Immagine di Marcello Minghetti per Ariminum Circus Stagione 1

Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 25 – Storytelling Pop. Opinion Piece di Luca Monaco

Luca Monaco, Global Head of Creative and Production di BIP, è una figura poliedrica nell’ambito dei contenuti e dei progetti transmediali. In particolare, è  produttore e autore del docufilm Connected, attualmente disponibile su Apple TV e Prime Video, e di podcast internazionali come Fit4BIP e Inevitable.

Una storia Pop, mille declinazioni

Luca Monaco

 

Dal Cluetrain Manifesto al Pop Management

Per millenni i mercati sono stati luoghi fisici dove venditori e acquirenti si incontravano per effettuare le loro transazioni commerciali guardandosi negli occhi e dialogando.

Nell’era industriale, con la standardizzazione della produzione e la massificazione dei mercati, le aziende hanno cominciato a indirizzare i loro messaggi a una moltitudine indifferenziata di consumatori, che spesso non erano interessati a riceverli. Il Web ha restituito ai mercati la loro originaria vocazione al dialogo: la Rete rappresenta infatti un luogo reale, dove le persone si scambiano opinioni su prodotti e compagnie.

Un approccio innovativo al rapporto tra imprese e clienti nell’era di Internet è stato offerto dal Cluetrain Manifesto, la raccolta di 95 tesi elaborate allo scopo di analizzare l’impatto di Internet sulla comunicazione aziendale interna ed esterna, evocata anche nell’incipit di Prolegomeni 2. La prima tesi contenuta nel Manifesto recita: “Markets are conversations”. Con questa affermazione, il Manifesto propone alle imprese di rivedere i propri processi comunicativi, trasformandoli in un dialogo con i propri pubblici, da considerarsi non più come semplici target di consumatori, bensì come persone. [i]

Il modello di comunicazione predominante nei mercati attuali appare lontano da quello che abbiamo conosciuto finora, incentrato sul paradigma pubblicitario: i nuovi media e i cambiamenti culturali da essi indotti spingono verso una forma di “mercato post-pubblicitario”, caratterizzato da un Pop Storytelling, una brand experience interattiva e coinvolgente, nel contesto della transizione che così viene descritta nel primo dei “Prolegomeni” introduttivi: «se l’azienda vuole ascoltare ed essere ascoltata dai propri stakeholders interni ed esterni, deve essere in grado di competere con tutto ciò che nel mondo contemporaneo assume le forme (i format) della Cultura Pop: un podcast, un videogioco, una serie tv, un reel. Ogni contenuto, strumento o processo aziendale che richieda un’attenzione diversa giunge da un’altra epoca e lo condanna definitivamente».

Pop Storytelling: il mondo capovolto tra media e brand

È in questo contesto che si colloca il termine Transmedia Storytelling introdotto dal ricercatore americano Henry Jenkins nel suo libro Convergence Culture (2006)[ii]. Fare transmedia significa raccontare storie distribuite su più mezzi di comunicazione, simultaneamente o in tempi diversi, in progetti d’intrattenimento o d’informazione, d’arte, scientifici o promozionali articolati su più piattaforme editoriali. Si tratta dunque di inventare, strutturare o disarticolare, condividere e far interagire storie distribuite nei diversi mezzi di comunicazione (asset) del sistema comunicativo di un progetto editoriale. Cosicché una storia può essere raccontata da un film e in seguito diffusa da televisione, libri e fumetti; il suo mondo potrebbe essere esplorato attraverso un gioco o un podcast o approfondito attraverso un post sul magazine proprietario.

In riferimento all’applicazione del transmedia storytelling al marketing e alla comunicazione di brand, viene utilizzata l’espressione “transmedia branding”[iii], per la quale Tenderich e Williams propongono la seguente definizione: “un processo in cui elementi costitutivi di un brand sono dispersi sistematicamente su molteplici canali, per creare un’esperienza unitaria e coordinata, in cui ogni medium apporta il suo contributo originale allo svolgersi della storia”.

La narrazione diventa transmediale quando il brand si trova a veicolare la propria storia attraverso un ecosistema narrativo composto da tutti i canali che ha a disposizione.

Tale è del resto il modello di riferimento di questi Prolegomeni creato da Marco Minghetti: un ecosistema di connessioni a rimandi non solo all’interno della singola Conversazione, ma nell’ambito sia di una determinata serie di Conversazioni, sia con tutto quanto prodotto in Rete su un tema specifico (vedi ad esempio i progetti Librare o ma anche quello relativo alle community aziendali, Prolegomeni 14 e 15).

L’approccio ecosistemico offre enormi possibilità per intrattenere relazioni con il proprio pubblico. I canali di comunicazione utilizzati contemporaneamente per stabilire un contatto con il pubblico hanno scopi e funzionalità differenti. Tradotto: non si comunica un messaggio identico su ogni canale che si ha a disposizione. I canali comunicativi, perciò, devono essere usati in maniera integrata per sfruttare efficacemente tutte le possibilità che ogni piattaforma offre. In questo modo è possibile rimandare al pubblico un’esperienza del brand a tutto tondo.

Il Pop Storytelling rappresenta un’evoluzione del mondo capovolto tra media e brand. Fare marketing basandosi sui contenuti significa, per le aziende, rivedere i propri meccanismi comunicativi e i processi organizzativi aziendali, includendo al proprio interno funzioni e processi un tempo riservati alle aziende editoriali. Come spiegato in Prolegomeni 1 “non è semplice: anche se pensiamo al marketing, che pure, è naturalmente immerso nella Popular Culture. «Per diventare POP ci vuole coraggio: per anni abbiamo lavorato per aziende abituate a creare piani media e campagne creative seguendo degli schemi prestabiliti: spesso molto ripetitivi e ormai entrati a far parte della consuetudine» ha commentato Stefano Pagani, autore del volume La seconda legge dei POP Brand. «Diventare un brand realmente POP significa mettere in discussione quei canoni e lavorare seguendo uno schema nuovo, diverso, capace di ascoltare le persone, cogliere il loro sentire e lavorare insieme a loro per propagare un messaggio di marca più forte, efficace e duraturo»”.

Soddisfare i 4 bisogni fondamentali del branding

Si tratta di pratiche manageriali che necessitano di un mindset capace di accostare il marketing e la semiotica, la narratologia e i media studies, la sociologia della comunicazione e gli studi sul cinema. Un’idea che riflette il metodo metadisciplinare e aperto del Pop Management.

I contenuti che un’azienda dovrà produrre per i suoi pubblici devono essere interessanti e in grado di soddisfare dei bisogni, i quali possono essere di quattro tipi: informazione, educazione, intrattenimento o servizio.

La comunicazione aziendale è sempre più spesso rappresentata da prodotti ad alto livello di intrattenimento del pubblico, come film, documentari, cortometraggi, video per i social, web series, eventi in streaming e podcast. Questo è il Branded Entertainment, una delle leve della comunicazione di marca in cui arte e pubblicità trovano un nuovo punto d’incontro “No Borders”. Un esempio di Branded Entertainment di successo è dato da The Hire, il caso pionieristico del fenomeno in formato “serie” realizzato da BMW North America e presentato al Festival di Cannes nel 2003. L’azienda tedesca ha prodotto una miniserie di otto episodi in cui, attraverso le avventure di un autista interpretato dall’attore Clive Owen, e dei suoi passeggeri, venivano mostrate le prestazioni dei vari modelli di automobile della marca. Ogni episodio è stato diretto da un regista diverso di fama internazionale e vanta l’ingaggio di grandi star del cinema. Un caso italiano è rappresentato dal corto “Una notte a Torino”, realizzato da Lavazza e trasmesso a puntate sui canali Sky, totalizzando oltre 2 milioni di spettatori, 3 milioni di views e 15 milioni di impression sui social.

Non solo intrattenimento: le aziende possono oggi comunicare con i propri pubblici utilizzando tecniche tipicamente giornalistiche, in una forma ibrida tra giornalismo tradizionale, marketing e pubbliche relazioni, che viene definita “brand journalism”. Per esempio, la General Electric ha avviato diverse riviste digitali compresa GE. Reports, che raggiunge 300000 lettori, posizionandosi allo stesso livello di molte riviste scientifiche in vendita al pubblico.

Si può ricorrere, infine, a strumenti di “brand gamification” (la reinterpretazione e presentazione dell’immagine, delle attività e del ruolo del brand attraverso giochi o videogame), advergame (forme ibride di giochi e advertising) e alternate reality game (o ARG, esperienze interattive che mescolano realtà e mondi virtuali, legate ad esempio al lancio di un prodotto o di un’iniziativa).

Il contenuto come modello di business

La creazione di contenuti originali di alta qualità è difficile. Avere successo significa guardare al marketing da un punto di vista completamente diverso. La strategia è allettante, ma i contenuti originali richiedono grandi investimenti economici, competenze che le aziende non avevano, slittamenti culturali che non volevano accettare e nuovi criteri, un’amministrazione e procedure che non capivano.

Quelle aziende che hanno precorso i tempi non sono più disposte ad accettare l’idea di dover continuare a pagare l’accesso al pubblico. Non guardano più ai media solo come un investimento a breve termine inteso come integrazione alla pubblicità.

Nel prossimo futuro, si farà strada una nuova funzione del marketing: l’uso strategico dei contenuti, che non solo costruiranno il pubblico, veicolando la creazione e il mantenimento dei clienti, ma lo faranno generando profitti.[iv]

Molte persone hanno una percezione molto distinta di cosa faccia una media company e cosa un marchio di prodotti. E oggi per la maggior parte sono differenti. Tuttavia, le differenze di modello di business fra le due andranno a sparire. Le media company aziendali otterranno entrate sia dalla vendita di prodotti e servizi, sia vendendo prodotti media tradizionali (registrazioni/abbonamenti e share).

Quando si costruisce un pubblico, entrambi i fattori dell’equazione delle entrate sono possibili. Non si tratta solo di marketing… È un modello di business.

E Walt Disney lo sapeva già più di sessant’anni fa.

[i] Christopher Locke, Dock Searls, David Weinberger, The Cluetrain Manifesto, Basic Book, 1999

[ii] Jenkins Henry, Transmedia Storytelling, MIT Technology Review, 15 gennaio 2003,

[iii] Jenkins Henry, Engaging with Transmedia Branding: An Interview with USC’s Burghardt Tenderich (Part One), henryjenkins.org, 1 ottobre 2015

[iv] Joe Pulizzi e Robert Rose, Uccidi il marketing. Come trasformare i costi del marketing in profitti, Giunti, 2018

25 – continua

Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)

Puntate precedenti:

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE  POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO
22 – OPINION PIECE DI ROBERTO VERONESI
23 – OPINION PIECE DI FRANCESCO GORI
24 – OPINION PIECE DI NELLO BARILE