I valori della Pop Economy: Convocazione.
In un sistema produttivo conviviale si è convocativi se si sa suscitare l’iniziativa discorsiva, operativa e responsabile dei collaboratori chiamati alla realizzazione di un progetto. Lo ricordavamo in Prolegomeni 5: «la convocazione… così viene definita nella Nona Variazione Impermanente del Manifesto dello Humanistic Management: “La convocazione è invito attivo; è suscitamento dell’iniziativa discorsiva dell’altro, a partire dal riconoscimento di principio della sua autorevolezza in quanto altro. È lo sviluppo di relazioni dialogiche, che si prendano carico non solo di usare utilmente un rapporto dato, ma di costruirne/ricostruirne le premesse. La cognitivizzazione del lavoro organizzato, definitivamente sancita dall’avvento di Internet, rende ancora più plausibile questo modo di intendere l’organizzazione. Nel simposio aziendale del XXI secolo, il modello generale di creazione e diffusione della conoscenza è la relazione a rete, in cui gli attori si legano, tramite strumenti condivisi, in network specifici di comunicazione.
Tutto ciò però non deve lasciare in secondo piano la rilevanza del faccia a faccia. Poiché il lavoro cognitivo non si concentra in luoghi fisici designati, tendenzialmente separati dalla società, è difficile immaginare che, in quanto tale, possa agire come nucleo di processi di aggregazione sociale. È significativo che la possibilità della teleconferenza non abbia determinato la fine dei viaggi d’affari. C’è un rapporto funzionale stretto tra comunità virtuale e cenacolo fattuale. Quelle virtuali non sono comunità ma semplici collegamenti – non di rado maniacali – se non generano o se non sono complementari al contatto diretto, al lavoro gomito a gomito”.
Lo ha dimostrato Bukowski (Prolegomeni 34): anche un lavoro molto pesante come scaricare casse di pesce surgelato dentro celle frigorifere, può essere appunto un “buon lavoro”, se si verifica quella che il poeta registra come un’anomalia: «non c’era /nessun caporeparto. /ci lasciavano semplicemente /a noi stessi, lì dentro, /sapendo che avremmo /fatto ciò che dovevamo».
Dunque, i lavoratori vengono lasciati soli, senza nessun controllo. Vengono responsabilizzati sul risultato finale. Viene data loro quella fiducia che spesso è negata agli impiegati, e persino ai quadri e ai dirigenti nelle grandi aziende. In questo contesto, quel rissoso irascibile, carissimo Bukowski diventa un leader, che sa esortare e condurre gli altri, senza averne alcun titolo. Un Leader Pop (vedi Prolegomeni 7) è dunque anche un leader di servizio, un servant leader, non avendo nessun potere di comando o sanzione.
Sotto questo profilo i Social Media e persino i Metaversi sono un luogo perfetto, nel senso che possiedono il genius loci[i] – non fisico, ma digitale – adatto, per sviluppare innovazione e creatività. A patto di valorizzarli come Mondi Vitali, ovvero universi di relazioni retti da un’empatia sistemica – come in un quartetto d’archi o in una jazz band – in cui esercitare il potere di convocazione. Un potere che esiste da quando esistono comunicatori efficaci, ovvero coloro che sanno attivare la comunicazione di altri: Gesù, Kennedy, Mandela. Tutti eroi della Popular Culture. Il convocatore è colui che sulla base di una idea forte sa aprirsi agli altri con l’ingenuità del principe Myschkin, l’idiota, facendoli aprire a loro volta al dialogo.
Il manager convocatore
Alla stessa stregua, un bravo community manager (o l’Amministratore Delegato in quanto manager della community formata dall’azienda nel suo complesso) è essenzialmente un buon convocatore, un simposiarca digitale, un socratico maieuta dotato di una idea forte (espressa dalla Value Proposition, o Purpose, su cui costruisce l’interazione con i membri del gruppo), in grado di fare emergere il talento individuale ponendolo al servizio dell’Intelligenza Collettiva e Collaborativa (per qualche cenno sui diversi tipi di Intelligenze, vedi Prolegomeni 40). La responsabilizzazione diffusa che ci consente di recuperare la nostra umanità è l’esito finale del processo convocativo.
«Rischiare in maniera condivisa, dialogica, significa progettare insieme la propria interdipendenza, spiegando agli altri le ragioni del proprio modo di vedere i rischi e di assegnare significati. Rischiare significa mutualismo e inclusione, non solo concorrenza. Rischiare significa immaginare il possibile e l’imprevisto, dando un significato condiviso, spendibile sul mercato tecnico, economico, politico a queste produzioni immaginarie… Abbiamo sempre più bisogno di una conversione antropologica che non può fare a meno dell’utopia, soprattutto per non riprecipitare in quell’ideologia etnocentrica che tende a ridurre ogni alterità a identità e a pensare il futuro come continuazione del presente. Il governo della complessità non può fare a meno di alternative credibili che riguardano il reale e l’immaginario: abbiamo tutti bisogno, come giustamente sostiene Azar Nafisi, di una repubblica dell’immaginazione».[ii]
Lode della cattiva coscienza di sé
La mia poetessa preferita (ex aequo con Emily Dickinson) Wislawa Szymborska dedica alla questione una poesia dal titolo apparentemente strano, Lode della cattiva coscienza di sé:
La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà̀ delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.
Il cuore dell’orca pesa cento chili
ma sotto un altro aspetto è leggero.
Non c’è nulla di più̀ animale
della coscienza pulita
sul terzo pianeta del Sole.
(In Nulla due volte)
Qui la riflessione sugli esseri umani appare decisamente dolente, ancor più̀ accorata e compassionevole di quanto accada ne Gli animali del circo, se possibile: benché, grazie alla magia di cui solo Szymborska detiene il segreto, al tempo stesso assuma quel caratteristico tono lievemente beffardo e come distaccato da quanto avviene in questa valle di lacrime.
L’uso dell’enumerazione “zoologica” in uno stile surrealmente favolistico, aleggiante come uno chimerico uccello fra un impossibile ricordo del Manuale di zoologia fantastica di Borges (che Szymborska ammette di conoscere ma sostiene di non avere mai letto) e un’oscura affinità̀ sentimentale con il Bestiario di Cortázar, è un modo per ottenere straniamento coniugato all’evocazione di una emozione intensa, immediatamente condivisa con il lettore.
Che, mentre legge i versi della Lode (ironico riferimento, credo, al Cantico dei Cantici), può quasi sentire in sottofondo salire rombando l’irridente saluto del mitico Axel Rose: Welcome to the jungle…. Poiché, tuttavia, penso si possa ragionevolmente escludere che Szymborska sia una estimatrice dei Gun’n Roses, per quanto abbia dichiarato che «quella cantata nei concerti rock è una delle molte forme possibili di poesia», mi sembra più probabile che dietro questi versi vi sia ben altro: il fatto che non si può essere responsabili (alias umani) senza immaginazione.
Grandi sogni comportano grandi responsabilità
Può suonare strano, ma si tratta della stessa verità scoperta dal protagonista del già citato (in Prolegomeni 32) Kafka sulla spiaggia, quando, leggendo un libro sul processo di Norimberga, trova a matita la seguente annotazione: «È tutto un problema di capacità di immaginazione. Yeats ha scritto: In dreams begin responsibilities. È perfettamente vero. Rivoltando la frase, si può dire che dove non esiste la forza dell’immaginazione, non possono nascere delle responsabilità. Come l’esempio di Eichmann dimostra».
Murakami non precisa quale sia il libro su cui il suo Kafka trova questa annotazione. Possiamo arrivarci partendo da una delle settanta interviste che Gitta Sereny fece a Franz Stangl, direttore generale del campo di sterminio di Treblinka, raccolte in un libro che ha per titolo In quelle tenebre (Adelphi).
Troviamo che alla domanda: «Che cosa provavate quando compivate quegli eccidi?», Franz Stangl risponde: «Quello era il con il gas e bruciare cinquemila e in alcuni campi fino a ventimila persone in ventiquattro ore esigeva il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivavano e, tempo due ore, erano già̀ morti. Questo era il sistema. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile».
Prima di indignarci di fronte a una simile difesa, nota Galimberti, dovremmo considerare che «gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro senza i quali l’ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell’esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi è invitato a comportarsi quando inizia il suo lavoro in un’organizzazione… La divisione del lavoro che vigeva nell’apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vive in ogni struttura aziendale fa sì che all’interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l’operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non ha più niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli è tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l’esito ultimo a cui porterà la sua azione. Così l’operatore non solo diventa irresponsabile, ma gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto, indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti circoscritti previsti dall’apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una fornitura alimentare».
Non c’è nulla di più animale / della coscienza pulita / sul terzo pianeta del Sole…
Lo spietato paragone fra campi di sterminio nazisti e attuali organizzazioni imprenditoriali può disturbare, ma senza dubbio possiede un forte valore esplicativo.
Lo conferma Murakami che scrive: «seduto al banco degli accusati, riparato da un vetro antiproiettile, Eichmann sembrava sconcertato dal fatto di essere al centro di un processo così grande, e di ricevere tanta attenzione dal mondo. Lui si era limitato, da tecnico, a fornire la soluzione più appropriata al problema che gli era stato posto. Non si comportano così tutti i funzionari del mondo che abbiano una coscienza? Perché solo lui doveva essere accusato a quel modo?»
La banalità del Male. E quella del Bene.
Galimberti e Murakami non fanno che confermare le tesi di Hannah Arendt sulla Banalità del Male, titolo dell’opera che riprende i resoconti che l’autrice pubblicò come corrispondente del settimanale New Yorker durante il processo a Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato nel 1960 e giudicato a Gerusalemme nel 1961 (ed è questo il libro a cui si riferisce Murakami).
Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era stupidità, ma la pura incapacità di pensare. Eichmann agiva all’interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Era una persona completamente calata nella realtà che aveva davanti: lavorare, cercare una promozione, riordinare numeri sulle statistiche.
Quanti di noi condividono questi comportamenti? Il punto è che, se sono disgiunti da una continua riflessione sulle loro finalità, divengono la componente fondamentale di una “cieca obbedienza” che, nei contesti caratterizzati dalla gestione scientifica e totalitaria del potere, appare normale. Perché lo scientific management, in ogni sua forma, non ti chiede di pensare al contenuto delle regole, ma di applicarle incondizionatamente. Ti paga per lavorare, non per pensare.
Eichmann ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Come Szymborska, Arendt vede in Socrate il modello da seguire per sfuggire a un tale intorpidimento della sensibilità morale. Non è difficile capire perché. Nelle Disputazioni tuscolane Cicerone scrive che «Socrate fu il primo a richiamare la filosofia dal cielo, a collocarla nelle città, a introdurla nelle case e a costringerla a occuparsi della vita, dei costumi e delle cose buone e cattive». Si impegna dunque in una indagine non prevalentemente incentrata sulla natura fisica del mondo, come i presocratici, né prioritariamente finalizzata alla riflessione politica (Platone) o alla costruzione di una metafisica (Aristotele), ma sulla ricerca morale.
Una morale simile a quella di Amleto (anch’egli convinto che ci siano più cose in terra che nei sogni della filosofia), da attuare non attraverso la volontà, come sarà detto da tutte le morali insegnate e praticate in Occidente, ma attraverso la conoscenza. Socrate è, infatti, convinto che la migliore maniera per prevenire il male è rintracciabile nel processo del pensare. Il pensare socratico provoca essenzialmente una ironica perplessità, che ha il potere di creare un distacco fra gli individui e le loro regole di comportamento. Pone quindi l’uomo di fronte a un quadro bianco, senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli di deliberare un giudizio circa quanto accade nel mondo, assumendo la responsabilità dei propri comportamenti.
Essere capaci di pensare ( e di immaginare) significa essere responsabili. Essere responsabili significa fare scelte consapevoli. Assumersi il carico, fino in fondo, delle proprie scelte significa essere liberi. E in questo consiste la nostra umanità. Lo spiega bene Platone con il mito di Er che chiude La Repubblica: la libertà di ciascuno si esprime prima di nascere nella preferenza per la vita in cui calarsi ma, dopo, l’essere umano che sia veramente tale (e non uno sciacallo o una poiana travestiti) non può più sottrarsi alle conseguenze della decisione presa.
Oggi, lo abbiamo detto spesso (vedi ad esempio Prolegomeni 4), la banalità del Male” è stata sostituita dalla “banalità del Bene” – quella sorta di neo maccartismo fatto di politically correct, cancel culture, neoluddismi, militanze cieche – per contrastare la quale occorre fare ricorso agli stessi strumenti indicati da Platone: immaginazione, conoscenza, assunzione di responsabilità per fare scelte consapevoli anche quando (soprattutto quando) sono scomode, sgradite all’establishment e, di conseguenza, gravide di ripercussioni negative su chi ha il coraggio di farle.
Come canta Edoardo Bennato (vedi la playlist di Prolegomeni 29) in Mangiafuoco:
«Non si scherza, non è un gioco
Sta arrivando Mangiafuoco
Lui comanda e muove i fili
Fa ballare i burattini
State attenti tutti quanti
Non fa tanti complimenti
Chi non balla o balla male
Lui lo manda all’ospedale
Ma se scopre che tu i fili non ce l’hai
Se si accorge che il ballo non lo fai
Allora sono guai e te ne accorgerai
Attento a quel che fai, attento ragazzo
Che chiama i suoi gendarmi e ti dichiara pazzo!».
Avvertenze per aspiranti convocatori
Come mettere concretamente in pratica il potere di convocazione? Ne ho parlato diffusamente in Intelligenza Collaborativa, cui rimando. Qui preferisco riprendere alcuni appunti tratti da Tienilo acceso di Vera Gheno e Bruno Mastroianni (Longanesi 2018) sul comunicare in una società ipercomplessa. Anche se il testo ha qualche anno e meriterebbe una nuova versione aggiornata, ho trovato spunti interessanti, con particolare riferimento al tema dell’identità iperconnessa e alle difficoltà che può incontrare chi crede nella possibilità di creare Mondi Vitali anche tramite i social network come descritto in Prolegomeni 13.
“Piero Dominici sottolinea come i sistemi sociali attuali siano ipercomplessi, e questa ipercomplessità necessita di una piena consapevolezza del ruolo centrale della comunicazione, che non implica solo attenzione rispetto all’uso e al comportamento dei vari mezzi di comunicazione esistenti. Per misurarsi con l’ipercomplessità in cui viviamo è necessaria anche una visione globale e altrettanto complessa del comunicare, che va considerata come la capacità di gestire processi diversi grazie a competenze e abilità diverse. Tutto questo, peraltro, non si realizza se non tramite la condivisione di informazioni e di saperi (vedi alla voce Intelligenza Collaborativa, Ndr).
“La vera alfabetizzazione digitale, di cui si parla spesso, non può ridursi a una serie di conoscenze tecniche, relative esclusivamente al mezzo, ma deve occuparsi del modo con il quale usiamo le parole attraverso quel mezzo: le nostre competenze di comunicazione sono un mix di competenze tecniche, legate all’uso degli strumenti, e competenze umanistiche, come la riflessione linguistica”.
“Scrive Gramsci: «Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri. La conoscenza è vista non fine a sé stessa, ma come dimostrazione di capacità relazionale: la lezione di Gramsci è quanto mai attuale in tempi di iperconnessione”».
“L’umanità iperconnessa è una situazione in evoluzione on prevedibile: ma ciò che accadrà dipenderà da noi e non da un fantomatico destino cieco. È cambiato e sta cambiando radicalmente il rapporto dell’uomo con la conoscenza, così come sono cambiate e stanno cambiando le modalità degli esseri umani di entrare in relazione tra loro. Ciò comporta che le competenze di base della comunicazione (per capire il mondo, farsi capire e per capire l’altro) sono richieste a tutti e non solo agli addetti ai lavori. La capacità di esprimersi in modo efficace, di discutere, di avere padronanza delle parole nelle interazioni online e offline, si affianca oggi a quel «saper leggere, scrivere e fare di conto» che cinquant’anni fa era il presupposto per partecipare attivamente alla vita sociale di un paese”, cfr Prolegomeni 5.
“È troppo facile continuare a lamentarsi di un’internet ignorante, becera, piena di odio e pericoli. È vero, in rete (come ovunque) esistono odio e pericoli, e persone che usano volontariamente i mezzi a loro disposizione per fare del male. Ma è senz’altro più costruttivo concentrarsi sui tanti che vorrebbero semplicemente star bene in rete, pur non sapendo esattamente come reagire o comportarsi quando si trovano a confronto con gli «imbecilli» e i danni che producono”.
“L’iperconnessione potenzia l’interazione umana (un concetto tanto più valido oggi alla luce dell’iperautomazione consentita dall’AI Ndr). Di conseguenza amplifica anche la portata degli atteggiamenti ostili… anche della gran parte degli “esperti” che sviluppano i loro discorsi apocalittici sulla tecnologia dal loro tranquillo riparo nei media tradizionali”.
“La tipologia più pericolosa di «imbecilli» è quella costituita da chi in teoria dovrebbe essere preposto alla comunicazione e divulgazione ma si rifiuta di considerare i social come contesto adatto all’approfondimento (possibili Mondi Vitali nel linguaggio del Pop Management, Ndr).
«Qui non ho abbastanza spazio per argomentare»; «Non è certo un argomento da social»; «Il mezzo di comunicazione che stiamo usando è inefficace»; «Non si può approfondire in questo contesto»; «Se vuoi saperne di più leggiti qualche libro» (variante: «Leggiti qualcuno dei miei libri»); «Ho già detto quello che dovevo dire, non ho intenzione di commentare oltre» (optional: «arrivederci/saluti/me ne vado»)”.
“Anche le procedure possono essere un modo per nascondersi: «L’argomento è troppo complesso per discuterne qui», «Dovremmo proseguire confrontandoci dal vivo». Ci aggrappiamo a problemi relativi al mezzo e alla modalità di interazione per sottrarci al confronto. È vero che ogni mezzo condiziona le modalità del discutere, ma nessuno vincola in modo così grave da impedire una discussione”.
“Luisa Carrada, in un intervento intitolato Testi lunghi, argomenta una cosa tutto sommato semplice: se il testo è scritto bene ed è coinvolgente, le persone lo leggono anche se è lungo.Diciamo che la rete ha un po’ diffuso, anche a sproposito, il mito della brevità. A parte questo, sfruttando la nota caratteristica ipertestuale della rete, in qualsiasi momento si possono fornire link per approfondire e chiarificare, cercando di dare comunque, anche nel poco spazio disponibile, quante più informazioni possibili. Una vera fatica, certo, ma forse l’unico modo per cercare di svolgere davvero il ruolo di comunicatori e divulgatori quando ne abbiamo la possibilità” – un concetto analogo viene espresso in Prolegomeni 4.
[i] Cfr.: http://www.marcominghetti.com/humanistic-management/le-parole-chiave-dello-humanistic-management/genius-loci/.
[ii] Marco Minghetti, Etica e Tecnologie Emergenti. Una conversazione con Gilberto Corbellini e Nicola Gasbarro. NOVA100, ottobre 2020. Cfr: https://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2020/10/07/etica-e-tecnologie-emergenti-una-conversazione-con-gilberto-corbellini-e-nicola-gasbarro/.
41 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
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