Immagine di Marcello Minghetti per Ariminum Circus Stagione 1

Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 32 – Leadership Pop. Verso l’Hypermedia Platfirm (Content Curation)

Il Curatore nell’era dei Social Media 

Il Curatore sembra un buon diavolo: 

oggi mi ha offerto anche un caffè. 

Poi mi ha sorriso, dato che ero un po’ giù, 

e siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più.

(Paolo Conte, La ricostruzione del Mocambo)

Il Top Manager nell’era dei Social Media deve cambiare pelle, abbiamo più volte ribadito nei Prolegomeni precedenti. Aggiungiamo adesso che se il centro delle sue responsabilità resta quella di essere il Curatore, per dirla con il linguaggio del management classico, delle risorse umane, tecniche ed economiche dell’organizzazione (come il periodo pandemico ha messo definitivamente in evidenza, cfr. le Conversazioni #peoplecaring), oggi cambia radicalmente il modo di interpretare questo ruolo. La metafora contiana del Curatore che si limita “a offrire un caffè” a dipendenti costretti a vivere nel Mocambo aziendale dominato dall’incomunicabilità, conseguenza del trionfalismo funzionale tipico dello Scientific Management, indica bene un modello gestionale paternalistico ormai superato da tutti i punti di vista (quanti manager conoscete convinti di poter risolvere i problemi di motivazione di una persona liquidandoli con un caffè alla macchinetta?).

In un quadro economico, politico, sociale e culturale nel bene e nel male sempre più Pop (vedi Prolegomeni 30; ma è sintomatico che Annalisa Bruchi presentando ieri sul Corriere la nuova edizione del programma Re-start abbia dichiarato che l’obiettivo è proporre «l’economia interconnessa del mondo attuale in chiave pop»), le aziende si sono ormai evolute in Social Organization, sfruttando le potenzialità delle tecnologie sociali per la vita aziendale: community (di pratica, di processo, di formazione, di ingaggio…) per consentire una più efficace collaborazione virtuale in progetti cross-funzionali; blog interni, forum e canali LinkedIn e YouTube per incoraggiare conversazioni globali e la condivisione delle conoscenze; sofisticate campagne virali sui social media per coinvolgere i clienti e creare fedeltà alla marca; prodotti di nuova generazione sviluppati congiuntamente con gli stakeholder – tutti processi di open-innovation e di lavoro collaborativo che i migliori leader al mondo stanno utilizzando nel plasmare la loro strategia aziendale.

Questo cambiamento radicale ha creato un dilemma per i Top Manager: mentre il potenziale dei Social Media sembra immenso, i rischi inerenti creano loro incertezza e disagio a causa della mancata corrispondenza tra la  logica dei media partecipativi e il tradizionale modello di gestione delle organizzazioni, con la sua enfasi sui processi lineari e sul controllo. I Social Media incoraggiano la collaborazione orizzontale e le conversazioni non scritte che viaggiano in percorsi casuali attraverso le gerarchie gestionali. E  in questo modo creano cortocircuiti nelle dinamiche consolidate di potere e nelle linee di comunicazione tradizionali.

Per sfruttare il potere di trasformazione dei  Social Media, attenuandone i rischi, si impone, abbiamo detto fin da Prolegomeni 5, un nuovo tipo di leader, il leader convocativo. Riprenderemo il discorso più avanti. Mi interessa qui sottolineare che le dinamiche dei Social Media amplificano l’esigenza di qualità che restano un punto fermo di una leadership efficace, come la creatività strategica, la capacità di comunicazione autentica e la sensibilità necessaria ad affrontare le dinamiche sociali di un’azienda per la progettazione di un’organizzazione agile e reattiva; ma aggiungono almeno una nuova caratteristica. I leader Pop devono eccellere nella capacità di co-creazione e collaborazione – i valori chiave nel mondo dei Social Media – anche attraverso una forte attenzione alla cura dei contenuti che vogliono veicolare verso le persone da ingaggiare.

Dickens e Prince

Per cogliere altre caratteristiche del Content Curator che aspiri ad essere un buon Pop Manager può essere utile prendere qualche appunto da Dickens e Prince, di Nick Hornby. Secondo un modello caro alla Pop Culture a partire dalle Vite Parallele di Plutarco per arrivare alle “interviste doppie” rese celebri da Le Iene, Hornby prova a indicare cosa abbiano in comune due campioni del Pop come Dickens (letteratura) e Prince (musica). Dal confronto metadisciplinare, che è già un elemento chiave della cultura Pop[i] e del Pop Management, possiamo ricavare che la Content Curation di un Pop Leader è caratterizzata da:

Competenza e passione. Per diventare una superstar Pop occorrono competenza, passione e dedizione: «Completamente autodidatta Prince era un batterista, tastierista e bassista bravo quanto chiunque altro abbia suonato per lui, e un chitarrista superlativo. Il suo è l’unico nome che compare nei credit di For You, il primo album. Tutti i brani furono scritti, prodotti, cantati e suonati da lui e da lui soltanto – ogni canzone, ogni strumento, ogni coro… Può essere allora utile accennare alla teoria resa celebre da Gladwell nel libro Fuoriclasse: storia naturale del successo, secondo cui non si può diventare un genio senza essersi esercitati per diecimila ore… Quanto “si esercitò” Prince prima di raggiungere il successo? Era un autodidatta da quasi tutta la vita: suonava nelle band, scriveva canzoni, strimpellava il pianoforte del padre (considerazioni analoghe valgono per Dickens, come dimostra Hornby nel suo libro, NdR) … Quindi, forse, l’importante non è esercitarsi per diecimila ore; forse l’importante è consumarsi per diecimila ore. Prince e Dickens non si godevano e basta queste cose – commedie, singoli e album. Le respiravano – le smontavano, le imparavano, le copiavano parola per parola e nota per nota… Diecimila ore passate a consumarsi è il requisito minimo per essere ammessi al club dei geni. È ovvio però che, come molti di noi hanno scoperto, diecimila ore di per sé non bastano, senza talento». Avviso dunque ai manager aspiranti Pop Leader: non basta affidarsi a ghostwriter, consulenti di comunicazione e content creator prezzolati, o farsi scrivere articoli e libri da qualche dipendente fantozzianamente asservito. Se quello che comunichi non è farina del tuo sacco – farina sudata per almeno diecimila ore – le persone se ne accorgono subito e l’unico riconoscimento che potrai aspettarti è quello degli yes man e delle yes women di cui ti sarai circondato (ricetta antichissima e garantita per il fallimento, come manager e come persona. Lo scrive benissimo Shakespeare: «Con gli alberi si possono ingannare gli unicorni, con gli specchietti gli orsi, con le buche per terra gli elefanti, con le reti i leoni; per ingannare gli uomini, basta un po’ d’adulazione»).

Umorismo. Di Casa Desolata Horby scrive: «Risi per la prima volta al capitolo ottavo, quando Esther Summerson fa visita a un povero con la benefattrice Mrs. Pardiggle. Entrano nella casa del mattonaio del posto; è una “stamberga“, un duro colpo per Esther; ci sono “porcili sotto le finestre rotte“, “accanto al focolare… un bimbo col respiro affannoso”, una ragazza che tentava di fare il bucato nell’acqua sudicia e il mattonaio sdraiato per terra, sporco di fango, che fumava la pipa. Fin qui era solo Dickens, o Dickens come me l’ero immaginato prima di iniziare a leggerlo, che descrive la povertà con rabbia e coinvolgimento. Ma quello che segue è un capolavoro di feroce umorismo, nel quale il mattonaio anticipa le domande della benefattrice sputandole in faccia le risposte. “Se ho letto il libretto che mi avete lasciato? No, non ho letto il libretto che mi avete lasciato. Qui non c’è nessuno che sa leggere, e se c’è non è roba adatta per me. È un libro buono per i ragazzi. E io non sono un ragazzo. Se mi lasciate una bambola, io non gioco con lei. Come mi sono comportato? Bene, per tre giorni mi sono ubriacato, e mi sarei ubriacato per la quarta volta, se avessi avuto i soldi… E come mai mia moglie ha un occhio nero? Gliel’ho fatto io; e se lei dice di no, è una bugiarda”… un passo che mi fece ridere di gusto e si avvicinava a un umorismo moderno. Non era gradevole comicità da showbiz; era feroce come quello di Fawlty Towers e dei Monty Python, e in Mrs. Pardiggle e Mrs. Jellyby si esprimeva anche in un’acuta osservazione con un sapore contemporaneo ben riconoscibile. A tutti è capitato di avere intorno persone il cui impegno a fare del bene le porta a essere importune, paternalistiche e indelicate; tutti conosciamo persone così dedite a risolvere i grandi problemi del mondo da trascurare la famiglia, come fa Mrs. Jellyby».

O i/le talebani/e dell’iperpolitically correct, gli zelanti sacerdoti della Banalità del Bene, che infestano la società contemporanea e quindi anche le aziende. Un’altra godibilissima descrizione letteraria di questo tipo umano, intrisa di un’ironia dissacrante – anche se si conclude con l’amara constatazione che quando si ha a che fare con queste “persone vuote” c’è poco da ridere – la offre il più Pop degli scrittori contemporanei, Murakami Haruki, nel diciannovesimo capitolo di Kafka sulla spiaggia, romanzo che guarda caso contiene diversi riferimenti a Dickens e a Prince: la riporto integramente in nota[ii]. Sui rischi del Pop quando diviene populismo nelle forme più abiette di cancel culture, consiglio inoltre la lettura del saggio Ci vuole un trigger warning per Le metamorfosi di Ovidio? contenuto nella raccolta di scritti vari di Daniel Mendelsohn, Estasi e terrore. Dai Greci a Mad Men (Einaudi, 2024), pubblicati tra il 2003 e il 2022 sulla New York Review of Books e sul New Yorker. Come si può intuire dal titolo, l’autore è un saggista Pop capace di narrare con la stessa passione un testo antico, un film di Almodovar, un romanzo o un memoir, e di restituire in ogni pagina un nucleo di senso, anche quando lo scritto è d’occasione, perché, come scrive lui stesso, «l’impollinazione incrociata fra classici e cultura popolare» è ormai la sua «nota dominante» (grazie alla profonda conoscenza della Pop Culture greca, in particolare delle tragedie, dei testi omerici e di tutti i classici greco-romani, utilizzata quale strumento interpretativo della contemporaneità, secondo un modus operandi tipico anche dello Humanistic Management).

Tornando a Dickens, va sottolineato che le sue esperienze personali «si tradussero sempre in arte, trasformate dall’immaginazione in qualcosa ricco di significato, potere evocativo e, spesso, umorismo». Dal che possiamo anche ricavare che se la Pop Culture è intrisa di umorismo, il populismo ne è completamente privo. Un umorismo mai fine a se stesso, crudele o finalizzato alla mera derisione di persone o situazioni. «Non era dei suoi personaggi, grazie ai quali suscitò le risate e provocò le lacrime di tutto il mondo, la causa che Dickens perorava con tale pathos e umorismo, ma in un certo senso era la sua» disse Forster.

Serialità. «Il Circolo Pickwick – pubblicato a fascicoli mensili, secondo quello che si sarebbe rivelato uno schema consolidato per Dickens – ebbe una partenza difficile. Il primo numero vendette quattrocento copie. Poi Dickens introdusse un nuovo personaggio comico, Sam Weller, un cockney, che si impadronì immediatamente del libro, e d’un tratto la serializzazione e Dickens decollarono. Pickwick finì per raggiungere le quarantamila copie al mese, e Dickens sarebbe diventato famoso per il resto dei suoi giorni… (analogamente) il successo di Prince nasce quando su MTV i programmi cominciarono nel 1981, quindi i video di Little Red Corvette e il brano che dava il titolo all’album vennero trasmessi a ripetizione. Grazie alla serializzazione Dickens trovò il modo di raggiungere un bacino che eluse alcune delle strade più convenzionali per arrivare al successo editoriale. Attraverso MTV Prince sbarcò direttamente nel salotto della gente e – dal momento che negli anni Ottanta le famiglie cominciavano ad avere sempre più beni di largo consumo – anche nella camera da letto del pubblico che era il suo target naturale». Infine, «nelle serie televisive Dickens funziona al meglio. Casa desolata (2005), narrata in episodi di mezz’ora dopo quello introduttivo di un’ora, ha un ritmo così dinamico che ci si riesce quasi a immaginare la spasmodica attesa dei primi lettori per il numero successivo».

Anche per queste ragioni, il Manifesto del Pop Management non poteva che essere costruito attraverso una serie, quella dei nostri Prolegomeni, al cui interno si collocano le sub-serie verticali dedicate a Leadership Pop, Collaborazione Pop, Organizzazione Pop, Sensemaking Pop , Engagement Pop, Storytelling Pop , Innovazione Pop, nonché quelle orizzontali di inquadramento teorico e degli Opinion Piece – tutte collegate fra loro un po’ come nell’universo (Super Pop!) Marvel.

Transmedialità. «Oliver Twist e Purple Rain hanno un’altra cosa in comune, oltre alla resistenza culturale e alla giovane età dei rispettivi creatori: entrambi devono davvero tanto al cinema. Senza il film Purple Rain, è impossibile immaginare che l’album avrebbe avuto lo stesso impatto. E senza il musical di Lionel Bart, Oliver!, adattato in un film di grande successo diretto da Carol Reed, probabilmente Oliver Twist non sarebbe più famoso, né rappresentativo dell’opera dell’autore, rispetto a Grandi speranze o David Copperfield».«When Doves Cry uscì in marzo e rimase al numero uno per cinque settimane. Il video della canzone passò su MTV in giugno, e nello stesso mese apparve anche l’album. Il film arrivò nelle sale a fine luglio. In quel momento Prince aveva, apparentemente per pura forza di volontà, acquisito il dono dell’ubiquità. Il film attirò anche l’attenzione di Pauline Kael del New Yorker, che lo liquidò con la critica più nerd e meno comprensibile che abbia mai letto: “Come film, Purple Rain è una stucchevole bio romanzata – è come se Lillian Roth (invece che Susan Hayward) avesse interpretato Piangerò domani, o Barbara Graham (invece che Hayward) avesse interpretato Non voglio morire”. Ehi, Pauline! È il 1984! Tra poco tutti andranno a vedere Ghostbusters e Terminator! Fra l’altro, secondo la giornalista è degno di nota il fatto che professionisti come lei vengano abbindolati nella promozione di Purple Rain. “Nei giudizi sul film si citano critici di musica rock; uno dice che è il Quarto potere dei film rock, un altro lo mette allo stesso livello di A Hard Day’s Night”. In altre parole: persone sbagliate, opinioni sbagliate, anche se non è molto chiaro perché lei pensi che un critico rock non recensirebbe un film rock e perché quella recensione dovrebbe essere scontata. È una prima indicazione del modo in cui la critica specializzata finirà per sentirsi emarginata nel nuovo mondo multimediale».

The Age of Curation

Dunque, un Leader Pop ha un mindset improntato a metadisciplinarietà, competenza, passione, umorismo: tutti ingredienti dell’Intelligenza Collaborativa che lo mettono in grado di produrre contenuti altamente curati che ricevono forza da serializzazione e transmedialità. Ciò innanzitutto significa che deve comprendere profondamente la natura delle diverse piattaforme collaborative, anche per capire le dinamiche che possono scatenare.

Altrettanto importante è la dimensione organizzativa: i leader Pop devono abilitare un’infrastruttura tecnologica legata alla progettazione collaborativa che promuove l’interazione costante al di là dei confini fisici  e  geografici e uno scambio autonomo, auto-organizzato (ciò che invocavamo nel Manifesto dello Humanistic Management ormai 20 anni fa). «In Rete il potere viene dal condividere le informazioni, non dal loro accaparramento. Il Web è anche una economia del dono e della cura reciproca. Per guadagnare influenza e status, devi offrire la tua esperienza e competenza. E devi farlo in fretta, perché, se non lo fai, lo farà qualcun altro che raccoglierà il credito che potrebbe essere stato tuo. On-line ci sono un sacco di incentivi per condividere la conoscenza e pochissimi ad accumularla (Gary Hamel)».

In termini più ampi, c’è stato addirittura chi ha definito l’attuale periodo storico come “The Age of Curation”, partendo dal concetto di “Curated computing” riferito al modo in cui il personale di Apple esamina ogni pezzo di software scritto per i dispositivi iPhone OS prima di permetterne (o bloccarne) l’ingresso nell’App Store. Ma basta pensare alla cura che richiede la manutenzione della nostra Pagina Facebook o LinkedIn, insomma la nostra presenza su un qualsiasi Social Network, per rendersi immediatamente conto di quanto il concetto di “Curation” sia essenziale per chi vive le dinamiche social.

Molti altri esempi sono possibili: fra tutti, pensate alla rivoluzione portata da Internet nel campo della critica musicale, letteraria, artistica: oggi non siamo più dipendenti dai giudizi espressi da Esperti la cui autorità era fondata su criteri non dissimili dall’ipse dixit medioevale. Oggi ciascuno può prendersi cura della propria produzione artistica o dell’artista a cui tiene, utilizzando a questo scopo YouTube, Instagram, persino TikTok, eccetera, per farla conoscere, diffonderla e anche trarne un profitto (teoria della “Coda Lunga” di Anderson). Naturalmente, proprio come capitava nel Medioevo, quando la Chiesa Cattolica, non riuscendo a estirpare certe eresie, le inglobava, magari trasformando gli eretici in santi in base al vecchio adagio “se non li puoi battere, unisciti a loro”, da diversi anni i media mainstream  stanno cercando di inglobare youtubers, instagrammers e tiktokers al loro interno, annullandone qualsiasi potenziale valenza eversiva dell’ordine (massmediale) costituito (penso ad esempio a un quotidiano come La Repubblica e a quanto sto facendo con TikTok, ma Prima online pubblica periodicamente una classifica dei 15 media più social).

Il processo di Content Curation

Il tema della Content Curation è dunque centrale. Con questo termine intendo il processo di creazione o identificazione, contestualizzazione e diffusione di un contenuto così sintetizzabile:

  • Creo o identifico un contenuto già presente in Rete di cui sono competente, in quanto autenticamente appassionato al tema cui si riferisce
  • Seleziono i gruppi di persone da coinvolgere e il/i (se lavoro in un’ottica multicanale) Social Media più adatto/i a veicolarlo (nel caso del Pop Management ho scelto LinkedIn, con retweet su X, Facebook e re-post sul sito dello Humanistic Management)
  • Se il contenuto non è stato creato da me, aggiungo al post un contesto (una foto, una descrizione, una didascalia)
  • Se il contenuto è stato creato da me, ad esempio su questo blog, lo ottimizzo per favorire la condivisione attraverso gli strumenti SEO più diffusi
  • Condivido il contenuto creato o che ritengo interessante segnalare
  • Per dare ulteriore spinta alla sua diffusione, posso utilizzare diverse strategie: coinvolgere le persone citate nel contenuto, o che ritengo potenzialmente interessate, utilizzando la funzione “Notifica”; inviare un messaggio direttamente a singoli o a gruppi di cui voglio richiamare l’attenzione; creare una call4action collegata al contenuto (per sollecitare Opinion Piece nel caso dei nostri Prolegomeni Pop o, al tempo del progetto Le Aziende InVisibili, andando in Second Life per proporre la creazione di cortometraggi ispirati al romanzo collettivo direttamente nel Metaverso – iniziativa che ha prodotto una Web Opera costituita dalla trasposizione cinematografica di una dozzina di episodi, fra cui lo spettacolare Test d’ammissione)
  • Attivo così una conversazione e la sostengo, supportando i commenti più validi con like, risposte più estese, diffusione del commento sotto forma di post autonomo, eccetera: vedi ad esempio il post su LinkedIn dedicato a Prolegomeni 29
  • Se il contenuto fa parte di una riflessione più approfondita lo sviluppo mantenendo il collegamento fra più post attraverso una parola chiave (#PopManagement, #Librare, eccetera)
  • Se la conversazione in Rete ha successo può dare vita ad eventi fisici, white paper, video, infografiche e quant’altro attivando un completo ecosistema digitale (vedi progetti come Alice Postmoderna, Le Aziende InVisibili, Librare, oltre alla stessa riflessione collaborativa sul Pop Management come riassunto in Prolegomeni 29).

Come si vede, al momento io preferisco adottare un approccio “artigianale”, ma gli strumenti di Intelligenza Artificiale stanno emergendo quali potenti abilitatori nella nostra ricerca di creatività e innovazione. Microsoft Copilot e ChatGPT di OpenAI sono solo alcuni esempi di tecnologie basate sull’Intelligenza Artificiale che possono aiutarci a navigare nel vasto oceano di informazioni disponibili in Rete, identificare connessioni rilevanti e, in definitiva, guidare l’innovazione anche nel campo della Curation. Esistono poi diversi strumenti di Intelligenza Artificiale progettati specificamente per la Content Curation. Questi strumenti utilizzano algoritmi avanzati per raccogliere, analizzare e presentare contenuti pertinenti. Tra i più noti ci sono Feedly, Curata e Pocket, che offrono funzionalità diverse per soddisfare le esigenze di vari utenti. Feedly, ad esempio, permette di aggregare contenuti da fonti diverse, mentre Curata si concentra sull’analisi dei dati per identificare i contenuti più rilevanti. Per una approfondimento sul tema rimando a Strategie di content curation basate sull’Intelligenza Artificiale di Silvia Colombo.

Il Pop manager: creator, influencer, Curatore autentico

Del resto, già nel 2008 Forrester Research ha introdotto uno strumento chiamato Social Technographics Ladder, che identifica le tipologie di comportamento social proprio focalizzandosi sulle attività di coinvolgimento e curation. Esclusi gli inattivi, la “ladder”, partendo dal basso verso l’alto, individua:

  • gli spectators (che fruiscono di contenuto social);
  • i joiners (che utilizzano i social network);
  • i collectors (che raccolgono contenuto);
  • i critics (che commentano);
  • i conversationalists (che interagiscono);
  • i creators (che creano contenuto e che possono ambire a essere incoronati influencer).

Il Content Curator di una Social Organization (ovvero il Ceo, in quanto “community manager” nonché Top influencer dell’azienda di cui è responsabile)  dunque non può più essere come il Curatore del Mocambo contiano, un locale dove regna l’incomunicabilità, o simile all’Amministratore Delegato Fordgates del romanzo collettivo Le Aziende InVisibili così come si rivela nel dialogo con il suo Direttore HR Deckard quando lo introduce in quel Mocambo che non a caso è il nome della mensa aziendale della Corporation in cui si svolge l’azione:

“Le è mai accaduto di vedere una mensa che assomigli a  questa?”, chiedeva Fordgates a Deckard, indicando con la mano i nuovissimi locali del Mocambo, il ristorante aziendale che era stato appena inaugurato.

“No, ingegnere, mai avrei immaginato l’esistenza di un posto come questo per i dipendenti”, riuscì appena a farfugliare Sam.

L’odore di fritto e di gente sudata che affollava la mensa lo aveva colpito alla bocca dello stomaco con la forza di un destro sferrato da un pugile professionista.

In omaggio alla Vision della Corporation, che proclamava i pari diritti di fumatori e non fumatori, una nube tossica proveniente dalle mille sigarette accese si diffondeva ovunque, tanto acre e bruciante che all’inizio Sam lacrimò copiosamente.

Si fermò sulla soglia ad asciugare gli occhi con un fazzoletto. Recuperata la vista, si fece largo in mezzo a quella nebbia cancerosa, che velava l’accecante bianchezza di quanto lo circondava.

Bianche erano le bottiglie sugli scaffali, bianchi i tavoli, le tovaglie, le posate e le sedie.

I muri erano dipinti di bianco e bianche  erano le piastrelle del pavimento.

Bianchissimo era il costume da Pulcinella, indossando il quale un noto comico conduceva la nuova puntata dello show aziendale, dal televisore da 100 pollici rivestito in acero accanto alla cassa.

Vasi trasparenti ricolmi di gigli e di rose bianche adornavano i quattro angoli del locale.

Lo specchio dietro al banco rimandava l’immagine di un quadro appeso alla parete opposta, rappresentante un Pierrot morente di un pallore estremo, ormai già cadaverico.

Piccoli faretti diffondevano una luminosità lunare ovunque, dando un tocco di assoluto alla monocromia dominante, quasi che, rappresentando l’assenza di tutti i colori, l’artefice del Mocambo volesse affermare la loro presenza in negativo, donando loro un’orrida Vita nella Morte.

Proclama così, del resto, il gran principio della luce, che produce ciascuno dei suoi colori, ma rimane in se stesso sempre bianco o incolore. Entrare in quel ristorante era allora come immergersi in un Nulla che, nella sua indefinitezza, comporta la rinuncia a tutti i segni e coincide con lo spazio lasciato completamente vuoto. Bianco, appunto.

Deckard si accomodò al banco per ordinare, accompagnato da Fordgates. Ben presto, oltre all’impermeabile, dovette togliersi anche la giacca. Come tutti gli altri avventori, sudava.

Nick Snark, responsabile della gestione, teneva la stufa molto alta nei mesi freddi. In compenso, d’estate il condizionatore trasformava il locale in una cella frigorifera.

“Cosa prende, Deckard?”, chiese Fordgates. “Potrebbe provare qualcuna delle Specialità Astro-etniche del nostro nuovo Mastro Chef Adrian. Perché non prova il Profosfàn? O vuole il Mirminèc? Oppure il Tiobroflit? L’Arsopàn in polvere o in miscela?”.

Il Direttore delle Risorse Umane ponderò attentamente la questione. L’uso degli antidepressivi che stava assumendo nel tentativo di risollevare il  livello di un morale giunto negli ultimi tempi ai suoi minimi storici richiedeva alcune precauzioni: una dieta priva di formaggi fermentati e grassi, di pesci salati, di carni conservate e in genere di tutti quegli alimenti che contengono tiramina, per evitare il rischio di crisi ipertensive (i farmaci, gli avevano spiegato, bloccano anche le monoaminossidasi epatiche, che inducono un aumento dell’assorbimento di tiramina, sostanza in grado di determinare un innalzamento della pressione).

“Un hot dog con tanta senape e un Martini on the Rocks”, rispose.

Ma il barista: “La macchinetta del ghiaccio è rotta”, disse, con la freddezza di uno scacchista. “Niente wurstel, però posso darle dell’albume d’uovo. Invece della senape, del burro fuso”.

“Lascia perdere. Prendo due olive con un Martini Rosso”.

“Abbiamo solo quello Bianco”. (pp. 211-212)

[i] Un esempio, che ribadisce la validità di quanto scritto in Prolegomeni 5, dal Corriere del 7 settembre 2024: Edoardo Leo: il mio Otello pop è un maschio tossico a Roma di Maria Volpe:

“Quattordici anni di lavoro, studio, riflessioni e alla fine eccolo il nuovo Otello, firmato da Edoardo Leo, domani presente a «Fuoricinema». Un film — nelle sale il 14 novembre — in romanesco «ma che non toglie nulla alla poesia di Shakespeare. Aggiunge contemporaneità».

Leo, che film è Non sono quello che sono – The Tragedy of Othello?

«Ho fatto una traduzione usando un linguaggio contemporaneo, un film ambientato ai giorni nostri».

Come è nata l’idea di un Otello moderno?

«Anni fa ho letto un trafiletto: “uomo uccide la moglie e poi si suicida”. E questa è la sinossi dell’Otello, una storia del 1604».

Nulla cambia…

«Poco è cambiato in quel rapporto tossico di mascolinità. E questo mi ha sconvolto. La mia passione per i classici si è fusa con la voglia di raccontare qualcosa di drammaticamente contemporaneo».

E così siamo arrivati a Iago — interpretato da lei — e Otello che parlano romano…

«Esatto. Otello è romano, di origine magrebina. E quindi si inserisce anche il tema del razzismo. Poi c’è Emilia, la compagna di Iago, che è napoletana».

«Una vera storia pop».

«Sì. Del resto, Shakespeare scriveva per il popolo e quindi il mio dialetto non fa che riportare a quella dimensione pop».

[ii] “Alle undici e mezzo arrivano due donne. Portano tutt’e due blue jeans uguali per forma e colore. La prima è bassa e ha i capelli tagliati cortissimi, come una nuotatrice; la seconda, alta, porta i capelli legati. Entrambe hanno scarpe da jogging, una Nike, l’altra Asics. La piú alta è sui quarant’anni, mentre la bassa ne dimostra una trentina. La donna alta indossa una camicia a quadri e ha gli occhiali, la bassa una camicetta bianca. Entrambe portano uno zainetto sulle spalle, e hanno facce cupe come cieli coperti di nuvole. Parlano pochissimo. Ōshima prende in custodia i bagagli delle due che, prima di consegnarli, con aria contrariata tirano fuori penne e taccuini.

Ispezionano gli scaffali a uno a uno e sfogliano con attenzione le schede dei titoli. Ogni tanto prendono qualche appunto. Non leggono libri. Non si siedono nemmeno. Più che visitatrici di una biblioteca, sembrano agenti delle tasse intenti a ispezionare merci sospette. Né Ōshima né io abbiamo la minima idea di chi siano e di che cosa siano venute a fare. Ōshima mi strizza un occhio e si stringe nelle spalle. Non ho per niente un buon presentimento.

Verso mezzogiorno, siedo al banco dell’ingresso per dare il cambio a Ōshima che è andato in giardino a mangiare.

– Avrei delle domande, – dice una delle donne, avvicinandosi. È quella alta. Il tono della voce, secco e duro, fa pensare a del pane dimenticato in fondo alla credenza.

– Sí, mi dica. Lei corruga le sopracciglia e mi guarda come si guarda una cornice storta.

– Dica un po’, lei è uno studente di liceo o sbaglio?

– Sí. Sono qui per un tirocinio, – rispondo.

– Mi può chiamare qualcuno che conosca meglio la situazione?

Vado in giardino a chiamare Ōshima. Manda giú piano, con un sorso di caffè, quello che sta mangiando, si scrolla via le briciole di pane dalle ginocchia e mi segue dentro.

– Prego, ditemi pure, – dice amabilmente.

– Facciamo parte di un’organizzazione che si occupa di svolgere ispezioni nelle istituzioni culturali pubbliche su tutto il territorio nazionale. Lo scopo è di verificare l’adeguatezza degli impianti dal punto di vista della donna: facilità di utilizzo, pari opportunità nell’accesso eccetera. I risultati delle nostre indagini saranno pubblicati. Si tratta di una ricerca a vasto raggio che coinvolge numerose donne. Noi siamo responsabili di questa zona.

– Se non le dispiace, potrebbe dirmi il nome dell’organizzazione? – chiede Ōshima.

La donna tira fuori un biglietto da visita e glielo porge. Ōshima, senza cambiare espressione, lo legge attentamente, lo posa sul banco, e con un sorriso radioso guarda negli occhi l’interlocutrice. Qualunque donna in buona salute, di fronte a un sorriso così, come minimo arrossirebbe un po’, ma questa rimane impassibile.

– Mi duole dover dire che nei nostri controlli, in questa biblioteca abbiamo riscontrato diversi punti che lasciano a desiderare, – dice.

– Dal punto di vista della donna, immagino? – chiede Ōshima.

– Sí. Dal punto di vista della donna, precisamente –.

Fa un colpo di tosse, quindi aggiunge:

– Su questo però, se permette, vorrei sentire qualcuno dell’amministrazione.

– Amministrazione è una parola grossa per questa piccola biblioteca, ma se crede io sono a sua completa disposizione.

– Prima di tutto qui non avete servizi igienici riservati alle donne. È o non è così?

– È così. In questa biblioteca non abbiamo bagni per le donne. I servizi sono per uomini e donne.

– Pur essendo un’istituzione privata, visto che siete aperti al pubblico, non dovreste avere, come principio, bagni separati per uomini e donne?

– Come principio? – ripete Ōshima, quasi non fosse sicuro di aver capito bene.

– Esatto. I bagni misti, per uomini e donne, favoriscono vari tipi di molestie sessuali. Secondo i nostri sondaggi, la maggior parte delle donne avverte un forte disagio a utilizzare bagni misti. Questo dimostra un’evidente negligenza da parte vostra nei confronti delle donne.

– Negligenza, – ripete Ōshima. Ha la faccia di uno che per errore abbia mandato giù una bevanda amarissima. Evidentemente il suono della parola non gli piace.

– Una disattenzione voluta.

– Una disattenzione voluta, – ripete Ōshima, come se l’espressione avesse qualcosa di grossolano che ferisce il suo orecchio.

– Cos’ha da dire al riguardo? – chiede la donna, reprimendo a fatica lo sdegno.

– Come può vedere lei stessa, questa è una biblioteca davvero molto piccola, – dice Ōshima. – Purtroppo, non abbiamo lo spazio per costruire servizi separati per uomini e donne. Sul fatto che avere toilette separate sarebbe preferibile siamo d’accordo, ma finora non abbiamo mai ricevuto lamentele dai visitatori. Per fortuna o per sfortuna, i nostri locali non sono mai affollati. Se vi sta tanto a cuore la questione dei servizi separati per uomini e donne, perché non andate alla sede della Boeing a Seattle e non gli sottoponete il problema delle toilette a bordo dei jumbo jet? I jumbo jet sono molto più grandi e infinitamente più affollati della nostra biblioteca, e per quanto ne sappia io le toilette sono tutte miste.

La donna alta socchiude gli occhi in uno sguardo severo che le muta la fisionomia del viso: gli zigomi si fanno più sporgenti, e gli occhiali le risalgono sul naso.

– Noi non siamo qui per occuparci di trasporti aerei. Non capisco perché dovrei mettermi a discutere con lei di jumbo jet.

– Il fatto che sia nei jumbo jet che nella nostra biblioteca ci siano servizi misti non può forse dare adito allo stesso tipo di problemi? Come principio, ovviamente.

– Senta, noi siamo venute qui per svolgere un’indagine sulle attrezzature degli istituti pubblici. Non per discutere questioni di principio.

Ōshima, sfoderando il sorriso più dolce, dice: – Davvero? Io ero sicuro che invece stessimo parlando proprio di questioni di principio.

La donna alta si accorge di essere incappata in un errore. Arrossisce leggermente, ma non certo per effetto del sex appeal di Ōshima. Cerca di recuperare terreno.

– In ogni caso il problema qui non sono i jumbo jet. La prego di non confondere il discorso tirando fuori cose che non c’entrano.

– D’accordo, non parlerò più di aerei, – dice Ōshima. – Mi atterrò strettamente ad argomenti terrestri.

La donna gli lancia uno sguardo d’odio, fa un respiro, e riprende:

– C’è un’altra cosa che vorrei sapere. Il catalogo degli autori è diviso in uomini e donne.

– Sì, è vero. È un catalogo realizzato dai nostri predecessori, e non so perché sia diviso così. Vorremmo modificarlo, ma non ne abbiamo ancora avuto il tempo.

– Noi non abbiamo nulla da obiettare su questa divisione, – replica la donna.

Ōshima inclina leggermente il collo, perplesso.

– Il problema è che, in tutte le catalogazioni, gli autori maschi vengono prima delle autrici femmine. Secondo il nostro modo di vedere, questa è un’impostazione lesiva del principio di parità fra i sessi, e chiaramente discriminatoria.

Ōshima riprende in mano il biglietto da visita e legge di nuovo il nome della donna, quindi torna a posarlo sul banco.

– Signora Soga, – dice. – Quando lei era a scuola e veniva fatto l’appello, il suo nome veniva prima di Tanaka e dopo Sekine, suppongo. Se ne è mai lamentata? Si è mai opposta chiedendo che invertissero l’ordine? Pensa che nell’alfabeto la G si arrabbi perché la F viene prima? La pagina 68 di un libro fa una rivoluzione perché viene dopo la pagina 67?

– Il punto non è questo, – ribatte la donna alzando la voce. – È già da un po’ che lei ingarbuglia volutamente il discorso.

Nel sentire ciò, l’altra donna, quella piú bassa, che nel frattempo ha continuato a prendere appunti guardando gli scaffali, viene in fretta verso di noi.

Io ingarbuglio volutamente il discorso, – ripete Ōshima, come sottolineando le parole dell’altra.

– Vorrebbe negarlo?

Red herring, – risponde Ōshima.

La Soga lo guarda con la bocca leggermente aperta.

Red herring è un’espressione inglese. Si usa per indicare qualcosa di molto interessante, ma che svia dal tema principale. Aringhe rosse. Purtroppo, nella mia ignoranza non ne conosco l’etimologia.

– Aringhe o sardine che siano, è evidente che lei fa di tutto pur di non affrontare il discorso.

– Per essere precisi, faccio ricorso a un’analogia, – dice Ōshima. – Secondo Aristotele, uno dei metodi più efficaci nell’arte oratoria. Trucchi intellettuali di questo tipo erano molto apprezzati dai cittadini ateniesi che li utilizzavano nella vita di tutti i giorni. Anche se è deplorevole che ad Atene la definizione di «cittadini» non includesse le donne.

– Vuole prenderci in giro? Ōshima scuote la testa.

– No, ciò che vorrei farvi capire è che ci sarebbero molti modi più efficaci di utilizzare il vostro tempo a difesa dei giusti diritti delle donne dell’intero paese che venire qui, in una piccola biblioteca privata di un piccolo centro, a cercare difetti nella sistemazione dei bagni o nel modo con cui cataloghiamo i libri. Noi profondiamo le nostre energie per rendere questa biblioteca, per modesta che sia, utile al territorio che la ospita. Mettiamo a disposizione di coloro che amano la lettura una collezione di libri di alto valore culturale. Ci sforziamo di offrire ai visitatori un’atmosfera accogliente. Forse voi non lo sapete, ma la nostra collezione di studi sulla poesia dall’era Taishō a metà dell’era Shōwa gode di grandissimo prestigio in tutto il paese. Ovviamente avremo dei difetti, dei limiti. Ma nel nostro piccolo ce la mettiamo tutta per dare il meglio. Invece di concentrarvi sulle nostre mancanze, dovreste cercare di rivolgere la vostra attenzione su ciò che riusciamo a offrire realmente. Non sarebbe un atteggiamento più corretto?

La donna alta guarda la donna bassa, e la donna bassa solleva lo sguardo verso la donna alta.

La bassa prende la parola per la prima volta. La voce è acuta e tagliente.

– Tutto ciò che lei dice non è altro che un insieme di argomenti privi di ogni sostanza, volti a rifiutare qualsiasi responsabilità. È comodo parlare di realtà, ma il suo è solo un modo facile di trovare delle giustificazioni. Lei è un classico, patetico esempio di maschilismo, se lo lasci dire.

Un classico, patetico esempio, – ripete ammirato Ōshima. Si direbbe che l’espressione gli sia piaciuta.

– Ancora non le è chiaro? Lei è un perfetto esempio di maschio maschilista e sessista, – interviene la donna alta, con una voce che ormai non tenta più di contenere l’irritazione.

Maschio maschilista, – ripete di nuovo Ōshima.

Ignorandolo, la donna bassa riprende:

– Facendosi scudo degli stereotipi accettati dalla società, e della facile logica maschile che è stata creata per sostenerli, lei trasforma l’intero genere femminile in una categoria di cittadine di seconda classe, limitando o sopprimendo i diritti che alle donne spetterebbero naturalmente. Ciò in modo non intenzionale, forse, ma inconscio, il che è una colpa ben più grave. Forti della vostra insensibilità nei confronti dei dolori altrui, tutelate i diritti e i vantaggi acquisiti in quanto maschi. E non vi sforzate neanche di capire quali gravi danni questa vostra inconsapevolezza rechi alle donne e alla società. Naturalmente i bagni separati e il problema del catalogo non sono che piccoli dettagli, ma è dai dettagli che bisogna partire per giungere all’insieme. Se non cominciamo da questi, non arriveremo mai a strappare il velo di inconsapevolezza che soffoca il nostro intero sistema sociale. Questi sono i principî su cui si basa la nostra azione.

– E sono anche quelli in cui si riconosce qualunque donna dotata di cuore e cervello, – aggiunge la donna alta, con uno sguardo privo di espressione.

Vi è forse una donna dotata di cuore che sottoposta a tali torture non si comporterebbe come me? – dice Ōshima.

Le due donne rimangono mute e impassibili come ghiacciai.

– È l’Elettra di Sofocle. Una tragedia sublime. L’ho letta e riletta molte volte. Ah, per inciso, la parola «genere» indica una categoria grammaticale. A mio parere, per esprimere la distinzione fisica tra maschio e femmina «sesso» è più corretto. L’uso che oggi si fa del termine gender è improprio, se mi permettete questa piccola precisazione linguistica.

Segue un silenzio gelido.

– In ogni caso ciò che dite è fondamentalmente sbagliato, – dice Ōshima, in un tono calmo ma che non ammette repliche. – Non credo proprio di poter essere un classico, patetico esempio di maschio maschilista.

– E che cosa ci sarebbe di fondamentalmente sbagliato, se vuole spiegarcelo in termini semplici? – chiede la donna bassa, con tono di sfida.

– Possibilmente senza tanti giri di parole e sfoggio di erudizione, – aggiunge la donna alta.

– D’accordo. Allora ve lo dirò senza giri di parole e senza sfoggio di erudizione, in termini semplici e nel modo più diretto, – dice Ōshima.

– Siamo pronte, – dice la alta.

L’altra fa un energico cenno di assenso col capo.

– Prima di tutto, io non sono un maschio, – dichiara Ōshima.

Tutti rimaniamo a bocca aperta, e nessuno dice nulla. Io mi giro istintivamente verso di lui, che è accanto a me.

– Sono una donna, – dice Ōshima.

– Se potesse evitare questi scherzi stupidi, – sbotta la bassa, dopo qualche istante di pausa. Ma si capisce dal tono che l’ha detto solo perché qualcuno doveva pur dire qualcosa, e che non ne è convinta per niente.

Ōshima estrae il portafogli dalla tasca dei suoi pantaloni chino, tira fuori una tessera di plastica e gliela porge. È un documento con la sua foto, che sembrerebbe rilasciato da qualche ospedale. La donna legge socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco quello che c’è scritto, quindi lo passa alla collega. Anche lei legge, quindi, dopo un attimo di esitazione, lo riconsegna a Ōshima, con la faccia di una che durante una partita ha appena visto la carta che la farà perdere.

– Vuoi vedere anche tu? – chiede Ōshima rivolto a me.

Io scuoto la testa in silenzio, e lui rimette la tessera nel portafogli, e il portafogli nella tasca dei pantaloni. Poi appoggia entrambe le mani sul tavolo.

– Quindi, come avete potuto constatare, sia dal punto di vista biologico che da quello anagrafico sono, indiscutibilmente, una donna. Ecco perché ciò che avete detto di me è fondamentalmente sbagliato. Non vedo come potrei corrispondere alla vostra definizione di perfetto esempio di maschio maschilista e sessista.

– Ma… – comincia a dire la alta, tuttavia non sa come proseguire. La bassa ha le labbra serrate che disegnano una linea diritta, e con la mano destra si aggiusta il colletto della camicetta.

– Anche se ho la struttura fisica di una donna, la mia personalità è però completamente maschile, – continua Ōshima. – La mia vita psicologica è quella di un uomo. Quindi può anche darsi che quando mi considerate un «classico caso» abbiate qualche ragione. E sarò pure un famigerato sessista. Chissà. Comunque, nonostante il mio aspetto, non sono una lesbica. Per quanto riguarda le mie preferenze sessuali, mi piacciono gli uomini. Dunque, anche se sono una donna, sono gay. Nel sesso, non ho mai usato la vagina, ma solo l’ano. Il mio clitoride è sensibile, ma i miei capezzoli no. Non ho mestruazioni. Quindi, in che modo una persona come me potrebbe essere sessista? C’è qualcuno qui che me lo vuole spiegare?

Ancora una volta le due donne e io restiamo ammutoliti. Si sente un colpo di tosse, ma perfino quel suono sembra inopportuno. Nel silenzio rimbomba sordo il ticchettio dell’orologio.

– E adesso, se mi volete scusare, vorrei finire il mio pranzo, – dice Ōshima con un sorriso. – Stavo mangiando degli involtini di tonno e spinaci. Mi avete chiamato che ero giusto a metà. Se li lascio ancora un po’ non troverò più nulla: questa zona è piena di gatti. C’è molta gente che abbandona i gattini appena nati nella pineta lungo il mare. Quindi, se non avete più bisogno di me, finirei di mangiare. Ma voi, prego, fate pure con comodo. Questa biblioteca è aperta a tutti. Purché si rispetti il regolamento, e non si disturbino gli altri visitatori, si è completamente liberi. Guardate tutto quello che desiderate, senza fretta, e scrivete pure quello che volete nel vostro rapporto. Qualsiasi cosa scriviate, non ci offenderemo. Finora siamo andati avanti senza ricevere le sovvenzioni di nessuno, e senza lasciarci indottrinare da nessuno, e abbiamo intenzione di continuare così.

Dopo che lui si è allontanato, le due donne si guardano in silenzio fra loro, poi si girano a guardare me. Forse pensano che io sia l’amante di Ōshima. Senza dire niente, mi metto a riordinare le schede. Le due si scambiano alcune parole a bassa voce tra gli scaffali, e dopo un po’ raccolgono le loro cose per andarsene. Hanno facce torve, e quando porgo loro gli zainetti, non mi ringraziano nemmeno.

Finito di mangiare, Ōshima torna, portandomi due dei suoi involtini. Sono fatti con una pasta verde, simile a quella delle tortillas, ripiena di spinaci e tonno, con sopra una salsa bianca. Saranno il mio pranzo. Faccio bollire l’acqua, mi preparo il tè con una bustina di Earl Grey ed esco nel giardino.

– Le cose che ho detto prima erano tutte vere, – mi dice Ōshima quando torno dopo aver mangiato.

– Allora era questo che intendeva, quella volta che si era definito «diverso»? – chiedo.

– Non è una cosa di cui mi vanti, ma adesso puoi capire che quando l’ho detto non esageravo affatto.

Annuisco in silenzio.

Ōshima sorride.

– Anche se anatomicamente sono una donna, i miei seni sono quasi inesistenti, e non ho mai avuto mestruazioni. Ma non ho nemmeno il pisello, né i testicoli, e nemmeno la barba. Insomma, non ho niente. Sono una tabula rasa. Immagino che forse sarà difficile per te immaginare che cosa si prova.

– Forse, – rispondo.

– A volte non lo capisco più nemmeno io. Che cosa sono? Che cosa può essere uno come me?

Scuoto la testa. – Se è per questo, signor Ōshima, anch’io non capisco che cosa sono io.

– Crisi di identità, un eterno problema…

Annuisco.

– Tu almeno hai un punto da dove partire. Io neanche quello.

– Qualunque cosa lei sia, signor Ōshima, io le voglio bene –. È la prima volta in vita mia che dico una cosa simile a qualcuno.

Arrossisco.

– Grazie, – dice Ōshima, e poggia leggermente la mano sulla mia spalla. – Effettivamente io sono un po’ diverso dagli altri. Però fondamentalmente sono un essere umano tra tanti esseri umani. È questo che vorrei tu capissi. Non una creatura di un altro pianeta, ma un normale essere umano che sente e agisce come tutti. A volte però questa piccola differenza diventa per me una voragine senza fondo. Ma al fatto che questo accada periodicamente, sono ormai rassegnato.

Prende in mano una matita che è sul tavolo, e la guarda assorto. Quella lunga matita appuntita sembra quasi la continuazione del suo corpo.

– Volevo parlartene appena si fosse presentata l’occasione. Preferivo essere io a dirtelo di persona, prima che lo sentissi dire da qualcun altro. Quella di oggi, tutto sommato, è stata una buona opportunità. Anche se non si può dire che sia stata una situazione piacevole.

Annuisco.

– A causa del tipo di persona che sono, ho subíto discriminazioni in vari modi e in varie circostanze, – dice Ōshima. – Che cosa significhi essere discriminato, e quanto profondamente si resti feriti, sono cose che solo chi le ha subite può capire. Ogni dolore è unico, e anche le cicatrici hanno una forma diversa per ciascuno. Perciò nel combattere la discriminazione e l’ingiustizia, credo di non essere secondo a nessuno. Ma se c’è una cosa che mi indigna ancora di piú, sono le persone prive di immaginazione. Quelle che T. S. Eliot chiamava «gli uomini vuoti». Persone insensibili che coprono questa loro mancanza di immaginazione, questo loro vuoto, con un ammasso di segatura, e senza rendersene minimamente conto se ne vanno in giro per il mondo a tentare di imporre a tutti i costi questa loro ottusità agli altri, mettendo in fila parole vuote e senza senso. Insomma, per farla breve, persone come quelle due che abbiamo appena visto.

Fa un sospiro, e si rigira la lunga matita tra le dita.

– A me non importa se una persona è gay, lesbica, etero, femminista, se è un porco fascista, o un comunista o un Hare Krishna. Non mi importa assolutamente nulla sapere che bandiera sventoli. Quelle che non sopporto sono le persone vuote. Quando sono di fronte a persone cosí, perdo ogni controllo, e finisco col dire anche cose che non vorrei. Ad esempio, poco fa avrei fatto meglio a glissare, a non lasciarmi coinvolgere. Avrei potuto chiamare la signora Saeki e affidare il problema a lei, che avrebbe risolto tutto col sorriso sulle labbra. Ma io non ne sono capace. Dico cose che farei meglio a tacere, e faccio cose che farei meglio a evitare. Non mi so controllare. È il mio punto debole. Capisci perché è un punto debole?

– Perché se uno volesse confrontarsi seriamente ogni volta con le persone senza immaginazione, non gli basterebbero molte vite, – rispondo.

– Esatto, – dice Ōshima, e si preme leggermente l’estremità di gomma della matita contro la tempia. – È proprio questo il punto. Però, Kafka, ricordati bene una cosa. Anche quelli che allora uccisero il ragazzo della signora Saeki erano gente così. Gente priva di immaginazione, intollerante, senza orizzonti. Gente che vive una realtà fatta di convinzioni tutte sue, slogan vuoti, ideali orecchiati qua e là, sistemi rigidi. Sono queste le persone che a me fanno davvero paura. Le temo e le disprezzo. Naturalmente, anche capire ciò che è giusto e sbagliato è importante. Ma nella maggior parte dei casi, ognuno col tempo può correggere i propri errori di valutazione. Se si ha il coraggio di riconoscere i propri errori, il più delle volte è possibile rimediare. Ma la ristrettezza di vedute, la rigidità di chi è privo di immaginazione ha una natura simile a quella dei parassiti. Si trasferiscono da un organismo all’altro, mutano di forma e continuano a vivere e a proliferare. Sono casi senza speranza. Ma almeno qui vorrei che non mettessero piede.

Con la punta della matita Ōshima indica gli scaffali intorno a noi, però è chiaro che si riferisce a tutta la biblioteca.

– No, proprio non ci riesco, a liquidare gente come questa con una risata”.

Tratto da Murakami Haruki, Kafka sulla spiaggia, Einaudi, 2009.

32 – continua

Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)

Puntate precedenti

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE  POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO
22 – OPINION PIECE DI ROBERTO VERONESI
23 – OPINION PIECE DI FRANCESCO GORI
24 – OPINION PIECE DI NELLO BARILE
25 – OPINION PIECE DI LUCA MONACO
26 – OPINION PIECE DI RICCARDO MILANESI
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28 – OPINION PIECE DI ROBERTA PROFETA
29 – UN PUNTO NAVE
30 – ORGANIZZAZIONE  POP. VERSO L’HYPERMEDIA PLATFIRM (CURA)
31 – OPINION PIECE DI NICHOLAS NAPOLITANO