Matteo Lusiani è un esperto di branding, lavora come consulente per strategie identità di marca. È autore del libro «Il brand, raccontato. Cosa sono i brand e che ruolo hanno nelle nostre vite» (Fausto Lupetti 2023) e del podcast «Brandroad – Le vie della marca» che nel 2022 è entrato nella top 10% dei podcast più condivisi e seguiti al mondo, secondo Spotify, e al quale hanno partecipato alcuni dei più importanti esperti italiani di branding e pubblicità.
Gestire un brand significa fare cultura
Matteo Lusiani
Era il Natale del 2000, io avevo dodici anni e avevo una sola richiesta: una tuta della Nike. Non solo una tuta. Una tuta della Nike. La volevo perché adoravo lo spot «The Mission», nel quale alcuni dei calciatori più famosi del mondo dovevano recuperare un pallone protetto da un esercito di samurai-robot.
Quando aprii il pacco trovai una tuta color panna con i pantaloni neri. Ricordo che mi era piaciuta tantissimo, finché non mi sono reso conto che il logo non era della Nike (ma di un’altra marca famosa). Improvvisamente «quella» tuta era diventata «un’altra» tuta, non mi dava più le stesse sensazioni di un attimo prima.
Mentre rifletto ancora una volta su questo ricordo (con cui ho iniziato il mio libro «Il brand, raccontato» [1]), rimango nuovamente colpito dal potere dei brand: hanno una capacità sorprendente di modellare la nostra percezione, influenzare il nostro comportamento e intrecciarsi con il tessuto culturale.
Questo aspetto è ancora troppo spesso trascurato da chi si occupa di branding, eppure è alla base delle dinamiche profonde per cui i brand acquistano valore (anche in termini puramente economici). Dunque credo meriti un approfondimento.
Il rapporto tra brand e persone
Più di trent’anni fa Andrea Semprini diede questa definizione di «marca» (sinonimo italiano di «brand», ma che col tempo ha acquisito significati più ristretti rispetto all’inglese): «l’insieme dei discorsi tenuti su di essa» [2].
Era un approccio diverso da quanto si era visto fino a quel momento perché spostava il focus dall’azienda alle persone. Che fosse l’approccio corretto è diventato evidente con l’avvento del web 2.0, quando gli utenti di internet sono diventati non solo fruitori ma anche creatori di contenuti. Per la prima volta il pubblico disponeva degli strumenti per interagire con le aziende, dimostrando che il significato di un brand è una continua mediazione tra ciò che l’azienda comunica e l’idea che il pubblico ha di esso.
Il brand è dunque una costruzione sociale, influenzata dal contesto culturale e dalle esperienze individuali. È, per citare i «Prolegomeni al Manifesto del Pop Management 13», un atto di co-creazione: «Il processo di co-creazione permette a tutti i soggetti coinvolti nella comunicazione di contribuire alla costruzione di un’interpretazione condivisa dell’organizzazione – compresi i suoi valori, le sue attività, i suoi messaggi – e di agire in modo coordinato sulla base di tale visione» [3].
I brand nella cultura popolare
Che l’attribuzione di un significato a un brand sia un atto di co-creazione tra l’organizzazione che lo gestisce e il pubblico diventa evidente quando notiamo come i nomi dei brand vengono usati nei prodotti culturali: non tanto per indicare aziende e prodotti, ma per comunicare idee.
Prendiamo ad esempio la musica pop. Nel brano di grande successo «Bellissima» [4], la cantante italiana Annalisa racconta di una sera in cui ha atteso un uomo che non è mai arrivato. Canta: «Quella volta ti aspettavo in Saint Laurent, ero bellissima». Saint Laurent simboleggia sensualità, in contrasto con la seconda strofa: «Vado a letto col pantaloncino dell’Adidas», dove Adidas rappresenta sportività e comodità.
In letteratura, ad esempio, uno dei casi più famosi è la descrizione di Dean Moriarty nel romanzo del 1951 «Sulla strada» di Jack Kerouac: «Levi’s stinti e attillati e maglietta». Qui il brand Levi’s è quel simbolo di ribellione e libertà che avrebbero scelto icone come James Dean e Marlon Brando.
Nella pittura, Édouard Manet ha dipinto delle bottiglie della birra inglese Bass (riconoscibile dal logo, un triangolo rosso) nel suo ultimo capolavoro «Il bar delle Folies-Bergère» per dare al locale un respiro più internazionale e sofisticato. Per non parlare dell’uso dei brand nella pop art, soprattutto come simboli della società di massa e del consumismo.
I brand come narratori
Nel suo Opinion Piece per questa rubrica Vanni Codeluppi ha parlato del processo di digitalizzazione della nostra società, sottolineando che: «il termine “digitale” indica anche un sistema estremamente efficace per convertire qualsiasi cosa esista nell’universo in un dato numerico», ovvero in informazioni.
Non è un caso, allora, che in un mondo «digitalizzato» le persone esposte a troppe informazioni si sentano smarrite e abbiano bisogno di nuovi modelli di leadership. Secondo il filosofo Byung-Chul Han: «Le informazioni sono additive, non narrative. Si possono contare ma non raccontare. […] Solo le narrazioni generano senso e tenuta» [5].
Il modo in cui i brand contribuiscono alla cultura è immettendo al suo interno delle storie (Roland Barthes fu tra i primi a cogliere questa dinamica nei saggi contenuti in «Miti d’oggi» [6]). Non sono solo entità commerciali: sono narratori che attraverso le loro storie plasmano una parte significativa della nostra cultura e attraverso le loro azioni contribuiscono a cambiare la società.
L’influenza dei brand sulla società
Un antropologo del Tremila che volesse studiare la nostra società parlerebbe certamente dei brand – come mi ha detto Annamaria Testa, copywriter e scrittrice nota per pubblicità storiche come «Liscia, gassata o Ferrarelle» e «Nuovo? No, lavato con Perlana» [7].
Ovviamente l’influenza che i brand hanno sulla società può essere positiva o negativa: possono diffondere e rinforzare modelli sbagliati, così come contribuire a un cambiamento positivo della società grazie alla loro influenza.
L’agenzia che forse meglio di tutte ha compreso questa dinamica è LePub (ex Publicis Italy) che è stata per due anni consecutivi l’agenzia creativa più premiata al mondo, nel 2021 e 2022. Nella sezione del loro sito dedicata al metodo si legge: «Il nostro obiettivo è assicurare ai brand un posto permanente al tavolo della cultura» [8].
Un esempio magistrale è arrivato nel 2020. Con i bar chiusi a causa della pandemia, le vendite di Heineken calarono di quasi il 20% e i profitti di oltre 75%. Mentre molte birre riducevano le spese di comunicazione, LePub, con un grande esercizio di creatività ed empatia, suggerì a Heineken di usare il budget delle affissioni per aiutare i proprietari e i gestori dei locali con un’iniziativa geniale: trasformare le serrande in cartelloni pubblicitari. Oltre cinquemila bar in sei Paesi sono stati trasformati in media, ricevendo direttamente i soldi destinati alle affissioni per un totale di 7,5 milioni di euro.
Conclusione
La figura del Pop Manager che sta emergendo dagli articoli di questi Prolegomeni è un leader focalizzato sulla creazione di comunità aziendali collaborative, che stimola l’innovazione e la creatività e pratica una leadership empatica e coinvolgente.
Il contributo che vorrei portare a questa stimolante discussione è che questi principi vanno applicati anche alla gestione dei brand. I Pop Manager del futuro dovrebbero trattare i propri brand come un autore tratta la propria opera d’arte: riversando al suo interno un significato, ma accettando che quel significato possa essere interpretato liberamente dal pubblico in un atto di co-creazione (ne ho parlato anche nel mio podcast Brandroad [9]).
La posta in gioco è alta, anche solo in termini economici: la cultura che un brand produce, infatti, influisce enormemente sul suo valore economico in termini di capacità di generare preferenza all’acquisto e disponibilità dei consumatori a pagare un sovrapprezzo.
16 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
[1] M. Lusiani, Il brand, raccontato. Cosa sono i brand e che ruolo hanno nelle nostre vite, Fausto Lupetti 2023.
[2] A. Semprini, Marche e mondi possibili. Un approccio semiotico al marketing della marca, Franco Angeli, 2006 [1993], p. 55.
[4] Con questa canzone Annalisa è diventata la prima donna italia aa rimanere più di un anno nella classifica Fimi/Gfk con lo stesso singolo, https://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2023/09/18/news/annalisa_bellissima_platino_un_anno_in_classifica-414965511
[5] B.-C. Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, trad. it. S. Aglan-Buttazzi, Einaudi 2022, p. 9.
[6] Ad esempio nel saggio La nuova Citroën, in Roland Barthes, Miti d’oggi, trad. it. L. Lonzi, Einaudi 1974, pp. 147-9
[7] Annamaria Testa ne ha parlato nel mio podcast Brandroad, puntata «2:2 Il linguaggio dei brand», https://open.spotify.com/episode/5NQaNyAUABLdIro1wYjArv
[8] https://www.le.pub/metodo/
[9] In particolare nella puntata 2:10 Di chi è davvero un brand (con Lorenzo Marini), https://open.spotify.com/episode/43UZEebNM02R3vva3gUd7f