Immagine di Marcello Minghetti per Ariminum Circus Stagione 1

Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 22 – Leadership Pop. Opinion Piece di Roberto Veronesi

Torniamo ad occuparci di Leadership Pop grazie al contributo di Roberto Veronesi, Responsabile Comunicazione e Sviluppo risorse umane di Fondazione LINKS, che ha attraversato i mari tempestosi delle organizzazioni di grandi aziende come Fiat, Seat Pagine Gialle, Telecom, Iren e si è divertito a raccontare la cultura aziendale nel romanzo Qui non ride mai nessuno (2021).

 

POPLEADER, CHE FATICA!

Roberto Veronesi

CONTESTI E CAMBIAMENTI

“Ho visto cose che voi umani …” dice Rutger Hauer alias Roy Batty, in Blade Runner (1982 ) in una delle più indimenticabili scene del cinema di tutti i tempi.

Ed io, in quarant’anni circa di viaggio all’interno di grandi organizzazioni, ho visto i profondi mutamenti nella cultura, negli stili di leadership e di management, nei comportamenti premianti e premiati. Non ho visto “navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione”, ma certamente la possibilità di osservare, stupirmi e rielaborare, sì. Se facciamo un salto indietro, diciamo proprio intorno agli anni in cui usciva Blade Runner e ci confrontiamo con oggi, i cambiamenti e relativa velocità, intensità e imprevedibilità con cui si manifestano, segnano il passaggio continuo da un contesto, da un’“epoca” (per riprendere il termine flaubertiano utilizzato da Marco Minghetti nel post precedente) a quella successiva.

Come si afferma nella Premessa al Manifesto dello Humanistic Management il punto di partenza è proprio una “maniacale attenzione al contesto”. E come ci ricorda ancora Marco Minghetti il «principio fondamentale del Pop Management è un aprirsi al mondo fondato sulla trasparenza, condivisione di informazioni, opinioni ed esperienze con tutti gli stakeholder, clienti, partner, dipendenti, fornitori comunità locali, associazioni, fondazioni» (Prolegomeni 7).

E i nostri bravi leader? Come se la sono cavata? Come sono cambiati?

“Fiumi di parole” recitava una canzone del ‘97 e sul tema della leadership e della relativa cultura organizzativa si sono spesi e si spendono fiumi di parole, sono stati versati e si versano fiumi di inchiostro. Manuali, test, questionari, corsi, master, indagini per definire modelli, auto valutarsi, spiegare vantaggi e svantaggi, rischi e opportunità di uno stile rispetto ad un altro. Illuminante e divertente a questo proposito quanto viene suggerito da Joseph Sassoon nel suo intervento sull’utilizzo della teoria dei Brand Archetypes per fornire ispirazione e orientamento ai leader aziendali

In questo appassionante dibattito provo a inserirmi con alcune semplici riflessioni. Suggerite dall’esperienza, dall’osservazione, dallo studio e da un po’ di Pop-pragmatismo.

Date per scontate le specifiche competenze e l’impegno, altre parole chiave oggi sono, visione, ascolto, delega, fiducia, coaching, atteggiamento positivo, gentilezza, responsabilità sociale, inclusione, passione per il cambiamento, coraggio, velocità. Penso inoltre che una organizzazione (intesa come unicum o come direzione o funzione o reparto) non possa avere solo un leader di riferimento, ma si debba avvalere di una leadership diffusa a vari livelli in grado di navigare in acque agitate senza dover sempre attendere le decisioni del “capo”.

Cosa si può aggiungere ancora? Qualcosa forse sì. Caratteristiche talmente ovvie da apparire banali, ma per questo indispensabili.

PERCHE’ CI VUOLE ORECCHIO, BISOGNA AVERE…

Ironia, capacità di ridere. Fondamentale, oggi. Non così forse 20 o 30 anni fa. Anzi immaginatevi un leader di quei tempi con questa capacità, probabilmente sarebbe stato “fuori tono”. Oggi è imprescindibile. Per raggiungere obiettivi sempre più sfidanti, sempre più complicati, fare cose estremamente serie, è necessaria la capacità di stemperare tensioni, conflitti, di individuare gli aspetti divertenti di una situazione, di ricondurre a dialogo con una battuta e una risata, con il sorriso. Serve la leggerezza di Italo Calvino, “planare sulle cose dall’alto, senza macigni sul cuore”.

Buonsenso, “forma di equilibrata adesione alla realtà”. Verrebbe da dire alle realtà, molteplici, in costante movimento, spesso conflittuali e percepite molto diversamente dalle diverse generazioni che oggi popolano le community aziendali. Oltre a quanto scritto prima, ci vuole sano, semplice buonsenso. Più che regole, manuali e procedure a cui aggrapparsi il leader deve metterci bunsens (come dicevano i miei nonni in rigoroso torinese) nel renderle operative, nell’accettare imperfezioni, sbavature, forzature ed errori. Correggendo e migliorando il tiro di volta in volta.

Equilibrio, è uno dei termini che più sento citare in questi mesi. Equilibrio economico, equilibrio finanziario, equilibrio emotivo, equilibrio casa – lavoro … Equilibrio: “in biologia, la capacità di percepire e adattare il movimento del corpo rispetto alla forza di gravità e altre forze esterne”. Le forze esterne ad una specifica organizzazione sono, oggi, sempre più pressanti e più imprevedibili e provenienti da un ecosistema di relazioni che esprime a sua volta necessità e bisogni imprevisti e spesso divergenti. Ed eccolo lì allora il nostro bravo leader, dotato di ironia e buon senso, a trovarsi in bilico. In bilico tra forze contrastanti, in costante dis equilibrio per mantenere l’equilibrio. La corda sospesa, il percorso da fare per arrivare all’obiettivo della azienda o della organizzazione per cui lavora. Tra innumerevoli forze (capi, collaboratori, partner, fornitori, azionisti, soci …. che spesso tirano in direzioni opposte e confliggono tra loro). Non so se ci sia una relazione ma, mai come negli ultimi mesi, ho sentito di responsabili a vari livelli che hanno sofferto di labirintite e dei relativi disturbi di equilibrio.

Linguaggio. “Come parlaaaa, come parlaaaa! Le parole sono importantiiii” gridava Nanni Moretti in Palombella rossa prendendo a schiaffi una petulante giornalista.

Si lo sono, sono importanti. Non dico nulla di originale ricordando che le parole hanno un potere straordinario. Creano la realtà, dipingono immagini, evocano sensazioni, producono sentimenti, fanno gioire o rattristare, innamorare o odiare, deprimere o esaltare, determinano comportamenti, esprimono l’anima di una persona. Chi sa usare bene le parole, il linguaggio in generale, attrae, incanta. Ognuno di noi può pensare a vari e veri leader in diversi campi (politica, sport, industria, giornalismo…) e si accorgerà che in generale sanno usare le parole (e le pause) con grande perizia.

Mi ha sempre sorpreso la scarsa attenzione che, in azienda, si dà alle parole utilizzate, diffuse, ripetute, date per scontate. In un mondo che diventa sempre più complesso, più complicato da maneggiare, più difficile da gestire e prevedere, ci attrezziamo su vari fronti. Tecnici, tecnologici (si pensi allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, della cybersecurity, dell’internet delle cose ecc.), gestionali, etici, prestiamo sempre più attenzione alla sostenibilità e all’inclusione. E poi? Poi utilizziamo sempre gli stessi modi di dire, sempre le stesse parole per descrivere l’organizzazione che ci circonda e di cui facciamo parte. In alcuni casi peggiorando la situazione con neologismi che producono l’effetto contrario rispetto al motivo per cui sono stati coniati. Diversity manager, sinceramente, non si può sentire

Funzioni, produzione, impiegati, dipendenti, sottoposti, fornitori, contabilità, costi, ricavi, potere ecc. ecc. Tutte parole tendenzialmente razionali e fredde. Può essere diversamente si dirà? Non so, forse no. O forse sì. In effetti si tratta della verbalizzazione di un mondo pensato in modo assolutamente razionale e meccanicistico, gerarchico e funzionale. Che oggi, forse non lo è più tanto. Né razionale, né meccanicistico. E che nella gerarchia e nella funzionalità (comunque necessarie) trovano però un alibi e un limite alla trasversalità e alla necessaria ibridazione delle competenze. Proviamo solo come primissimo esempio a sostituire impiegati, dipendenti sottoposti con persone, potere con responsabilità, diversità con eterogeneità. E’ già un mondo diverso.

Se torniamo poi al tema delle generazioni presenti in azienda e ai linguaggi utilizzati, il Pop leader deve necessariamente utilizzare parole e segni diversi se si trova a dialogare con community diverse, con la community Z o con quella dei boomer se parliamo di generazioni. Così come, generalmente, passa con disinvoltura all’inglese così è importante che utilizzi linguaggi diversi in funzione della generazione e/o della community con cui si confronta.

Ma che fatica, povero leader!

21 – continua

Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)

Puntate precedenti:

1 – DALLO HUMANISTIC AL POP MANAGEMENT
2 – MANIFESTI, ATLANTI, MAPPE E TERRITORI
3 – IL MANAGER PORTMANTEAU
4 – WHICH WAY, WHICH WAY?
5 – LEADERSHIP POP (LEZIONI SHAKESPEARIANE)
6 – OPINION PIECE DI RICCARDO MAGGIOLO
7 – LEADERSHIP POP (APERTURA, AUTONOMIA, AGIO, AUTO-ESPRESSIONE)
8 – OPINION PIECE DI JOSEPH SASSOON
9 – OPINION PIECE DI CESARE CATANIA
10 – OPINION PIECE DI VANNI CODELUPPI
11 – OPINION PIECE DI ALESSANDRO GIAUME
12 – COLLABORAZIONE POP. L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE COMMUNITY INTERNE
13 – COLLABORAZIONE POP. L’EMPATIA SISTEMICA
14 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE PRIMA
15 – COLLABORAZIONE POP. LE COMMUNITY AZIENDALI: UNO STATO DELL’ARTE, PARTE SECONDA
16 – OPINION PIECE DI MATTEO LUSIANI
17 – OPINION PIECE DI MARCO MILONE
18 – OPINION PIECE DI ALESSIO MAZZUCCO
19 – OPINION PIECE DI ALESSANDRA STRANGES
20 – OPINION PIECE DI FRANCESCO VARANINI
21 – ORGANIZZAZIONE  POP. COMANDO, CONTROLLO, PAURA, DISORIENTAMENTO