Francesco Toniolo insegna all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e alla NABA di Milano. Ha pubblicato numerosi saggi, articoli accademici e capitoli di libri, principalmente sulla cultura del videogioco, fra cui il recentissimo Game Culture per Il Mulino. Scrive anche contributi divulgativi per realtà come «FinalRound.it» e «La lettura delle ragazze e dei ragazzi» e ha una rubrica settimanale su «Libertà».
Gamification e apprendimento Pop
FRANCESCO TONIOLO
Tanti sguardi sulla gamification
Nei Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 1 viene toccato, tra i vari punti del cambiamento in atto, quello della Gamification: «guardiamo alle pratiche formative: da molto tempo ormai sono essenzialmente basate sulla cosiddetta Gamification, ossia l’applicazione di aspetti propri del gioco – elementi e meccaniche di gioco, tecniche di game design – a contesti non specificamente ludici, che risultano essere le più efficaci».
L’efficacia (e la positività) delle soluzioni gamificate è da anni al centro di un acceso dibattito, alimentato dal fatto che definire nel dettaglio che cosa sia la Gamification non è sempre facile. Tanto più considerando i numerosissimi ambiti in cui essa viene applicata. Ultimo di una lunga lista, il tanto discusso Metaverso ha riportato ancora una volta in primo piano il discorso, considerando che esso recupera dai videogiochi – tra le tante cose – la ludicizzazione dei meccanismi narrativi (come scrive Simone Arcagni nel suo La zona oscura. Filosofia del Metaverso). La narrazione dentro al Metaverso assume elementi fortemente ludici, proprio come la narrazione intorno al Metaverso, che si è riempita di promesse più o meno mirabolanti, spesso gonfiate e disattese, in un grande gioco comunicativo. Oltre a questo, la logica spaziale di fruizione dei contenuti (sempre riprendendo il testo di Arcagni) è qualcosa di fortemente videoludico. O volendo essere più precisi, si colloca a metà strada tra la logica spaziale dei videogiochi e quella nuova esperienza digitale” del mondo (che esce dai confini dei mondi digitali propriamente detti) di cui ha parlato Vanni Codeluppi.
Detto ciò, torniamo alla Gamification. In termini generali, le posizioni generalmente espresse sulla Gamification possono essere raggruppate in tre macrocategorie. La prima è di chi la valuta lin un modo generalmente positivo. Come esempio è possibile prendere il noto libro Reality is Broken (tradotto in italiano col titolo La realtà in gioco) della game designer e futurologa Jane McGonigal. Secondo l’autrice, i videogiochi e la Gamification avrebbero il potere di salvare il mondo, perché quando noi siamo immersi in un gioco ben strutturato ci troviamo a essere totalmente focalizzati sui nostri obiettivi, grazie a quello stato di flow che venne descritto dallo psicologo Mihály Csíkszentmihályi. Ecco che, allora, se si realizzano delle iniziative pensate per il bene pubblico (per esempio legate alla tutela dell’ambiente) e fondate sui principi della Gamification, un gran numero di persone vi parteciperebbe volentieri, senza nemmeno rendersi conto di fare del bene.
Una seconda posizione è quella di chi ritiene che la Gamification sia, in buona sostanza, al di sopra del bene e del male, in quanto termine privo di reale significato e buono solo per il marketing. Anche in questo caso, volendo trovare un rappresentante della categoria è possibile ricordare un intervento di Ian Bogost che è rimasto piuttosto noto: Gamification is Bullshit. La Gamification è una cavolata, non significa nulla in concreto e non è possibile definirla con esattezza. Secondo Bogost, è possibile dire tutto e il contrario di tutto sulle iniziative gamificate proprio perché i suoi confini restano vaghi, incerti e fin troppo mutevoli. La sua utilità, allora, si ridurrebbe a quella di termine “cool”, utile per proporre qualche iniziativa alle aziende, ma nulla di più.
La terza posizione è quella che considera la Gamification come qualcosa di generalmente negativo. Come rappresentante della categoria è possibile ricordare Alfie Bown con il suo libro Enjoying It: Candy Crush and Capitalism (tradotto in italiano col titolo Capitalismo & Candy Crush). A differenza di Bogost, che vede la Gamification come “fuffa”, Bown ne riconosce l’efficacia e, proprio per questo, la ritiene un pericolo. Le pratiche gamificate, secondo lui, non sarebbero altro che l’ennesimo asservimento dell’attività ludica al capitalismo. È un discorso che ha portato avanti anche in uno dei suoi libri successivi, Dream Lovers: The Gamification of Relationships, in cui parla di come gli impulsi e le pulsioni umane, tra cui quelle affettive e sessuali, siano state anch’esse gamificate e sfruttate, sulla scia di ben precise scelte economico-politiche.
Formazione in evoluzione
Come spesso succede, c’è una parte di ragione in tutte queste posizioni, più che altro per la già citata ampiezza del “recinto Gamification”, in cui finisce dentro un po’ di tutto. Per cui è certamente vero che ci si è trovati davanti a un gran numero di operazioni che di gamificato avevano ben poco, al di fuori del nome. Magari perché quel che proponevano era in realtà la realizzazione di un videogioco, ma parlare di “Gamification” invece che di “videogioco” talvolta apre qualche porta in più. Ed è altrettanto vero che gli esiti di certe operazioni hanno lasciato più di un dubbio, come si è per esempio visto nel mondo della scuola. C’è un articolo di Matteo Lupetti (pubblicato sul numero 3 della rivista «Menelique») che è significativamente intitolato Gamificando non si impara. Una panoramica su una serie di iniziative che hanno funzionato ben poco e che, quando lo hanno fatto, erano indirizzate verso i fini sbagliati: non l’apprendimento, ma la volontà di spingere lo studente a essere disciplinato.
Per cui è sempre bene osservare caso per caso, prestando attenzione alle diverse sirene dei venditori di fumo che cercano di cavalcare la tendenza del momento. Detto ciò, la formazione sta effettivamente cambiando. Deve cambiare e ibridarsi almeno in parte con le logiche pop. Come ricorda anche Alessandra Stranges nel suo contributo quando dice che è necessaria l’interattività: «Ma non l’interattività inutile, fine a sé stessa, fatta di drag&drop e banali click, bensì quella progettata in modo funzionale agli obiettivi di apprendimento».
È un punto significativo, perché spesso – si è ormai capito – si cerca la soluzione più facile, come il “banale click” ricordato da Alessandra Stranges. Aggiungo un altro esempio oltre all’interattività: la spinta alla “multimedialità”, altra parola che in tante occasioni è stata brandita a casaccio, come la clava agitata da un ciclope cieco. Inserire la multimedialità nell’apprendimento non significa solo mettere la presentazione di PowerPoint e il quiz fatto con Kahoot!, perché ciò che cambia è proprio il modo di pensare, di approcciarsi alle informazioni e di metterle a sistema. Cambia proprio la cartografia mentale, per riprendere il discorso visto nei Prolegomeni 2. Allo stesso modo la questione di fondo non sta nell’uso di ChatGPT, ma nel modo con cui si ottengono le informazioni.
Senza una effettiva riflessione che sappia andare in profondità, il rischio è quello di trovarsi perennemente in balia di contenuti che sono nuovi e innovativi solo di facciata. Una superficie fatta di “Gamification”, di “Storytelling”, di “Metaverso”, di “ChatGPT” ecc. che però, alla fine, nasconde le solite, vecchie logiche trite e ritrite. Ovviamente non è per niente facile riuscire ad andare oltre questa prima apparenza, soprattutto quando ci si trova immersi nel cambiamento, visto che prima di tutto si vede il guscio esterno e poi, solo col tempo, si riesce a scavare fino a raggiungerne il cuore. Nondimeno, è sempre utile mantenere vivo questo monito, quello di non fermarsi alla prima impressione.
Segnalo anche che il videogioco stesso è stato spesso visto (e in parte è tutt’ora visto) fermandosi alla sua superficie, sebbene con il passare degli anni si stia man mano diffondendo una accresciuta game literacy, che porta sempre più persone a voler non solo giocare e conoscere i videogiochi, ma anche a crearli.
La soglia di accesso allo sviluppo di videogiochi
Nel 2012 è stato pubblicato un libro con un titolo tanto lungo quanto significativo. Sto parlando di Rise of the Videogame Zinesters: How Freaks, Normals, Amateurs, Artists, Dreamers, Drop-outs, Queers, Housewives, and People Like You Are Taking Back an Art Form, scritto dalla creatrice di videogiochi Anna Anthropy. A distanza di oltre dieci anni, rimane probabilmente una delle migliori riflessioni su come i videogiochi abbiano declinato uno dei pilastri delle industrie creative: l’everyone. Creare un videogioco non è esclusivo appannaggio delle grandi aziende internazionali. Anche le “casalinghe” e i “freaks” possono creare videogiochi, grazie a diversi strumenti che facilitano il processo.
Certo, nessuno potrà realizzare il nuovo Grand Theft Auto nel suo scantinato, da solo o con un paio di amici. Le cosiddette produzioni “tripla A” costano centinaia di milioni e richiedono lo sforzo combinato di centinaia (talvolta migliaia) di persone per diversi anni. Riprendendo questo discorso oggi, a qualche anno dalla pubblicazione del libro di Anna Anthropy, l’argomento si lega a quello che è diventato un punto centrale del dibattito: l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale.
Da un lato, essa è comprensibilmente molto temuta da un gran numero di persone che operano nel settore creativo, considerando che sentono minacciata la loro professione. D’altro canto, l’IA è un facilitatore per tutti coloro che vogliono realizzare videogiochi dal basso, muovendosi dalle schiere delle già citate “casalinghe”. Non si tratta solo di realizzare immagini con DALL-E o Midjourney (anche perché ci sarebbero vari problemi, per il loro utilizzo al di fuori di progetti strettamente personali). Si parla – per esempio – di un’agevolazione stessa della programmazione. ChatGPT sa fornire delle ottime risposte su come realizzare determinate operazioni con un certo engine o un certo linguaggio di programmazione. Unendo tutto ciò a una scelta accessibile (per esempio Ren’py, che consente di realizzare ottime visual novels), la barriera di accesso va sicuramente ad abbassarsi.
Un futuro di videogiochi. Anche in azienda
Insomma, i videogiochi sono tra noi e sono sempre più “Pop”, anche nel senso di “popolarmente accessibili”. E tutto avrà di sicuro anche un impatto sullo sviluppo della Gamification, declinata in modo più preciso e puntuale grazie all’accresciuta game literacy generale. Tutto questo avrà certamente un impatto sul futuro del gaming, che andrà probabilmente a espandersi in un gran numero di direzioni fino a oggi poco o nulla battute.
Come per esempio i videogiochi per la terza età, destinati agli anziani del domani, coloro che hanno magari iniziato a videogiocare negli anni ’80 e che vogliono continuare a godersi esperienze videoludiche stimolanti, anche se magari i loro riflessi e la loro vista non sono più quelli di una volta. O come ulteriori videogiochi “dal basso” che saranno sviluppati da (e pensati per) pubblici che fino a oggi sembrano ben lontani dal gaming.
Ci sono certamente ampi margini di manovra anche in quella che è la formazione aziendale, se ci si sposta a osservare il mondo B2B. Già al giorno d’oggi non è certo infrequente vedere delle esperienze videoludiche appositamente realizzate per la formazione dei dipendenti. Faccio un esempio banale ma comprensibile: se gli operai di un’azienda devono utilizzare un macchinario molto costoso (o pericoloso), far fare loro pratica in una simulazione ludica (magari in realtà virtuale) prima di mettere mano all’effettivo macchinario si rivela un grande aiuto, perché iniziano a prendere dimestichezza con l’apparecchiatura in un ambiente protetto.
Ma gli utilizzi possibili vanno ben oltre questo esempio. I team hanno modo di ascoltare le esigenze delle aziende che si rivolgono a loro e di capire quale possa essere la soluzione migliore per realizzare delle esperienze utili alla formazione aziendale. Giocare ai videogiochi è un’attività formativa. Lo ha messo ben in chiaro James Paul Gee nel suo libro (in italiano Come un videogioco, insegnare e apprendere nella scuola digitale), in cui elenca ben trentasei principi dell’apprendimento videoludico. Per cui non c’è da stupirsi, se è possibile utilizzare un videogioco anche per insegnare qualcosa a dei professionisti. Mi viene da dire che, in diversi casi, questo funziona anche meglio della Gamification, perché si va direttamente a realizzare un videogioco per risolvere un problema percepito, senza dover creare soluzioni ibride che a volte – come si è detto – finiscono un po’ per smarrire la retta via.
33 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
Puntate precedenti
1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO
22 – OPINION PIECE DI ROBERTO VERONESI
23 – OPINION PIECE DI FRANCESCO GORI
24 – OPINION PIECE DI NELLO BARILE
25 – OPINION PIECE DI LUCA MONACO
26 – OPINION PIECE DI RICCARDO MILANESI
27 – OPINION PIECE DI LUCA CAVALLINI
28 – OPINION PIECE DI ROBERTA PROFETA
29 – UN PUNTO NAVE
30 – ORGANIZZAZIONE POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CURA)
31 – OPINION PIECE DI NICHOLAS NAPOLITANO
32 – LEADERSHIP POP. VERSO L’YPERMEDIA PLATIFIRM (CONTENT CURATION)