dettagliatamente descritte dal Pop Opinionist Nello Barile nel suo contributo a questi Prolegomeni[x];
- il processo di branding, ovvero «l’insieme di attività strategiche e operative che contribuiscono alla costruzione e alla gestione della marca e all’autenticità della sua narrazione»[xi].
L’Ipercomunicazione
Negli ultimi anni questi driver sono stati tutti potenziati nel contesto dell’Ipercomunicazione, cui sottende quella tendenza all’iper-scelta già ravvisata da Alvin Toffler: «[…] la società del futuro offrirà non già un afflusso di beni limitati e standardizzati, ma la più grande offerta di beni e di servizi non standardizzati che qualsiasi società abbia mai veduto […]. Stiamo in effetti correndo verso l’iper-scelta. Il punto nel quale i vantaggi della diversità e dell’individualizzazione verranno annullati dalla complicazione del processo della decisione da parte dell’acquirente» (The Third Wave, pp. 265, 269).
Inoltre, nell’evoluzione delle realtà aziendali si sono innestati altri fattori:
- i digital media si sono evoluti sempre di più in termini di interattività e immersività: il mercato di realtà virtuale e aumentata è in costante crescita, impattando inesorabilmente sul modo stesso in cui intendiamo le reti relazionali e le abbiamo pensate finora;
- i digital media, inoltre, hanno acquisito un potere trasformativo – un link testuale diventa un acquisto – che richiede nuove logiche di progettazione e vendita dei prodotti/servizi;
- i dati hanno pervaso il modo in cui le aziende prendono decisioni, facilitato anche dall’utilizzo spinto dell’Intelligenza Artificiale come nuovo abilitatore che aumenta il potenziale di contatto e di relazione, rendendo le conversazioni più evolute ed efficaci;
- lo smart working e il lavoro ibrido hanno accelerato il fenomeno di consumerizzazione dell’employee, rendendo sempre più sottile la distinzione fra i diversi stakeholder aziendali in termini di rapporto con i dispositivi e contenuti digitali – aspettative, bisogni e comportamenti (Total Experience, ancora una volta);
- le “firm”, abbiamo detto, si sono trasformate in “platfirm”. Il neologismo nasce dalla fusione tra platform e firm e indica la prospettiva che vede le organizzazioni come piattaforme. Le società digitali nascono in realtà già come piattaforme (Facebook, eBay, Google, Uber, Airbnb), ma anche quelle più tradizionali si stanno strutturando come reti di piattaforme di interazione per la co-creazione intensiva di valore, beneficiando di scalabilità rapida, dell’effetto di rete, dell’apertura agli attori e community dell’ecosistema (non solo consumatori, ma community di developer, acceleratori di soluzioni, eccetera). Per questo l’azienda tradizionale che vuole accettare la sfida della Digital Disruption deve innanzitutto configurarsi come Social&Digital Workplace, che rappresenta la naturale evoluzione della Intranet/Extranet/sito Internet: da semplice portale operativo o di comunicazione interna/esterna a effettivo spazio digitale aziendale in cui tutte le applicazioni e i processi chiave (come comunicazione, collaborazione, conoscenza, logistica, operations, eccetera) sono gestiti e interfacciati[xii];
- i Manager stanno diventando Pop: come ha indicato Matteo Luisiani nel suo Opinion Piece, trattano sempre più «i propri brand come un autore tratta la propria opera d’arte: riversando al suo interno un significato, ma accettando che quel significato possa essere interpretato liberamente dal pubblico in un atto di co-creazione»[xiii].
L’Hypermedia Platfirm
Il combinato disposto di questi fattori produce l’Hypermedia Platfirm: un’evoluzione esponenziale della Media Company. Ovvero una realtà che guarda all’intero, complesso, universo dei propri stakeholder (clienti, dipendenti, fornitori, reti…) per la creazione di esperienze collaborative multicanale, transmediali e integrate, data driven ma anche people-care oriented, che diano luogo a ecosistemi conversazionali di informazione, intrattenimento, educazione e relazione human to human, ma anche human-to-machine e machine-to-machine. Per ascoltare, conoscere e valorizzare le persone con l’obiettivo di generare HyperEmpowerment: ingaggio ad alto tasso di efficacia ed efficienza. Attraverso una HyperLeadership basata sull’Intelligenza Collaborativa – stando bene attenti a non cadere nella trappola dell’Hyperpoliticamente corretto!
A quest’ultimo proposito, tuttavia, c’è da segnalare una recente inversione di tendenza ben documentata a settembre 2024 ancora una volta dall’Economist: «Per corroborare la tendenza rivelata dai sondaggi d’opinione, abbiamo misurato la frequenza con cui i media hanno utilizzato termini come “intersezionalità”,“microaggressione”, “oppressione”, “privilegio bianco” e “transfobia”. Contando la frequenza di 154 di queste parole in sei giornali – Los Angeles Times, New York Times, New York Post, Wall Street Journal, Washington Post e Washington Times – tra il 1970 e il 2023, la frequenza di questi termini ha raggiunto un picco tra il 2019 e il 2021, per poi diminuire. Abbiamo riscontrato la stessa tendenza in televisione, applicando lo stesso metodo di conteggio delle parole alle trascrizioni di Abc, Msnbc e Fox News dal 2010 al 2023, e nei libri, utilizzando i titoli dei 30 libri più venduti ogni settimana tra il 2012 e la metà di quest’anno. Le menzioni delle parole woke in televisione hanno raggiunto il picco nel 2021. Nei libri popolari il picco è arrivato più tardi, nel 2022, con un piccolo calo nel 2023 seguito da un calo molto più marcato nel 2024.
Wokeness go home!
Nel mondo accademico, spesso considerato un focolaio di wokeismo, la tendenza è più o meno la stessa. Le richieste di sanzioni disciplinari nei confronti degli accademici per le loro opinioni, come documentato dalla Fondazione per i diritti individuali e l’espressione, hanno raggiunto il picco nel 2021, con un totale di 222 incidenti segnalati. Anche l’insegnamento e la ricerca sembrano allontanarsi, almeno in parte, dalla wokery. I corsi che invocavano termini woke nel loro nome o nella loro sinossi sono aumentati di circa il 20% tra il 2010 e il 2022, ma sono rimasti stabili l’anno scorso.
In parte, la ritirata del mondo accademico dalla wokeness è stata ordinata dalla legge. L’anno scorso la Corte Suprema ha vietato di prendere in considerazione la razza nelle ammissioni. Secondo il Chronicle of Higher Education, nell’ultimo anno 86 proposte di legge in 28 Stati hanno mirato a limitare le iniziative Dei (Diversità, eguaglianza, inclusione) nel mondo accademico; 14 sono diventate legge. Nove Stati vietano alle istituzioni accademiche di richiedere “dichiarazioni di diversità” ai candidati al lavoro. All’inizio di quest’anno diverse università importanti, tra cui Harvard e il Massachusetts Institute of Technology, hanno ceduto alle pressioni dei donatori e degli ex allievi e le hanno abbandonate. Altre, come l’Università della California, hanno affrontato cause legali per il loro continuo utilizzo.
La wokeness è in ritirata anche nelle aziende americane, anche se è apparsa solo di recente. Secondo Revelio, che tiene traccia delle statistiche sul lavoro di un gruppo di grandi aziende americane, i ruoli Dei sono raddoppiati rispetto all’occupazione complessiva dall’inizio del 2016 alla fine del 2022 (allo 0,02% di tutti i dipendenti, ovvero circa 12.600 ruoli). Ma nelle stime più recenti, a partire da luglio, questi numeri sono diminuiti dell’11% rispetto al loro picco (allo 0,018% dei dipendenti, o 11.100 ruoli).
Perché le aziende abbandonano il woke
Il calo dell’entusiasmo delle aziende per il woke potrebbe avere diverse cause. In primo luogo, in ogni riduzione della spesa, le funzioni di supporto sono le prime a subire tagli. Un’altra possibilità è che le aziende stiano prendendo atto del calo dell’entusiasmo pubblico per l’attivismo sociale delle imprese. Gallup ha rilevato un forte calo, tra il 2022 e il 2023, della percentuale di americani che gradisce che le aziende prendano posizione su questioni di dibattito pubblico. Meno della metà, ad esempio, ritiene che le aziende debbano esprimersi su questioni razziali o sui diritti degli omosessuali. La Bud Light, una popolare marca di birra, ha subìto un forte calo delle vendite lo scorso anno dopo una collaborazione promozionale con una star transgender dei social media. Le azioni della società madre si sono riprese solo di recente.
Anche altri grandi marchi, tra cui la Disney, un’azienda che opera nel settore dei media, e Target, un rivenditore al dettaglio, hanno subìto reazioni negative a causa di comportamenti che alcuni clienti consideravano troppo woke»[xiv].
Esperienza, intrattenimento, scambio, sostegno
Oltre che da quelle fin qui evidenziate, una Hypermedia Platfirm è caratterizzata da altre quattro dimensioni, che sono state tutte rinforzate dalla nuova sensibilità venutasi a creare durante il periodo pandemico e post-pandemico:
- Ne fanno parte tutti gli «eventi di comunicazione» legati al fare insieme, al gioco, al team building e alla competizione. È una dimensione che si è dovuta re-inventare quasi totalmente a causa della pandemia, con mix sempre più creativi di digitale e live. Si può andare da brevi video-pillole, journal dettagliati o semplici post, creati sulla Intranet o sulla community d’ingaggio, con trucchi e suggerimenti su dieta, fitness, skincare e stile di vita per arrivare alla condivisione di momenti extra-lavoro: un’escursione, una partita di calcetto, un concerto, una serata a teatro.
- Comprende tutte le iniziative legate al partecipare, al celebrare, ma anche al divertimento fine a se stesso. Un’esigenza connessa alla ricerca di una nuova prossimità fra le persone e di maggiori garanzie di sicurezza individuale anch’essa sorta durante l’imperversare del Covid 19 e a esso sopravvissuta. In questi casi le grandi aziende spesso ingaggiano noti artisti (cantanti, attori, ballerini, eccetera) per grandi feste aziendali.
- Scambio, finalizzato alla crescita delle persone. In Unipol, il neologismo “generationship” viene utilizzato per raccogliere un ampio spettro di iniziative volte ad arricchire una conversazione intergenerazionale apportatrice di competenze ed esperienza (fra cui la creazione dell’Osservatorio Generationship, che realizza ricerche finalizzate a offrire un punto di vista originale su lavoro, famiglia, socialità e benessere, approfondendo, in particolare, gli orientamenti della Gen Z e l’impatto della tecnologia su alcune sfere della vita pubblica e privata). Pura Intelligenza Collaborativa tradotta in pratica manageriale.
- In questa categoria rientrano programmi, politiche e processi tesi all’informazione e al servizio alla persona. Diversi studi condotti fra il dicembre 2020 e il marzo 2024 dal Centre for Employee Relations and Communication dell’Università IULM hanno dimostrato come le aziende più attente prima e dopo la pandemia si siano focalizzate nel fornire risposte pratiche ai collaboratori: intervenendo in modo tempestivo sono riuscite a tenere unite le persone, così da far convergere gli sforzi di tutti verso il superamento delle situazioni più critiche. Complessivamente si è andata configurando una cultura della “cura” che ha acquisito nuova linfa in un periodo in cui la fiducia nelle organizzazioni ha superato quella nei confronti delle istituzioni – a tutti i livelli (cfr. Prolegomeni 30 e Prolegomeni 32).
HyperIdentitià connesse in HyperSocietà
In conclusione, la Hypermedia Platfirm è il risultato di un processo iniziato all’alba del nuovo millennio, a mano a mano che i dispositivi e i contenuti digitali hanno aperto a nuove tipologie di distribuzione/fruizione e di relazione – interattiva – con il pubblico, interno ed esterno. Anzi: con i singoli dipendenti e clienti, divenuti collaboratori attivi.
I quali nel frattempo hanno evoluto la propria identità in una “iperidentità” che si muove fra reale e virtuale, analogico e digitale, online e offline: ovvero l’identità molteplice che ispira fin dal titolo le Variazioni Impermanenti in cui si articola il Manifesto dello Humanistic Management. Il Management di un’Hypermedia Platfirm ha la responsabilità di ascoltare, conoscere e valorizzare le persone iperidentitarie per generare quello che definisco HyperEmpowerment: un ingaggio efficace ed efficiente, per cui ogni individuo può mettere le proprie competenze e aspirazioni al servizio degli obiettivi dell’azienda, contribuendo attivamente alla sua trasformazione e innovazione.
A questo si aggiunge la forte accentuazione sulla fluidità di genere, oramai così pervasiva da avere intaccato la stessa identità aziendale, non più definita dal semplice brand, ma da un “fluid brand”, flessibile, dinamico, che rompe schemi preimpostati e si costruisce su modelli che possono evolvere, cambiare, pur restando fedele ai propri princìpi, aumentando la capacità di adattarsi al contesto, alle situazioni, alle persone con cui si confronta, cambiando il proprio look, il proprio linguaggio, il proprio modo di essere e stare nelle situazioni.
Cybercapitalismo
Ovviamente tutto questo ha un suo lato oscuro. Scrive ad esempio Lelio Demichelis recensendo Cybercaptitalismo di Emanuela Fornari: «Siamo davvero in una società post-industriale e immateriale o non è piuttosto una società iper-industriale e iper-industrializzata, oggi che il taylorismo si è fatto digitale ma sempre di taylorismo si tratta? E non è forse vero che anche la Fabbrica 4.0 (in attesa della 5.0) e il digitale (che sarebbe un cambio di paradigma radicale rispetto al passato), sono sempre una fabbrica, dove comunque vi è qualcuno che organizza, comanda e sorveglia (oggi magari un algoritmo) e sempre vi è qualcuno che deve eseguire (e siamo tutti riders di qualche piattaforma)?».
E sul tema dell’iperidentità cita proprio quel Deleuze da cui si è originata tutta la riflessione sul Pop Management: «chiudiamo con Gilles Deleuze e il suo concetto di dividuale: “Un concetto” – in realtà di un individuo trasformato in un divisum aveva scritto ad esempio Günther Anders molto prima di Deleuze – “che vuole indicare appunto un soggetto ridotto a dividuo, a qualcosa di scomponibile per essere ricomposto e rimodellato a seconda delle esigenze del valore: quello che, ormai, viene definito capitale umano”.
Che è il correlato, scrive Fornari “dell’odierno cybercapitalism che, producendo dividuali (soggetti tagliati e sezionati secondo nuovi assi di gerarchizzazione), si profila come un inedito modo di dominazione che frammenta il legame sociale” – che tuttavia non sembra essere davvero inedito. Resta la domanda fondamentale – che riprendiamo da Fornari facendola pienamente nostra (ma che dovrebbe essere di tutti) – se siano cioè “possibili vie di fuga per il post-soggetto contemporaneo […] per future e liberatorie forme di istituzione della società”. Un soggetto/homo oeconomicus che ormai è però “diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice” – scriveva Max Weber, più di cento anni fa. Il che complica maledettamente le cose»[xv].
HyperSmart Society
Senza negare la complessità della situazione (vedi la discussione fra me e Francesco Varanini in Prolegomeni 20 e Prolegomeni 21) io credo sia possibile una visione positiva di una cyber-società presente-futura: come quella che un Paper Bip chiama HyperSmart Society che ha il suo epicentro nelle HyperSmart City[xvi] e «che viene dopo la società dei cacciatori-raccoglitori, la società agricola, la società industriale e la società dell’informazione.
Il digitale resterà fondamentale, ma solo se sarà alla base della sostenibilità economica, ambientale e sociale, con effetti positivi sulla mobilità, e riducendo l’inquinamento e le disuguaglianze. Un processo che possiamo definire concisamente “Innovazione Sociale”. L’efficacia della tecnologia e dei nuovi modelli di business si misura dai cambiamenti positivi che apportano alla vita delle persone e dal loro contributo alla creazione di valore condiviso.
Stiamo attraversando un periodo cruciale nell’evoluzione della società umana, che si trova ad affrontare molteplici crisi con impatti importanti sia sugli stili di vita che sulla capacità di creare valore economico. Le conseguenze della pandemia, non ancora del tutto superata, il cambiamento climatico, l’aggravarsi delle disuguaglianze socioeconomiche, la crisi energetica e il ritorno della guerra in Europa hanno innescato un effetto domino, che sconvolgerà i paradigmi tecnologici su cui si fonda la società moderna.
In questo contesto di grandi sconvolgimenti, vi è una crescente consapevolezza che le varie crisi a cui stiamo assistendo a livello globale possono e devono essere considerate dagli ecosistemi dell’innovazione come una grande opportunità per stimolare la transizione verso una società “Super Smart”, più sostenibile, resiliente e incentrata sull’uomo, come risultato dell’applicazione delle nuove tecnologie»[xvii].
L’AgentiveAI
Questo nuovo paradigma economico, prosegue il paper Bip, vede i sistemi tradizionali sostituiti da forme innovative di relazioni economiche. Le tendenze emergenti delineano uno scenario in cui l’e-commerce personalizzato, l’integrazione omnicanale, l’uso dell’IA e l’analisi avanzata saranno fondamentali nel plasmare il futuro del retail, del comportamento dei consumatori e nell’evoluzione dei modelli di acquisto.
In questo quadro emerge l’AgentiveAI: un agente AI che potrà affiancare l’utente come un personal shopper dai super poteri. In un futuro molto prossimo, infatti, sarà sufficiente indicare le necessità e preferenze di acquisto, e il virtual agent sarà in grado di gestire tutto il processo, dalla ricerca al pagamento.
Secondo gli esperti di Bip, la banca si trasformerà nel soggetto abilitante di questo modello. Il concetto di Embedded Finance sta trasformando il settore bancario, integrando i servizi finanziari in contesti non bancari come e-commerce, sanità, istruzione e trasporti. Questa integrazione permette ai consumatori di accedere a soluzioni finanziarie personalizzate direttamente nel contesto delle loro attività quotidiane, senza la necessità di ricorrere a intermediari tradizionali. Entro il 2030, la banca potrebbe diventare un’entità “invisibile”, integrata perfettamente nello stile di vita digitale e connesso delle persone.
L’Ipercomplessità
Questa visione conferma e attualizza quanto già Piero Domenici affermava nell’incipit del saggio ricordato in precedenza: «La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità.
La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco».[xviii]
43 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
Puntate precedenti
1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO
22 – OPINION PIECE DI ROBERTO VERONESI
23 – OPINION PIECE DI FRANCESCO GORI
24 – OPINION PIECE DI NELLO BARILE
25 – OPINION PIECE DI LUCA MONACO
26 – OPINION PIECE DI RICCARDO MILANESI
27 – OPINION PIECE DI LUCA CAVALLINI
28 – OPINION PIECE DI ROBERTA PROFETA
29 – UN PUNTO NAVE
30 – ORGANIZZAZIONE POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CURA)
31 – OPINION PIECE DI NICHOLAS NAPOLITANO
32 – LEADERSHIP POP. VERSO L’YPERMEDIA PLATIFIRM (CONTENT CURATION)
33 – OPINION PIECE DI FRANCESCO TONIOLO
34 – ORGANIZZAZIONE POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CONVIVIALITA’)
35 – OPINION PIECE DI LUANA ZANELLATO
36 – OPINION PIECE DI ANDREA BENEDETTI E ISABELLA PACIFICO
37 – OPINION PIECE DI STEFANO TROILO
38 – OPINION PIECE DI DAVIDE GENTA
39 – OPINION PIECE DI ANNAMARIA GALLO
40 – INNOVAZIONE POP. ARIMINUM CIRCUS: IL READING!
41 – ORGANIZZAZIONE POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CONVOCAZIONE)
42 – OPINION PIECE DI EDOARDO MORELLI
[i] Erik Qualman, Socialnomics. La nuova economia dei social media. Hoepli, 2011.
[ii] Nel lavoro del futuro clienti e algoritmi sono i veri padroni, di Ivana Pais, La repubblica 20 settembre 2024.
[iii] Disponibile online a questo indirizzo: https://hbr.org/2000/01/co-opting-customer-competence.
[iv] C.K. Prahalad and Venkatram Ramaswamy, The Future of Competition: Co-Creating Unique Value with Customers. Harvard Business School Press, 2004.
[v] Geoffrey G. Parker, Marshall W. van Alstyne, Sangeet Paul Choudary, Platform Revolution: How Networked Markets Are Transforming the Economy – and How to Make Them Work for You. WW Norton & Co, 2016.
[vi] Marco Minghetti, Platformication: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2016/02/22/platformication/.
[vii] Marco Minghetti, L’era delle aziende-piattaforma: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2016/07/18/era-delle-aziende-piattaforma/.
[viii] NOVA100, 25 gennaio 2012, Marco Minghetti, L’impresa nell’era della convergenza: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2012/01/25/limpresa-nellera-della-convergenza/.
Scrive Luca Monaco nel suo Opinion Piece: «in questo contesto si colloca il termine Transmedia Storytelling, introdotto dal ricercatore americano Henry Jenkins nel suo libro Convergence Culture (2006). Fare transmedia significa raccontare storie distribuite su più mezzi di comunicazione, simultaneamente o in tempi diversi, in progetti d’intrattenimento o d’informazione, d’arte, scientifici o promozionali articolati su più piattaforme editoriali.
Si tratta dunque di inventare, strutturare o disarticolare, condividere e far interagire storie distribuite nei diversi mezzi di comunicazione (asset) del sistema comunicativo di un progetto editoriale. Cosicché una storia può essere raccontata da un film e in seguito diffusa da televisione, libri e fumetti; il suo mondo potrebbe essere esplorato attraverso un gioco o un podcast o approfondito attraverso un post sul magazine proprietario.
In riferimento all’applicazione del transmedia storytelling al marketing e alla comunicazione di brand, viene utilizzata l’espressione “transmedia branding”, per la quale Tenderich e Williams propongono la seguente definizione: “un processo in cui elementi costitutivi di un brand sono dispersi sistematicamente su molteplici canali, per creare un’esperienza unitaria e coordinata, in cui ogni medium apporta il suo contributo originale allo svolgersi della storia”. La narrazione diventa transmediale quando il brand si trova a veicolare la propria storia attraverso un ecosistema narrativo composto da tutti i canali che ha a disposizione: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2024/07/18/prolegomeni-al-manifesto-del-pop-management-25-storytelling-pop-opinion-piece-di-luca-monaco/
[ix] Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi media. Guerini, 2003. Per inciso, Multimedialità, Convergenza e Rimediazione sono gli elementi chiave del progetto Le Aziende InVisibili, nate dalla rielaborazione delle Città Invisibili calviniane e rese visibili nella realtà virtuale di Second Life.
[x] «Le aziende ispirate da tali trasformazioni introducono nuove tecnologie nei propri store. Ne è un esempio Burberry, che “è stato uno dei primi a implementare l’uso dell’RFID all’interno di alcuni flagship store dal 2012” (Iannilli, Spagnoli 2021, p. 53) ma anche a sviluppare un concetto di spettacolo e intrattenimento nel suo flagship store di Regent Street. Il contrasto tra la sede storica e l’innovazione tecnologica trasforma tale negozio in un luogo per eventi dove i clienti possono esperire i valori e i contenuti del brand, attraverso diversi dispositivi.
Come l’enorme schermo che trasmette in streaming le sfilate ma che dà anche vita a “eventi” meteorologici inattesi (Alexander 2012), come il temporale digitale che ricorda il legame tra il brand, il suo prodotto di punta e le caratteristiche del contesto. Questi luoghi, “collocati nelle migliori location della città, con l’intenzione di creare un ambiente di vita: un ‘brandscape’ […] per facilitare l’identificazione del cliente con il mondo del marchio” utilizzando “la teatralità come strumento di seduzione per ottenere un impatto sensoriale su larga scala” (Soloaga 2017, p. 42).
Per concludere, le principali caratteristiche del nuovo ecosistema tecnologico che sta trasformando il retail, sono: a) la dimensione Customer-Centrica; b) la dimensione phygital. Entrambe mirano a colmare lo scarto che sussiste tra la comunicazione online, in cui si sa praticamente tutto del consumatore, e quella offline in cui mancano numerose informazioni sul suo comportamento. Tali trasformazioni non modificano solo i canali distributivi ma intervengono sulla natura stessa del brand che tende a modificarsi in maniera sostanziale in funzione dei pubblici a cui si rivolgono.
Come nella collaborazione di qualche anno fa tra Fendi e Fila, in cui il logo stesso della griffe di lusso viene ibridato con quello dell’azienda di sportswear per raggiungere più efficacemente i consumatori della gen z (soprattutto attraverso le vetrine della Rinascente). La vocazione Customer-Centrica non è animata solo da un’esigenza umanista che vuole porre il consumatore al centro dell’universo gestito dalle marche, come nelle più rilevanti rivoluzioni “copernicane” realizzate in fisica e in filosofia. Il rischio di tali innovazioni è talvolta quello di realizzare una sorta di populismo dei brand, che a ogni costo aspirano a intercettare le esigenze dei consumatori». Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 23 – Innovazione Pop. Opinion Piece di Nello Barile: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2024/07/15/prolegomeni-al-manifesto-del-pop-management-24-organizzazione-pop-opinion-piece-di-nello-barile/
[xi] Opinion Piece di Luca Cavallini: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2024/07/25/prolegomeni-al-manifesto-del-pop-management-27-storytelling-pop-opinion-piece-di-luca-cavallini/
[xii] Cfr.: Marco Minghetti, La #DigitalDisruption in 5 parole chiave, NOVA100, 1° luglio 2015, https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2015/07/01/la-digitaldisruption-in-5-parole-chiave/; L’era delle aziende-piattaforma, 18 Luglio 2016, https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2016/07/18/era-delle-aziende-piattaforma/; La Customer Experience nell’era delle Platfirm, 22 maggio 2017, https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2017/05/22/la-customer-experience-nellera-delle-platfirm/.
[xiii] Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 16 – Sensemaking Pop. Opinion Piece di Matteo Lusiani, 17 Giugno 2024, NOVA100: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2024/06/17/prolegomeni-al-manifesto-del-pop-management-16-sensemaking-pop-opinion-piece-di-matteo-lusiani/
[xiv] L’INCHIESTA DELL’ECONOMIST. L’America si risveglia meno Woke, La Repubblica, 23 settembre 2024
[xv] Lelio Demichelis, Cybercapitalismo, ovvero capitalismo, Doppiozero 24 Giugno 2024: https://www.doppiozero.com/cybercapitalismo-ovvero-capitalismo
[xvi] Maurizio Carta (Romanzo urbanistico, Sellerio, 2024) definisce la nostra era Urbanocene: «L’era in cui viviamo, l’era in cui nel pianeta più del 50 per cento della popolazione abita in insediamenti urbani e solo il 3 per cento del pianeta si può definire ecologicamente intatto». Nelle città che tornano a misura dei bisogni e dei desideri dell’umanità una urbanistica non solo tecnica ma emozionale diventa «una condizione essenziale per la sopravvivenza». Un modo, sempre secondo Carta, «per rimodellare gli spazi perché tornino a essere luogo dell’abitare adatti a molteplici, multiformi, multigenere e multispecie stili di vita». In Stefano Bucci, La (ri)forma della città, La Lettura del Corriere della sera, 28 Luglio 2024
[xvii] Whitepaper Bip 01, Hyper Smart Society, May 2024 https://lnkd.in/dGnwXiZq La proposta Bip si pone dunque in antitesi rispetto alla prospettiva paventata in La crisi della narrazione: oggi «si afferma un regime dell’informazione, il quale non opera in modo repressivo ma seduttivo. Esso assume una forma smart. Non opera più attraverso obblighi e divieti. Non ci impone alcun silenzio. Tale dominio smart, piuttosto, pretende da noi che comunichiamo senza sosta le nostre opinioni, i nostri bisogni e le nostre preferenze. Ci chiede di raccontare le nostre vite, di postare, condividere, mettere like. La libertà in questo caso non viene repressa ma interamente sfruttata. Essa si ribalta in controllo e manipolazione. Il dominio smart è altamente efficiente, dato che non ha bisogno di apparire come tale. Esso si nasconde nell’apparenza della libertà e della comunicazione. Mentre postiamo, condividiamo e mettiamo like, ci sottomettiamo alla cornice di questa forma di dominio», cit., p. 17. Per una più ampia visione della prospettiva prospettata da Bip ascolta le Verde & Blu PILLS su Spotify.
[xviii] Marco Minghetti, Un nuovo umanesimo per la società interconnessa, Conversazione con Piero Domenici, NOVA100, 17 novembre 2014: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2014/11/17/un-nuovo-umanesimo-per-la-societa-interconnessa/.