“Nel regno digitale immateriale”, scrive Kevin Kelly, “dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche il libro diventa un librare, evolvendo da cartaceo a digitale, confrontandosi con altri sistemi di comunicazione e apprendimento”. Se il libro diventa un “librare”: questo il titolo/quesito/ipotesi che ci conduce in un viaggio su cosa è stato, cos’è oggi e cosa sarà domani il libro, attraverso Dieci Conversazioni con scrittori, editori, esperti. Come guida per orientarci in questo cammino abbiamo scelto la rilettura di tre testi visionari: uno del passato, Alice nel Paese delle meraviglie, il classico di Lewis Carroll, riprendendo alcune riflessioni sviluppate nell’ambito del progetto Alice Postmoderna; uno del presente, L’inevitabile, scritto dal cofondatore di Wired Kevin Kelly; uno del futuro, il romanzo online in corso di scrittura Ariminum Circus, di Federico D. Fellini, disponibile in versione multimediale anche su Wattpad.
“Rimescolare”: questo è l’ottavo verbo che connota la contemporaneità digitale secondo Kevin Kelly. Il mio preferito. Quello su cui ho sviluppato progetti come Le Aziende InVisibili: il “romanzo a colori” impreziosito dalle illustrazioni di Luigi Serafini e scritto da un centinaio di personalità dell’economia e della cultura “made in Italy” virtualmente costituenti la Living Mutants Society. La sfida che hanno accettato: racchiudere la propria conoscenza umana e professionale in un’opera narrativa collettiva, ispirata alle celebri Città Invisibili di Italo Calvino. Da una parte, infatti, ogni episodio è concepito quale travestimento di una delle Città; dall’altra, i sogni, le emozioni, le visioni dei personaggi danno vita ad una storia liquida, scaturente dalla conversazione fra l’Amministratore Delegato di una Corporation e il suo Direttore del Personale, riscrittura dei dialoghi calviniani fra Marco Polo e l’Imperatore Cinese. In accordo con la riflessione sullo Humanistic Management, la struttura del volume riflette la molteplicità dei piani comunicativi: come in un impossibile “ipertesto barocco”, il soundtrack, il link alle Città Invisibili, gli Esagrammi dal Libro dei Mutamenti Organizzativi, la posizione di ogni Azienda nell’Astrogramma, indicati nelle In-Visible Scorecards, tracciano innumerevoli percorsi di lettura.
Una scrittura mutante, che travalica le distinzioni fra scrittori e manager, fra sociologi e attori, fra filosofi ed economisti, fra musicisti e designer e che ha dato a sua volta vita ad una Web Opera, ibrido fra la Rock Opera musicale e la Soap Opera televisiva, nello spirito dell’Opera Totale di wagneriana memoria.
Questo per dire quanto gli oggetti culturali, tanto più se digitali, si prestano ad essere “miscelati”. Addirittura, per Kelly i più importanti lavori culturali e i media più potenti saranno quelli che saranno stati remixati di più. Viviamo in un’età dell’oro dei nuovi media: negli ultimi decenni sono nati centinaia di generi mediatici, rimescolati a partire da quelli vecchi. Media del passato, come un articolo di giornale, una sitcom tv di trenta minuti o una canzone pop di quattro minuti, persistono e godono tuttora di una popolarità immensa. Ma la tecnologia digitale disgrega queste forme nei loro elementi, così da poterli ricombinare in modi nuovi. Le neonate forme recenti includono un articolo in Rete concepito come una lista (listicle) o una tempesta di tweet da 140 caratteri. Alcune di queste forme ricombinate sono ora così consolidate da fungere da nuovi generi, che verranno essi stessi rimescolati, disgregati e ricombinati in centinaia di altri generi nuovi nei prossimi decenni. Alcuni sono già mainstream, comprendono almeno un milione di creatori e annoverano centinaia di milioni di persone nel loro pubblico.
Parliamo di tutto questo con l’artista Michele Bravi, anche vincitore di una edizione di X Factor, Anna Caterina Dalmasso, ricercatrice all’Università degli Studi di Milano, Paola Dubini, Professore Associato dell’Università Bocconi, Riccardo Gasperina Geroni, vincitore della XXI° Edizione del Premio Carlo Levi, Stefano Izzo, Senior Editor di Salani, Lino Prencipe, Director Business Development & Digital di Sony Music Entertainment.
Gli esempi proposti da Kelly che citavo in apertura possono solo suggerire l’esplosione e la vera e propria smania di forme nuove che emergeranno nei prossimi decenni. Prendiamo uno di questi generi e moltiplichiamolo, poi fondiamo e incrociamo ciò che abbiamo ottenuto. Possiamo vedere i contorni nascenti dei nuovi generi che potrebbero sorgere. Con le dita trasciniamo oggetti fuori dai film e li rimescoliamo nelle nostre foto. Un clic della fotocamera integrata nel nostro telefono cattura un paesaggio, quindi ne mostra la storia attraverso parole, che possiamo utilizzare per annotare quella stessa immagine. I testi, i suoni, i movimenti continueranno a fondersi. Grazie ai nuovi strumenti saremo in grado di realizzare le nostre visioni su richiesta: ci vorranno solo pochi secondi per generare un’immagine credibile di una rosa turchese, scintillante di rugiada e posta in un vaso dorato.
Consentimi una apparente digressione in apertura. Ho scoperto il piacere della lettura tra i banchi di scuola. La scintilla è scattata stringendo tra le mani L’isola di Arturo di Elsa Morante, il primo romanzo a conferire il Premio Strega a una donna, nel ‘57. Il libro, con ancora l’odore di nuovo addosso, aveva una copertina bianchissima con un piccolo disegno in basso. Lo spessore delle pagine appariva ordinato e perfettamente tagliato. Tornato a casa, lo estrassi dalla busta di carta del negozio e iniziai a leggere. A ogni paragrafo che leggevo, il libro si trasformava, prendeva una forma diversa che marcava quanto letto e quanto ancora c’era da leggere. La copertina bianchissima si graffiava, lo spessore delle pagine iniziava a sembrare irregolare e la bordatura esterna si raggrinziva come rughe sulla pelle. Per quanto mi sforzassi di non rovinare quel volume così nuovo, man mano che leggevo mi accorgevo di quanto il libro si espandesse e si contraesse, si dilatasse e si restringesse, esalando sbuffi come un polmone che respira un enorme quantità di ossigeno. Arrivato alla fine, forse a causa del fatto che piegavo sempre la pagina che leggevo passando con l’indice sulla costina interna, il libro sembrava esplodere: pieno, rigonfio e vagamente stanco.
È sempre così che poi, nel tempo, ho pensato ai libri: come a polmoni pieni dell’aria di tutte quelle idee, domande e appunti nati durante il dialogo silenzioso della lettura. L’isola di Arturo non era più solo le parole della scrittrice stampate su carta; a quelle parole (ed ecco la vera ragione per cui il libro sembrava esplodere) si erano aggiunte milioni di parole invisibili, che hanno formato, insieme ad altri libri, la mia esperienza e che hanno trovato nido tra le pagine di Elsa Morante.
Non a caso, Raymond Klibansky disse: “ma i libri -pur necessari- non parlano da soli”.
Ho scoperto invece il fascino della scrittura quando ho capito che quei polmoni di carta, seppure in forma decisamente goffa e primitiva, potevano nascere anche dalla mia penna. I primi avevano la forma di racconti piccoli e pretenziosi: come passatempo selezionavo un libro a caso dalla libreria di mio papà, leggevo solo il primo paragrafo di un grande classico che non conoscevo e da lì creavo un racconto che seguisse l’incipit suggerito. Ho riscritto, quindi, qualche libro di Kundera, Herman Hesse e Steinbeck. Ho riscritto anche Cassola, Pirandello e Marquez. Per fortuna, queste opere di furto adolescenziale sono sempre rimaste chiuse nei cassetti della mia camera o perse in qualche quaderno ad anelli in soffitta ma, al di là della sfrontatezza da cui nascevano, mi hanno dato modo di iniziare a studiare, come un piccolo chirurgo, la geometria della scrittura: l’interazione tra i personaggi, la ritmicità del suono delle parole, la specificità del vocabolario da utilizzare.
Conoscendo questa mia passione/ossessione di trasformare l’esperienza in linguaggio, la mia professoressa del liceo, durante gli anni del ginnasio, mi regalò un saggio che analizzava, sulla base di conversazioni e confronti con grandi nomi della nostra letteratura, la meccanica dello scrivere, Amata Scrittura di Dacia Maraini. Ricordo di essere rimasto estremamente affascinato dalla globalità del libro. Mi colpì l’insistenza con cui si stabilisce che la scrittura non ammette ingenuità e che quindi i libri sono una sintesi perfetta tra metodo e consapevolezza. Rimasi conquistato dalla bellezza e dalla precisione con cui la figura dello scrittore viene metaforicamente paragonata a un cavallo di città per descrivere “la capacità di cogliere con l’immaginazione anche ciò che il paraocchi, la limitatezza voluta e storicamente data dallo sguardo contemporaneo, non lascia veramente vedere”. Leggere cosa significa scrivere per uno scrittore mi diede, in abbondante misura, modo di crescere intellettualmente anche come lettore.
Lo scrittore lavora con le parole e le parole sono strettamente legate al corpo, dal corpo nascono, sono l’espressione cartacea della sensorialità. Si può azzardare il sillogismo per cui lo scrittore lavora con il corpo e, nello specifico, con il corpo di chi legge: gli fa vedere, gli fa ascoltare, gli fa toccare, annusare e assaporare. Il libro non è altro che una fredda stanza asettica e impersonale e solo l’abilità di chi scrive e il carattere proprio del lettore determinano il dinamismo o la staticità della stanza stessa. Quante volte questo libro è piaciuto a te e non a me, quante volte quello scrittore a me legge dentro e a te sembra solo retorica vacua. Scrivere e leggere sono un fatto puramente corporeo e personale e il libro un legame intimo ed esclusivo tra il lettore e lo scrittore. Diventa un fatto intellettuale solo come conseguenza.
Ecco, sono giunto al termine della mia digressione. Ho voluto dare un quadro di me sia come lettore che come scrittore perché credo che, per dare un giudizio quantomeno lucido – e non per forza valido – sul libro, serva avere una giusta consapevolezza di sé in entrambe le prospettive. Quando si parla di libro non si può fare a meno di specificare chiaramente il punto da cui la dissertazione prende piede, perché il libro è scrivere e il libro è leggere.
Giustissimo Michele. Si tratta dunque di capire cosa significa oggi leggere e scrivere (o viceversa), in un contesto in cui il nostro mindset è fortemente influenzato dalle pratiche di lettura-scrittura della Rete. In un post di qualche anno fa intitolato I limerick di Twitter, mettevo in evidenza le analogie fra le poesie nonsense rese celebri da Lear e Carroll con l’umorismo in rete scaricato a suon di tweet: tutto all’insegna del Microstyle: The Art of Writing Little, ben definito già qualche anno fa da Christopher Johnson. Nel suo saggio dedicato alla concisione che caratterizza le forme di comunicazione multimediale contemporanea leggiamo: “Messaggi fulminanti, battute. Spot pubblicitari, slogan politici. E ancora: performance teatrali da cinque minuti, presentazioni in power point, sms, twitter. I nomi dei marchi.
L’arte del “testo” cortissimo ha radici antiche, dagli aforismi alle targhe celebrative, ma oggi sta diventando un fenomeno di massa”, ha commentato Dwight Garner. “Johnson ci offre un breve tour di ispirata concisione, strizzando l’occhio alle frasi di Hemingway, alle poesie di William Carlos Williams, ai disegni di Picasso. Degusta alcune delle citazioni migliori di Oscar Wilde e Dorothy Parker, spiega anche con la passione per gli slogan pubblicitari il successo di Mad Men e dice che su siti come Twitter siamo tutti invitati a sederci alla versione moderna dell’Algonquin Round Table (un celebre gruppo di artisti e critici di New York nato negli anni ’20, n.d.r. ), se ci regge l’arguzia”.
Se penso al termine remix, e mi metto nelle scarpe dell’editore di libri, mi vengono in mente tre significati possibili. Un primo significato ha anche fare con il riutilizzo. E il riutilizzo è pratica antica in editoria: lo stesso testo, confezionato in modo diverso, configura libri diversi, con prezzo di copertina, pubblico e ciclo di vita autonomi. Ancora, lo stesso testo, marginalmente rieditato viene ripubblicato con l’obiettivo di allungare il ciclo di vita. Sia nell’editoria di varia, sia in quella di scolastica, la longevità i alcuni long seller è il risultato di un paziente lavoro di valorizzazione che altro non è che un parziale o quasi integrale riuso. E non è detto che il riutilizzo sia guidato solo da motivazioni mercantilistiche; la filiera editoriale partecipa della costruzione del gusto ed alcuni testi risultano rinnovati da una nuova veste grafica, grazie alla revisione del testo o della traduzione, dall’accostamento con nuovi illustratori: Rodari e Munari prima, Rodari e Altan poi rappresentano coppie fortunatissime, che hanno aperto a suggestioni e ad immaginari più ampi. Il riutilizzo del testo di Rodari combinato con un illustratore diverso stimola immaginari diversi, permette di avere libri che risultano contemporanei a persone di età, gusti diversi.
Inoltre, il riutilizzo del testo in configurazioni di prodotto diverse permette di variare le scelte di posizionamento. Un Pinocchio con copertina rigida, illustrato con tavole a colori di grandi dimensioni ammicca alla nonna ricca, l’edizione tascabile in bianco e nero si presta a funzioni d’uso e a pubblici diversi. Prima del digitale, la strategia di discriminazione basata sul prezzo finalizzata a massimizzare le dimensioni del mercato potenziale era costosa da perseguire. Ora, in presenza di adeguate informazioni sull’elasticità al prezzo e sui gusti di diversi segmenti di pubblico, si potrebbe immaginare senza fatica riutilizzi infiniti dei contenuti, senza snaturare il significato originario di ciascuno degli elementi che compongono il remix.
Un altro significato ha a che fare con il riciclo, un recupero combinatorio di contenuti anche molto diversi fra loro per sfruttare, oltre a quanto detto sopra, le possibilità offerte da supporti diversi rispetto alla carta. Qui la scommessa, ma se ne è ampiamente parlato nelle puntate precedenti, è comprendere il portato innovativo dei nuovi supporti e delle occasioni di lettura ad essi connessi. Ricordiamo tutti i primi esperimenti di enciclopedie digitali, mere trasposizioni di materiali su supporti diversi, che hanno portato semplicemente a realizzare una “brutta copia” del prodotto originario.
Il riciclo non è ovviamente fine a se stesso; ha senso se offre la possibilità di soddisfare nuovi bisogni informativi, formativi, di aggiornamento o di intrattenimento. La smaterializzazione del testo apre da questo punto di vista moltissime possibilità, a partire dall’allungamento dei cicli di vita dei testi. Non mi pare cosa da poco, se si considera il ridotto tempo di permanenza sullo scaffale delle novità; immagazzinare il testo “nudo” e renderlo disponibile in occasione di un rinnovato interesse (corredato da materiali nuovi) permette non solo di trattare i contenuti in modi nuovi (ad esempio organizzando archivi), ma di aggiungere al mix di contenuti utilizzabili sulla carta una varietà di forme espressive che non solo arricchiscono il testo, ma trasformano il prodotto libro (per sua natura “chiuso al tempo t”) in una serie, in una banca dati, in un processo, in una storia. Ho in mente pochi editori di libri, esclusivamente in ambito universitario e professionale, che abbiano saputo riciclare i propri testi in questa prospettiva in modo convincente dal punto di vista della qualità editoriale, della sostenibilità economica e del significativo miglioramento della quantità e della qualità dei bisogni di lettura soddisfatti. Ho in mente alcuni manuali di anatomia ricchissimi di apparati, schede di verifica, infografiche, che nel passaggio all’edizione digitale si sono enormemente arricchiti; e io stessa nel mio piccolo ho fatto alcuni esperimenti di scrittura di casi per i miei studenti in configurazioni diverse, alla ricerca di un miglioramento della ricchezza informativa e dell’ingaggio dei miei studenti.
In questo caso non parlerei di riciclo, ma di vera e propria rigenerazione dei contenuti. E in questa prospettiva mi sembrano molto interessanti gli esperimenti di alcune biblioteche e archivi di valorizzazione delle loro collezioni digitali attraverso il coinvolgimento dei lettori, finalizzata alla produzione di nuova conoscenza. Così una serie di lettere di musicisti al loro editore digitalizzate e rese disponibili sul sito dell’archivio Ricordi, se copiate attraverso un processo crowdsourced e archiviate sotto forma di database potranno rendere più agevole il lavoro di ricerca. E se questa prospettiva di riciclo vi sembra di poco momento perché destinata a nicchie di specialisti, dovrebbe far riflettere il lavoro della NewYork Public Library che ha avviato da alcuni anni diversi esperimenti di valorizzazione di collezioni digitali. Così una raccolta dei menu dei ristoranti di New York ha portato ad un database di oltre 17,500 menu e 1,3 milioni di piatti con relativo prezzo che è stato utilizzato per finalità educative e di ricerca di varia natura su pubblici molto diversi fra loro (dai ricercatori agli alunni delle scuole di New York; o ancora, le informazioni contenute nel “green book” sono valorizzate in digitale attraverso attività di geolocalizzazione e realizzazione di mappe ed infografiche.
Questo recupero combinatorio si dimostra davvero interessante per la molteplicità di obiettivi che si propone: maggiore fruizione delle collezioni digitali, scoperta o riscoperta di contenuti dimenticati, produzione di nuova conoscenza, rinnovato rapporto con il lettore.
E infine, il terzo significato ha a che fare con la costruzione “dal prato” di nuovi prodotti, servizi, generi a partire da contenuti gestiti e prodotti all’interno di filiere diverse. E inevitabilmente riguarda una modalità diversa di relazione con il lettore. Anche in questa accezione il remix era presente anche diversi anni fa (le ricordate le fiabe sonore?), ma indubbiamente la smaterializzazione, la metadatazione, la profilazione degli utenti e la diffusione dei social media hanno determinato una esplosione di generi, formati e combinazioni; tuttavia, a parte alcune operazioni legate alla letteratura di genere, ai fumetti, alle trasposizioni dei videogiochi, mi sembra che l’editoria libraria non giochi un ruolo trainante in queste sperimentazioni. Buzzfeed ha legato la sua iniziale fortuna ai listicles; il New York Times ha annunciato nel 2020 che il suo fatturato digitale ha superato quello sulla carta, grazie ad una serie di investimenti nella creazione di reportage multi e transmediali, alla sua presenza su una varietà di canali fisici e digitali, alla disponibilità di un pool integrato di competenze giornalistiche, tecnologiche e gestionali in grado di lavorare su diversi media. Sono davvero poche le testate a livello internazionale che hanno saputo rimanere coerenti e fedeli alla propria missione reinterpretandola alle luce delle innovazioni connesse all’introduzione delle tecnologie digitali. Personalmente non mi spiego, se non per la presenza di comportamenti iper-conservativi e di incredibili rendite di posizione, il tempo che si è reso necessario perché nel mondo delle riviste accademiche (fra i primi prodotti editoriali smaterializzati e digitalizzati) comparisse una testata come PLoS, che davvero rappresenta una innovazione radicale in termini di modello di business e di modello editoriale.
La questione del rimescolare, del remix, è senz’altro centrale nelle pratiche della medialità contemporanea e futura, ma in un certo senso è anche una categoria riduttiva per descriverle. Altre epoche, e forse in certa misura tutte le epoche, hanno messo in campo delle operazioni di montaggio e rimontaggio non solo di testi ma anche di testi e immagini, così pure di testi, immagini e musica, soprattutto in secoli in cui il plagio e la proprietà intellettuale non erano ancora formalizzati da un punto di vista giuridico.
A mio parere, sarebbe più interessante allargare la riflessione sul rimescolare alla più ampia costellazione di termini che orbitano attorno a questo suffisso “ri-”, accomunati dal movimento della ripetizione e da un costante ritorno del vecchio nel nuovo, che potremmo vedere come una delle cifre della nostra epoca. Non a caso è lo stesso suffisso che ritroviamo nei due termini chiave convocati da Kevin Kelly per comprendere la sua idea di remix: la reperibilità (ovvero la capacità di effettuare ricerche in un archivio audiovisivo AI-assistito con la stessa immediatezza con cui siamo in grado di repertoriare le unità del linguaggio) e la riavvolgibilità (cioè la capacità di scorrere a ritroso, di ritornare su un contenuto per verificarlo, fermarlo, oppure retrocedere nelle fasi della sua manipolazione, come quando digitiamo crtl-Z).
La questione del ri- (che è stata al centro di un progetto di ricerca sviluppato dall’Université du Luxembourg nel 2017) si declina in un ampio spettro di pratiche e di concetti. Ci riporta innanzitutto alla “riproducibilità tecnica” come condizione delle opere e delle immagini contemporanee. Come ci ha insegnato Benjamin, a partire dal celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è la distinzione stessa tra la copia e l’originale a venire meno con l’introduzione dei media fotografici, ancor più nell’evoluzione attuale dell’ecosistema digitale, dal momento che anche l’unicità della copia come supporto scompare, sostituito dall’accesso ad un flusso di dati direttamente fruibile attraverso dispositivi connessi (il libro liquido, di cui si parlava nella Terza Conversazione. Se il libro si fluidifica).
La questione del ri-, o del re-, si collega poi alla possibilità di registrazione del reale e quindi di una ripetibilità, all’origine di ogni citabilità. Nell’ambito dell’arte, l’opera contemporanea può essere ricondotta a pratiche di reframing, ovvero di ricontestualizzazione critica di idee, oggetti, paesaggi e delle stesse opere – dalla celebre Fontana di Duchamp alle opere di Christo e Jeanne-Claude. Anche in questo caso, al centro della creazione non c’è una produzione, ma un’operazione di re-inquadramento dell’esistente. Ma questo processo, anche se spesso privato della sua chiave critica, caratterizza sempre più anche le opere della cultura pop e mainstream, come testimoniano i fenomeni del remake e del reboot in ambito cinematografico, ma anche il successo della ripetitività della forma seriale nell’evoluzione post-digitale del medium televisivo.
Anche la teoria dei media contemporanea non può prescindere da un riferimento al ri- nel concetto di rimediazione – descritto da Jay D. Bolter e Richard A. Grusin nell’ormai classico Remediation: Understanding New Media (1999), l’idea cioè che quelli che alla fine del XX secolo venivano definiti come new media, non fanno in realtà che ri-mediare i media che li hanno preceduti, assolvendo alle loro funzioni e così rilanciandole in un processo dialettico, nella consapevolezza che ogni nuovo medium sarà a sua volta rimediato. I media compiono così un movimento migratorio verso nuovi ambienti e dispositivi, che Francesco Casetti definisce come un processo di rilocazione (La Galassia Lumière, 2015), che viene così a riattivare la loro specifica esperienza mediale in altri contesti e in nuove interfacce complesse.
Se ho capito bene, Anna Caterina, il tuo punto di vista non è lontano da quello espresso dal Maestro di Ariminum Circus che nel Quarto Episodio della Prima Stagione dice: “L’arte non riproduce il visibile: rende visibile ciò che non lo è. Esprime nuovi modi di vedere il mondo, che resta altrimenti inattingibile nella sua essenza – ammesso che questa essenza esista, dietro lo schermo onirico della materia e del World Wide Web. Quando una nuova forma d’arte si diffonde, diviene una delle modalità attraverso cui percepiamo la realtà. Piano piano, le idee, le sensazioni, le immagini ossessive o consolatrici più diffuse incominciano ad appassire per rinascere in nuovi concetti, sentimenti, disturbi della personalità. Poiché ogni espressione artistica è parziale e finisce per manifestarsi, paradossalmente, in un movimento successivo che le si oppone. L’esperienza radiofonica è stata inglobata dalla cinematografia, la cinematografia dalla televisione e quest’ultima da YouTube; la pittura dalla fotografia ed entrambe da Instagram; il Cubismo, l’Astrattismo e le correnti successive del modernismo dalla produzione di segni tramite algoritmi. È così che ogni innovazione amplifica; rende obsoleto; recupera; capovolge qualcosa di preesistente.
C’è di più. L’arte antica è contemporanea. I Simpson sono come la Gioconda. Le Metamorfosi è un manga disegnato con i colori di Rothko. Omero precorre il Venerabile Beda e Stan Lee, Bob Kane dipende da Freud e Sir Galvano. Thanos è l’epigono shakespeariano di Malthus. Miranda è una spogliarellista, Ariel è un hacker e Calibano un rapper. Yorick è un buffone, un viaggiatore sentimentale, un pastore di anime perdute. Marlow è un poeta, un marinaio, un investigatore privato. Il Cappellaio Matto è un supercriminale, uno scienziato pazzo, Xerxes Break. La Vedova Allegra balla il twist e urla. Verdi ama la disco music. Il Discobolo gioca a bowling. La Venere di Milo sfila per Giorgio Armani. La Pietà Rondanini è un’installazione in 3D dentro un labirinto virtuale di Barry X Ball. Tom & Jerry imparano da Courbet e Biancaneve copia da Caravaggio. L’Orlando Furioso s’è perso nei meandri di Lost. Margaret Atwood ha scritto La lettera scarlatta, Nathaniel Hawthorne ha sceneggiato la serie tv tratta da Il racconto dell’ancella. Charles Dickens lavora ai testi dei Jethro Tull e Samuel Taylor Coleridge collabora con gli Iron Maiden. La follia di Erasmo è rock. Paganini è heavy metal. Walt Whitman canta una suite transumanista accompagnato dai Weather Report. Lo scontento invernale di Riccardo III finisce nella Germania nazista. Macbeth, poliziotto della Swat, è sul Trono di Spade. Nagarjuna legge Popper in un talk show con Emily Dickinson. Lorenzo Lotto dialoga con Leopardi. La boutique del mistero è una Cosmicomica in onda su Amazon Prime Video. Proust ha inventato i materassi memory foam. L’origine du monde di Courbet ha un milione di condivisioni su Pornhub.
Gli uni completano gli altri, in un’eterna brillante ghirlanda; esistono, anzi, soltanto nella loro interconnessione. Producono caleidoscopiche figure mobili di spiagge percorse da bagnini alle prese con ombrelloni variopinti e multiformi pedalò, che si trasformano in quelle dei soldati-carte da gioco nel parco della Regina di Cuori sorpresi a dipingere di rosso rose bianche – o dei giardinieri del Paradiso Terrestre intenti a creare, evocandoli con il puro suono della voce, rami di mandorlo e pesco, boccioli di iris e girasoli, campi di grano e alberi di gelso, in un tripudio di verdi, gialli e viola.
Queste immagini sono la nostra realtà. I fenomeni cui assistiamo sono determinati dalle interpretazioni, fra le infinite possibili, scelte dai grandi artisti per dis-velare la realtà. Siamo sotto un incantesimo: la nostra percezione è un perpetuo déjà-voodoo.
Diceva Lawson: nessuno sa cosa c’è e cosa non c’è in natura! La gente vede il mondo con gli occhi dell’artista: ha visto nere le ombre, finché Monet non ci ha scorto i colori. Se l’artista deciderà di contornare gli oggetti con una linea nera, la gente vedrà la linea nera – e ci sarà una linea nera; se l’artista dipingerà l’erba rossa e le vacche blu, la gente le vedrà rossa e blu – e saranno rossa e blu”.
Non solo. Questi processi, dominati dal movimento della ripetizione, implicano anche altro: l’impossibilità di un ritorno indietro, in quanto consentono solamente un rewind, una riavvolgibilità per l’appunto. Possiamo leggere in questi procedimenti (o parallelamente in campo artistico nei procedimenti di pixellizzazione o di data moshing utilizzati da artisti come Thomas Hirschhorn o Jacques Perconte), il prolungarsi della parabola di “decadimento dell’aura” o meglio la sua trasformazione. I meccanismi di condivisione, manipolazione e rimescolamento implicano infatti una comunicazione a bassa definizione, tanto compressa quanto veloce nella sua circolazione. Certo, si potrebbe obiettare che la categoria di alta e bassa definizione si applica ai contenuti audiovisivi e non coinvolge come tale il testo. Anzi, la scrittura alfabetica in particolare deve il suo successo al fatto di essere uno strumento tecnico a bassa definizione. Eppure, nella sua evoluzione da libro a librare, una forma di scrittura digitale non può non comprendere nel suo processo anche l’ibridazione con l’immagine visiva e con l’immagine sonora.
Quanto più muta il suo formato, è compressa, riformattata, alterata, tanto più l’informazione circola rapidamente e tanto più si deteriora. Come mostra l’opera di un artista che ha caricato e scaricato il proprio video su Youtube un numero di volte tale da renderlo completamente irriconoscibile, dal momento che la qualità dell’audio e della colonna visiva sono andati degradandosi progressivamente, nei passaggi di compressione operati dalla piattaforma di condivisione.
Non si tratta qui di rimpiangere lo statuto dell’aura dell’opera. Al contrario la “povertà” dell’immagine (come la definisce Hito Steyerl in un articolo intitolato In defense of the poor image, 2009), ma più in generale dell’informazione, è anche ciò che le consente di passare inosservata, di passare al di sotto dei radar della sorveglianza, per prorompere e fare il suo ingresso nel reale, come nel celebre video Tiktok di Feroza Aziz, in cui la denuncia della repressione della minoranza uiguri in Cina coesiste e si mescola con l’estetica di un tutorial di make up. Per questo, la questione della definizione o della risoluzione pone un problema politico oltre che mediologico e social, in quanto ha a che fare con la problematica dell’accesso, con la sua democratizzazione e con forme di resistenza ai meccanismi di controllo della Rete.
Anna Caterina tocca un tema che mi sta particolarmente a cuore: quello della democratizzazione consentita dalle nuove tecnologie. Faccio una premessa: il mio percorso professionale parte agli inizi del 2000 dal mondo delle start up (all’epoca non ancora cosi’ rilevanti nell’economia italiana e mondiale) e preso parte all’avventura della start-up Dada –una delle prime in Italia – che ha lavorato sul campo dei contenuti digitali. Con l’acquisizione da parte di RCS, Dada sarebbe dovuta diventare il “service provider” della rivoluzione tecnologica e di business digitale all’interno di RCS. Purtroppo, questa visione del futuro era troppo all’avanguardia, e il progetto, pur non fallendo, si è rivelato un’accelerazione nel mondo editoriale e in quello giornalistico, che non è stato in grado di accoglierlo e viverlo fino in fondo (2005).
In questo contesto, vengo chiamato da Sony Music – industria discografica che produceva “oggetti di plastica”, i CD – per lavorare sul digital, settore che rappresentava, nel 2008, solo il 5% dei ricavi dell’industry in Italia. Ci ho creduto, il futuro andava in quella direzione! Nell’accettare la sfida, ho cavalcato insieme a SONY l’onda dell’innovazione, mantenendo salda la convinzione che, in un mondo che evolve continuamente e in cui la disintermediazione – grazie alle nuove possibilità tecnologiche (vedi Internet) – troneggia, la professionalità di certe figure resta al centro ed è fondamentale per supportare la creatività degli artisti e la distribuzione di un contenuto virtuoso. Artisti che sono sempre più a 360 gradi: non solo esecutori / cantanti / interpreti di canzoni, ma professionisti che si esprimono con musica, video, scrittura, grafica. Il contenuto, dunque, non è più una mera canzone da incidere su un CD, ma un remix di forme, generi ed emozioni, che necessitano di modelli di distribuzione e fruizione a medio termine innovativi.
Se l’industria musicale è stata pioniera nella rivoluzione tecnologica di questi ultimi anni, anche le altre industry del mondo entertainment, anche l’editoria dovrà evolvere il proprio know-how e mentalità per poter cavalcare l’onda innovativa che li investirà. I migliori dovranno essere in grado di cavalcarla con contenuti di qualità, perché sarebbe infruttuoso provare ad opporsi.
E vengo al punto. La fruizione dei contenuti diventa democratica, ribaltando il classico approccio top-down: non più audio/libri pubblicati, pubblicizzati e acquistati dal consumatore, ma cataloghi illimitati di contenuti che possono essere scaricati e condivisi,
portando all’ampliamento del ciclo di vita del contenuto stesso. In questo nuovo mondo da esplorare, con opportunità di scelta illimitata, è necessario un marketing moderno e innovativo, che attiri l’attenzione del consumatore e amplifichi la fruizione dei contenuti sulle piattaforme.
Penso che, giunti a questo punto della discussione, sia opportuno porre una domanda: esiste ancora l’originalità? E quando una storia è originale? Nell’intricatissimo mondo culturale odierno, storie come Gomorra di Roberto Saviano o l’Amica geniale di Elena Ferrante sono originali? Non credo di avere una risposta certa. Sono però sicuro che inedito è il modo in cui queste storie sono state trasportate in un universo transmediale che come una cassa di risonanza le ha fatte esplodere in una miriade di storie e sotto-storie. Il Brand Gomorra ne è l’esempio più calzante: dal libro sono nati film, spettacoli teatrali, serie tv, videogiochi, e quant’altro.
Ma quando si parla di originalità mi viene sempre in mente un passo di un’opera del filosofo tedesco Walter Benjamin, ricordato prima anche da Anna Caterina, che che recita pressappoco così: «La noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza». Nella sua brillantezza aforistica, marchio di fabbrica di questo geniale pensatore, la frase ci spinge a riflettere sulla interrelazione che la lentezza del tempo, nella fattispecie la noia, ha con la capacità di trasmettere esperienze. Il narratore originario e autentico – prosegue la riflessione del filosofo– è colui che raccoglie in sé una esperienza che discende da una lunga tradizione secolare, e la trasmette come le mani di un vasaio sanno imprimere la propria impronta su una coppa d’argilla. Ma l’esperienza per essere realmente trasmissibile deve essere profonda, vissuta nella lentezza del tempo, gustata nella sua dissetante saggezza originaria. Il problema dell’originario, che va di pari passo con quello dell’autentico e dell’originale, è una vera fissazione che attraversa in un modo o nell’altro il Novecento artistico. Si pensi all’avanguardia storica e al suo bisogno di fare piazza pulita con l’immonda sporcizia del passato per rifondare il presente, o tutt’al contrario alla necessità del ritorno all’ordine del rondismo, come se nella tradizione si celasse la virtù dell’autentico; per non parlare dell’influenza che discipline come l’antropologia o la psicoanalisi hanno apportato all’immaginario culturale del Novecento: un ruolo centrale hanno avuto l’inconscio e l’idea che esistesse un nòcciolo a cui arrivare, un trauma originario (ad esempio, la Ur-szene di Freud) che dissipasse e disperdesse nell’infanzia della vita le nebbie della nevrosi.
C’è nella nostra letteratura perfino un personaggio che si è fatto portavoce di questa questione, o meglio il suo esecutore fallimentare. Si tratta di una vecchissima entità che esisteva prima del tempo dei dinosauri e che nasce dalla penna dello “scoiattolo” Italo Calvino. Il personaggio dal nome palindromo, Qfwfq, nel racconto Un segno nello spazio (contenuto nelle Cosmicomiche), decide di lasciare un segno, il primo segno nello spazio, per misurare il tempo di una rivoluzione completa della Galassia sulla quale stava viaggiando. Questo gesto per noi evidentemente banale come fare una ics con una matita su un tavolo bianco impone un ordine crescente di problemi.
Scrive Calvino: «La situazione era questa: il segno serviva a segnare un punto, ma nello stesso tempo segnava che lì c’era un segno, cosa ancora più importante perché di punti ce n’erano tanti mentre di segni c’era solo quello, e nello stesso tempo il segno era il mio segno, il segno di me, perché era l’unico segno che io avessi mai fatto e io ero l’unico che avesse mai fatto segni. Era come un nome, il nome di quel punto, e anche il mio nome che io avevo segnato su quel punto». Il primo problema è il più semplice: che segno lasciare in uno spazio vuoto in cui non esiste alcun segno e alcun pensiero?
Il secondo ordine di problemi deriva dal segno stesso che indica se stesso distinguendosi da tutto ciò che non è segno ed acquisendo così una propria singolarità. Il terzo problema è quello più complesso che chiama in causa l’autore stesso di quel segno, che corrisponde a una cifra individuale nella quale, proprio come desidera il nostro protagonista, il responsabile si riconosce e si lascia riconoscere. Il gioco viene però complicato dall’introduzione di un secondo personaggio, abbastanza dispettoso a dire il vero. Di nuovo un palindromo!
L’antagonista, Kgwgk, che cancella il segno originario e ne fa uno nuovo più tozzo… si tratta di certo di una contraffazione! E allora insorgono nel protagonista la competizione, il desiderio di fare un segno più bello, più duraturo. Ma ben presto la verità e il tormento: non solo i gusti e le idee cambiano rapidamente di era in era, ma il segno di Qfwfq non era più l’unico, l’intero universo iniziava a essere costellato di tanti segni, di tante individualità che avevano così di fatto allontanato nella notte del tempo quell’impronta originaria. Ne era nata una moltitudine di forme, uno scarabocchio in lungo e in largo che annullava tutti gli sforzi dell’incredulo protagonista: «qualsiasi segno accavallato agli altri poteva essere il mio, ma lo scoprirlo non sarebbe servito a niente».
Ecco, noi siamo i figli di Qfwfq, figli di una cultura relativista postmoderna, oggi alla ricerca di nuove certezze, nuovi punti fermi che ci indichino una strada, e la letteratura italiana per ora mi sembra abbastanza sprovvista della capacità di generare valori condivisi. Forse queste nuove certezze le ritroveremo in un’arte molto più complessa di un libro di un singolo autore…
Ho sempre un certo timore nel formulare previsioni sul medio-lungo periodo, non perché sia morbosamente attaccato – come capita spesso a chi fa il mestiere dell’editor – a ciò che il libro è stato fino a oggi, o perché io tema chissà quale degenerazione, ma perché mi pare che stiamo vivendo un’accelerazione talmente rapida da non poter lucidamente intuire cosa ci attende dietro la prossima curva. Magari mirabilie, magari niente di così nuovo.
Credo anche che in una buona misura appartenga a ogni epoca la percezione di essere a un passo dal grande salto verso qualcosa di grandioso e rivoluzionario. È uno slancio vitale che è sano coltivare, ma facendo attenzione a non considerare il passato come una melma o un peso di cui liberarsi alla prima occasione. Dico questo pensando in particolare al romanzo – la forma che conosco meglio –, che molti pensano come qualcosa di immobile, che si riproduce infinitamente uguale a se stesso. Mi pare vero l’esatto contrario, invece: il romanzo è per natura un organismo onnivoro che si adatta all’ambiente e lo sfrutta come meglio può. Da Cervantes ai giorni nostri, sono secoli che il romanzo assorbe elementi da altri linguaggi, nutrendosene con avidità e assimilandoli con tale efficacia che ci sembra gli siano appartenuti da sempre. Tutto è stato nutrimento, per la letteratura: il teatro, la poesia, il cinema, la musica, il fumetto, la pubblicità. E in tempi recentissimi, i social e la comunicazione digitale. Sta continuando a farlo anche in questo preciso istante, invisibile al nostro sguardo, seguendo il flusso della società, e tra 20 o 30 anni avrà inglobato senza difficoltà ciò che oggi ci sembra “il futuro”, mescolandolo a elementi classici che non passeranno di moda. Avverrà fuori dal nostro controllo, e personalmente lo trovo abbastanza rassicurante.
Il “mescolamento”, come lo ha chiamato Stefano, ovvero il remix è al centro del progetto Ariminum Circus. La cosa è evidentissima anche dal punto di vista formale scorrendo la versione in progress su Wattpad. Ma possiamo vedere anche qualche esempio a livello di contenuti.
Il test iniziale di ammissione (cfr: TEST D’AMMISSIONE versione per Typee, o TEST D’AMMISSIONE versione multimediale per Wattpad). L’ottava frase del test su cui esprimere accordo o disaccordo è la seguente. “Il Lettore Ideale ama lo Scrittore che non si vanterebbe mai di essere originale. Che mescola spunti, effettua slittamenti, propone commistioni. Sa che il mondo è uguale da diecimila anni. Le differenze fra Edipo, Amleto, Philip Marlowe, Rick Deckard e Dylan Dog sono minime: risiedono nell’adesione ai tempi in cui sono vissuti i loro Autori, nella declinazione in forme narrative diverse, nelle ambientazioni, nel livello di complessità di una medesima idea (in senso platonico) o entelechia (se ci si volge al neoaristotelismo): di uno stesso archetipo, insomma. Al tempo stesso, il Lettore cerca nel libro l’impronta originale, distintiva, data a quell’archetipo dallo Scrittore. Perciò se il suo imperativo è: ‘remix. E basta’, in ogni remix cerca qualcosa di unico, di mai detto prima. In altre parole, per lui il vero Scrittore è un visionario come il bravo Barman, che sa inventare con elementi sempre uguali cocktail inimitabili. Magari aggiungendoci un particolarissimo ingrediente segreto”.
La musica è remixata. Qualche citazione per rendere l’idea. Nell’Episodio 9 di S1, Il Piccolo Ed, il Giacometti Roadrunner emette “una combinazione di cigolii, suoni metallici, rumori di motori sgasanti da cui sgorgarono le parole di Drive my car campionate e remixate in stile future bass”. Successivamente, nell’Episodio 12, I Nottambuli (anche questo disponibile su Wattpad) si legge a proposito di Psycobot, lo psicanalista digitale del Capitano: “La didascalia sotto il disegno in 3D di un ammiccante automa ispirato al manga Alita, che lo aveva convinto a sottoscrivere un abbonamento annuale, era subdola: ‘Può darsi che tu non sappia cosa dico, ma prova a scegliere un robot per amico!’. La colonna sonora del banner era una nota canzone di Lucio Battisti, in un nuovo arrangiamento dei Daft Punk”.
Gli oggetti sono remixati: come il cavatappi Dark Lady usato dal Pescivendolo in Earnest, il Pescivendolo (non È un Pescivendolo) – qui nella versione per Wattpad – o Donald Suck, il portafortuna di Tim descritto Il Custode dell’Asilo Kandiskij, Tim “Nanny” O’Nan (qui nella versione per Wattpad).
Il dialetto usato in particolare da Tim, dal JubJub e dal Pescivendolo (ma che scandisce la descrizione di Ariminum anche ne Il Roc, Episodio – sempre in versione multimediale su Wattpad) è un remix che amalgama il romagnolo a molte altre lingue.
Non sorprende quindi che nella Seconda Stagione l’universo finzionale di Ariminum Circus come crossover sia al centro di una lunga conversazione fra lo Scrittore e la Sua Ombra. Ne riporto un’estratto.
“«Non mi convincono neanche questi continui riferimenti ad altre opere letterarie degli autori più disparati: alla lunga questa scelta penalizza l’originalità del tuo lavoro… Un approccio turistico, da viaggiatori di un mondo che non ha un suo stile e li usa tutti, per dirla con quel barboso pedante di Polonio, che però ogni tanto ci prende».
«Mettiamola in questo modo. Creare un’opera significa introdurre novità, ma la novità è possibile solo in condizioni che implicano il ri-uso di materiali già condivisi all’interno della comunità dei suoi fruitori. Non a caso si stima che la percentuale mondiale di film tratta da libri, videogiochi e fumetti è del trentacinque per cento. In costante crescita».
«Scenari tutti da verificare».
«Atteniamoci allora ai fatti. I maggiori successi di vendita li ottengono i crossover, che nascono dall’incrocio narrativo fra universi finzionali».
«Ovvero?».
«Si tratta, in prima battuta, di prendere due protagonisti di narrazioni diverse e farli partecipare alla stessa avventura. Il cinema lo fa nella forma di scontri epici: Zorro (o Totò) contro Maciste, King Kong contro Godzilla, Mega Shark contro Giant Octopus, Freddy contro Jason, Alien contro Predator, Dracula contro l’Uomo Lupo».
«Banali giochetti infantili».
«Non è Milan Kundera a sostenere che l’unico modo per prendere seriamente un romanzo è trattarlo come se fosse un gioco? In ogni caso, questo è l’inizio. Prendi la saga di Star Wars: Lucas la compone con elementi ispirati a Tolkien e un ventaglio di riferimenti che passano dal ciclo di Re Artù alle avventure di Flash Gordon, dalle comiche di Stanlio e Ollio ai film di samurai. Nel mio caso, il crossover mette insieme Il Grande Gatsby con Finzioni, Shine on You Crazy Diamond con Amarcord…».
«Non basta certo inserire nel romanzo gli oggetti più diversi per farne un’opera compiuta!».
«Vero, ma il romanzo non è, fin dall’origine, una forma di intrattenimento basata sulla ripetizione-variazione di elementi topici con una funzione didattico-pedagogica? Vedi il caso del Roman de la Rose, vera e propria summa delle conoscenze dell’epoca. O dell’Odissea»”.
Questo dialogo sintetizza esattamente quello che ho provato a dire prima.
Il romanzo è per sua natura un genere crossover, reinventa costantemente se stesso, combinando elementi noti, elementi nuovi e quel pizzico di magia soggettiva che il vero scrittore possiede dentro di sé. Mi pare che lo stesso succeda in tutte le arti e anche nell’artigianato: abbiamo tutti a disposizione gli stessi strumenti, la differenza sta nella mano che li impugna, e nella testa che dialoga con quella mano.
La questione posta da questo dialoghetto di Ariminum Circus ha a che fare con l’originalità dei contenuti remixati, come sottolineava già Riccardo, e forse con la loro autenticità. Riguardo al primo punto, è senz’altro possibile immaginare remix che ci colpiscono per innovatività, anche se riconosciamo gli elementi che li hanno originati; dopotutto siamo nani sulle spalle dei giganti. Nella varietà di stimoli, forme espressive, strumenti a disposizione per dar vita a nuovi oggetti e contenuti, nella continua ricerca di contribuire allo sviluppo di nuove teorie, l’autore comunque procede per selezione, “mette del suo”. Anche quando una miriade di canzoni di successo è costruita attorno agli stessi quattro accordi, è possibile che una sola ci colpisca, meriti di essere portata ne cuore, perché è la canzone del primo bacio. Ciò che è importante, credo, è che la progressione delle scelte espressive di ciascuno sia riconoscibile, come autentico contributo appunto di ciascun autore.
Questa considerazione apre il tema che riguarda ”chi remixa” e in che relazione è con il lettore. Fino ad oggi la massima parte dei contenuti che leggiamo sono stati scritti da esseri umani, anche se l’attività di remix e di curatela può essere stata svolta da un algoritmo. Ma sappiamo che la capacità della tecnologia di generare testi creati da algoritmi è progredita in modo significativo; il linguaggio GPT-3 è adeguatamente sofisticato per inondare internet di testi autogenerati in breve tempo, in grado di adattarsi alla migliore risposta sui social media e stimolare le reazioni degli utenti. Se internet fosse inondato di contenuti falsi riproposti ossessivamente da autori generati dall’intelligenza artificiale, dobbiamo completamente abbandonare la possibilità che internet diventi uno spazio pubblico digitale degno di essere abitato.
Un contenuto remixato ad libitum da un algoritmo può essere originale, perché ciascuna combinazione è diversa da tutte le altre, ma non può essere autentico e quindi imporsi come vero; ma evidentemente crea assuefazione, rumore e può essere eticamente discutibile, nonché destabilizzante per il funzionamento dei mercati.
Paola chiama in causa “chi remixa” e quindi anche chi lo produce, come Sony. Credo sia opportuno sottolineare che i contenuti prodotti da ogni artista convergeranno in un remix di mondi apparentemente diversi, mentre il concetto di possesso di un prodotto/bene evolverà in quello di accesso e condivisione (come è stato approfondito nella Quinta Conversazione) di un contenuto remixato. La dicotomia cliente/fornitore sarà superata, lasciando spazio a discussioni e partnership con le varie piattaforme.
Questa evoluzione non riguarda solamente le piattaforme di fruzione di contenuti, ma sfocia anche nel rapporto di collaborazione tra industrie e artisti, i cui contratti sono sostituiti da joint venture volte a cooperazioni.
E in quest’ottica di nuove collaborazioni, forme artistiche e piattaforme, anche il libro sarà remixato e integrato con nuovi contenuti, come ad esempio con i podcast. Abbiamo l’obiettivo di investire in Italia per la promozione di podcast e la creazione di un nuovo mercato – già ampiamente diffuso all’estero, come nei paesi anglosassaoni. I podcast rappresenteranno contenuti multimediali che prevedono un remix di generi che superano la classificazione di un semplice audio.
L’esperienza dell’artista/creator/autore sublima nel podcast con il remix delle emozioni e la qualità del contenuto, immergendo il consumatore in un’esperienza a tutto tondo alimentata da storie, musica e immagini.
Riporto infine un concetto della filosofia hegeliana che mi ha sempre appassionato e che, a mio avviso, ben sintetizza il remix di generi a cui stiamo per approdare: tesi, come momento astratto o momento intellettuale; antitesi, come fase dialettica o momento razionale negativo; sintesi, il momento speculativo o razionale positivo, che unifica ed eleva le opposizioni precedenti. Il remix di cui abbiamo parlato è il frutto di una tesi iniziale, quella della produzione audiomusicale, a cui si contrappongono in antitesi il video, il libro e altri contenuti, per convergere ad un contenuto finale remixato che porta il prodotto artistico ad un livello superiore.
Nulla si crea nulla si distrugge, tutto si trasforma. Federico D. Fellini si affianca a Kevin Kelly nell’enunciare la “teoria della conservazione” della materia digitale. Ma potremmo dire anche tutto si crea, nulla si distrugge, nella misura in cui la nuova forma di creatività risiede precisamente nel mash up o nel crossover. Tutto è già stato detto. Tutto è combinazione e riorganizzazione dell’esistente. Ogni frase enunciata alberga in realtà una citazione senza virgolette. Del resto, se, come dicevamo, non c’è più originale né copia, ogni rivendicazione di originalità risulta svuotata di senso, o per lo meno anacronistica.
Ecco che, per pensare le pratiche di fruizione-creazione della rete, tornano ad essere estremamente attuali alcuni dei procedimenti dell’estetica situazionista: da un lato il détournement, dall’altro la deriva. Il détournement – lo evocava già Nello Barile nella Sesta Conversazione. Se il libro è condiviso – si definisce come reimpiego di elementi prefabbricati e preesistenti, ma è il contrario della citazione, in quanto l’immagine o la parola è strappata al suo contesto e il suo senso è deviato o ribaltato. Cosa sono l’hacking o l’hijacking, ma anche il meme, se non forme diffuse di détournement?
Ma, nel mettere a tema il processo del remix nelle forme di scrittura digitali, non dobbiamo avere in mente unicamente la manipolazione: il “rimescolare” implica infatti anche l’incontro con l’inatteso, l’accoglimento del caso e dell’imprevisto, altro caposaldo situazionista, messo in pratica nella deriva come vagare programmaticamente spaesante, finalizzato a far emergere incontri (Guy Debord, Teoria della deriva, 1956). In questo senso, nella fruizione del web parliamo di surfing o di flânerie virtuale, ma la verità è che ci mancano ancora le parole per descrivere molti dei fenomeni mediali e in particolare i percorsi che tracciamo nella materia digitale. In un gustosissimo dizionario di neologismi in chiave gaddiana, Gianluca Galante introduce ad esempio il termine “youtubatura” per definire la “sequenza di collegamenti ipertestuali a contenuto audiovisivo seguiti in modo apparentemente casuale da un utente nell’arco di una sessione di navigazione web” (Il Calidrino, 2016).
Questo mi pare legarsi ad un altro aspetto decisivo, evocato da Marco Minghetti, ovvero la concisione che caratterizza le forme della comunicazione multimediale contemporanea. La scrittura remixata è una scrittura icastica, frammentata, estemporanea. La nuova forma espressiva sincretica, che consiste nel remixare contenuti attingendo ad un repertorio pressoché infinito, dà luogo a un tempo a una scrittura aperta e stratificata – l’ipertesto –, ma questa stratificazione si esprime attraverso delle forme condensate. Resta tuttavia da capire se la brevità, la frammentazione o granularità siano una caratteristica essenziale dei contenuti digitali o solamente il sintomo di un ecosistema mediale ancora “giovane” e che non ha ancora raggiunto una maturità espressiva, come suggeriva Gino Roncaglia nella Sesta Conversazione. Se il libro è condiviso (L’età della frammentazione, Laterza 2020).
A questo riguardo, ritengo che si possa parlare di qualcosa di più di una semplice fase di transizione. Raccolgo qui una suggestione dall’ultimo libro di Pietro Montani (Emozioni dell’intelligenza, Meltemi, 2020), che descrive le pratiche del riuso, della manipolazione e del rimescolamento come una “scrittura estesa”, ma che si esprime attraverso “forme brevi”. Il carattere della brevità non rimanda a una superficialità, secondo cui spesso molti tendono frettolosamente a classificarla, al contrario si tratta di forme compositive che richiedono al lettore una precisa prestazione estetica, non per questo meno complessa – basti pensare alla forma dell’aforisma o agli haiku della tradizione giapponese.
Quello che Montani sottolinea, riprendendo lo studio dello psicologo russo Vygotskij (Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, 1972) è che la forma breve richiede non solo uno specifico processo di elaborazione da parte del suo fruitore, ma si collega ad un particolare registro emotivo. In maniera simile all’elaborazione propria del lavoro del lutto descritta da Freud, la forma breve implica un’emozione ritardata. Si colloca cioè in una temporalità differita, quella di un après coup in cui diviene possibile una riappropriazione autoironica. Possiamo allora dire, ad esempio, che nell’interpretazione dello specifico rimescolamento di parole e di immagini che si trovano a coesistere in un meme, avviene una sorta di catarsi abbreviata.
Dobbiamo quindi concludere che la forma breve prevarrà sulla complessità contemplativa e temporalmente estesa del libro, destinato a condensarsi oppure a estinguersi? Se il libro è morto, lunga vita al libro. Però, nell’evolversi, o potremmo dire nel rimediarsi, nella sua riconfigurazione digitale, senza tuttavia snaturarsi e abbandonare del tutto il suo formato, il libro mi sembra assumere la tonalità emotiva descritta da Montani relativamente alle forme brevi, proprio nel mettere in campo delle strategie espressive – come il crossover, il mash-up, o il cammeo e la citazione – che si basano su un meccanismo di retroazione per dare vita a dei cortocircuiti di senso.
In un tempo smagliato dalle molteplici realtà abitate (quella fattuale e quella virtuale), anche il processo produttivo e creativo di un maestro della parola diventa mutevole.
Recentemente mi è capitato di imbattermi in una riflessione di Federico Fellini a proposito del fenomeno televisivo e del suo rapporto dicotomico con il cinema. Se il cinema è suggestione ipnotica e ritualistica, dice il regista, la televisione è un apparecchio capace solo ad allevare una marea impaziente di spettatori indifferenti e distratti. Nella sua visione, il telecomando altro non è che un plotone di esecuzione portatile che taglia la faccia e toglie la parola alla velocità di un click e la capacità di uno spettatore di poter scorrere da un film ad un quiz, da un quiz ad una partita di calcio, da una partita di calcio ad una pubblicità dei pannolini non è l’impresa di chissà quale cervellone, piuttosto la prova dell’incapacità a prestare attenzione, a lasciarsi sedurre, incantare da una storia. Ed è così che un film perde la possibilità di essere rispettato: quando, ad esempio, il suo ritmo narrativo non batte agganci sensazionalistici alla velocità del ticchettio dell’orologio. Per quanto mi riguarda, vedo una forte analogia tra la dicotomia cinema-tv, e quella libro-web. Cambiando i fattori in gioco, il fascino energico del piccolo schermo è assimilabile al vasto panorama dell’online e la visionaria pellicola di celluloide sembra avere lo stesso sapore delle pagine di un libro.
Credo sia giusto porre qui la riflessione sul Rimescolare che Kevin Kelly individua come connotazione della contemporaneità digitale. Credo sia sbagliato intendere questo verbo come una dichiarazione di sconfitta, una resa definitiva alla mancanza di originalità o come una chiara ammissione di assenza di espressione individuale. Si rimescola quando non si hanno idee proprie da sviluppare o fondamenta abbastanza solide per reggere un immaginario nuovo.
Se si accettasse questo giudizio così dogmatico, non si lascerebbe spazio a capolavori come la tragedia greca e le mille interpretazioni del mito antico, al mondo distopico di Orwell costruito sulla più primitiva struttura di quello di Zamjatin, a uno dei miei capolavori contemporanei preferiti Le Ore, che è valsa a Michael Cunningham il premio Pulitzer, costruito sulla struttura di Mrs. Dalloway di Virginia Woolf. Perfino la reinterpretazione del repertorio favolistico italiano di Calvino e le opere di Capote e Keyes, che con un occhio voyeuristico hanno trasformato fatti di cronaca nera in momenti di altissima letteratura, sarebbero da non considerare. E così all’infinito.
La letteratura non è che un esercizio all’empatia, al vestire panni (sia come lettore che come scrittore) inusuali alla propria vita, al cercare di comprendere e non per forza condividere fatti, decisioni e sistemi valoriali distanti dal proprio. La Vita è mistero e ricerca e vestire vite che non sono le nostre costituisce una certezza inossidabile per vivere e scegliere il nostro percorso individuale. Va da sé che ri-mescolare, ri-elaborare, ri-prendere una mitologia del nostro passato e della nostra storia è un fatto necessario per aggiungere una diversa angolazione che descrive la scena, che smentisce ciò che ritenevamo vero, che dubita di ciò che era certo, che ribalta ciò che ritenevamo monolitico e stabile.
Penso ancora a Calvino e come, ad esempio, nelle Cosmicomiche abbia fatto parlare Amleto (reinterpretazione anch’esso della leggenda nordica da parte di Shakespeare) trasformando l’essere o non essere in esplodere o implodere.
La contaminazione nella letteratura è un fatto inevitabile, anzi intrinseco. Se è vero che la letteratura lavora sul corpo, sulla vita vera di chi legge, allora è inevitabile che il libro sia la somma, anche involontaria, di mille libri precedenti. Nella stessa maniera, la persona dello scrittore è una citazione casuale di mille altre persone e il lettore che sta leggendo il suo lavoro è a sua volta il risultato dell’entropia cosmica che lo ha portato ad essere ciò che è e non un altro, costruendo la sua personalità sulla base delle personalità a lui vicine. In questo senso, se la letteratura è un esercizio all’empatia, la vita è un invito ad essa.
Attualmente, il mondo dei media non è che un recupero di ciò che è passato e questo avviene in tutti i campi dell’artisticità: dal remake cinematografico al remix musicale, fino al crossover letterario citato da Marco. Addirittura, si sostiene che statisticamente l’utente tenda a preferire ciò che non è originale. Credo fortemente che la contaminazione non sia imputabile alla realtà virtuale che pur sta condizionando il modo in cui viviamo – e immagazziniamo – la vita vera. Piuttosto, credo dipenda da un fatto specifico della creatività.
A mio parere, recuperare il passato è lecito e anzi necessario nella misura in cui l’angolazione nuova da cui si parla abbia la forza di aprire un varco, un sentiero, una finestra su un mondo ancora ignoto, senza rimanere immobile a ciò che qualcuno aveva già detto, magari meglio. Agli accademici che sostengono a denti stretti che la scrittura debba essere priva di componente di intrattenimento e piuttosto considerata sacralità allo stato puro, obbietto che tutto ciò che è sacro è intoccabile e tutto ciò che non può essere toccato è destinato a cadere in una nebbia amnesica. Io credo che la letteratura sia magia tascabile proprio perché riesce a essere intrattenimento e sacralità insieme. Riesce a passare delle convinzioni ma non in senso cattedratico, piuttosto attraverso l’utilizzo di storie: la letteratura non insegna nozioni monolitiche ma, tramite la sua componente di intrattenimento, insegna ad apprendere.
Per questo accetto che si re-interpreti la Divina Commedia o che si ri-scriva Shakespeare, perché quelle stesse ispirazioni possano essere capovolte e ribaltate da una genialità moderna. Lo accetto nella misura in cui questo venga fatto con la cognizione di un architetto che progetta e costruisce le basi di un mondo, non con il disordine di un distratto che si limita a cogliere e disporre di ciò che lo ha colpito. La ri-elaborazione deve essere coraggiosa, stabile, presente a sé stessa e non imitazione ipnotica e sterile. Va da sé che lo scrittore non può essere un sacerdote che nasconde e rende inaccessibile il proprio idolo e storce il naso davanti all’attualizzazione di un classico.
Se dunque il verbo rimescolare di Kelly viene applicato alla scrittura come esercizio puramente formale e stilistico, è evidente il repertorio di possibilità di sviluppo che si apre sulla ritmicità narrativa, sulla scansione sintattica, sul procedere generale della storia che si sta raccontando. Penso, ad esempio, alla seducente letteratura ergodica di Danielewski, al labirinto metaletterario che è la sua Casa di foglie, oppure al fonosimbolismo della Pioggia nel pineto di D’Annunzio, o alla Fontana malata di Palazzeschi, o ancora alla più estrema letteratura futurista di Marinetti con la sua aeropoesia.
Rimescolare può anche significare creare libri nuovi, mai visti prima nel loro modo di presentarsi. Un misto di emozioni che non limitano lo schema espressivo alla comicità o al dramma, eccetera…, lasciando spazio a registri propri straordinari.
Non è un pensiero originale, Borges diceva sapientemente “i generi letterari dipendono meno dai testi che dal modo in cui i testi vengono letti”.
Borges diceva anche e altrettanto sapientemente che «la vita stessa è una citazione». E le citazioni delle citazioni ci portano al postmoderno. Non dico che noi siamo ancora in una letteratura postmoderna, sempre che ci capiamo su cosa postmoderno significhi, ma che il postmoderno è l’ultimo grande movimento internazionale fondato in un certo senso sul remix. Semmai avesse avuto occasione di leggere la Cosmicomica di Calvino cui facevo riferimento prima, il critico marxista Frederic Jameson avrebbe commentato che la storia di Qfwfq era l’esemplificazione perfetta del passaggio dal modernismo al postmodernismo, che in arte si era consumato nella trasformazione del noto quadro di Van Gogh, Un paio di scarpe, nell’altrettanto noto lavoro di Andy Warhol, Diamond Dust Shoes. Le prime sono le scarpe di una contadina che esemplificano un mondo fatto di dolore, di sofferenza, di lavoro: quelle scarpe sporche sono «la violenta e intenzionale trasformazione di un grigio mondo d’oggetti contadino nella più gloriosa materializzazione di puri colori del dipinto a olio».
A proposito di quel quadro, Martin Heidegger che al problema dell’autentico aveva dedicato innumerevoli sforzi ermeneutici aveva detto: «Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messi mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale […] Il quadro di Van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è [ist] in verità. Questo ente si presenta nel non-nascondimento [Unverborgenheit] del suo essere». L’opera racchiude una verità ultima che è la sua autenticità. Ma che cosa rimane di questa autenticità dinnanzi alle scarpe in serie di Warhol? «Qui – Jameson prosegue il suo ragionamento – ci troviamo di fronte a una raccolta casuale di oggetti morti, che pendono insieme sulla tela come altrettante rape, privati del loro precedente mondo vitale come il mucchio di scarpe rinvenuto ad Auschwitz, o ai resti e ai segni di un qualche incendio tragico e incomprensibile in una sala da ballo affollata». Rispetto a questo gesto artistico, è impossibile completare l’impegno ermeneutico che nel caso del quadro di Van Gogh dischiudeva invece un mondo più ampio, ora impossibile da afferrare. Ma mi chiedo: è davvero così? Oppure il “librare” contemporaneo riesce a cogliere degli aspetti vivi della nostra cultura?
In ultima analisi il remixaggio in atto in forme, contenuti, stili porta a scrittori ed editori a porsi una domanda: è possibile scrivere un romanzo superando obsolete distinzioni fra narrativa e saggistica, oltre che fra “generi” letterari – gabbie culturali (commerciali) ormai lontanissime dalla sensibilità contemporanea, che cerca nuovi format ibridi coerenti con il mindset digitale oggi pervasivo?
La risposta è sì: basti pensare, oltre a Casa di foglie giustamente evocato da Michele, a S. di S. di Forst e Abrams o ilMistero.doc di McIntosh, per limitarci alla narrativa nordamericana degli ultimi venti anni. Scrive Laura Tonini: la letteratura ergodica (che “sintetizza una nuova era geologica del nostro rapporto con la lettera scritta: richiede capacità e attenzioni diverse dai lettori, ma allo stesso tempo è una struttura diegetica sempre esistita”) “non necessariamente è una forma collegata a opere ostiche e dedicate a un pubblico ristretto. Entrati in una sorta di automatismo da Internet abbiamo già smesso di rilevare alcune forme di attenzione accessoria richieste dagli ipertesti. Abbiamo già cominciato ad allenare il cervello a salti visivi e di contenuto, registri linguistici discontinui, introduzioni di neologismi e persino a collocazioni spaziali totalmente ingiustificate”.
Tuttavia l’impressione è che il sistema editoriale italiano sia incapace di capire e quindi gestire l’innovazione che viene soprattutto dal rapporto fra scrittura e immagine, scaturito dalla conflagrazione in atto fra diversi sistemi massmediali. Davanti a questo selvaggio nuovo mondo l’editoria italiana a tutti i livelli non trova di meglio che arroccarsi su posizioni di retroguardia, specie quando una proposta fuori dal coro del politicamente corretto viene da un Autore italiano, salvo abbracciare magari con vent’anni di ritardo proposte simili di Scrittori americani che danno maggiori garanzie di vendita (come il Ballardismo applicato di Sellars,già citato in una Conversazione precedente).
Al massimo è in grado di assorbire quelle critiche svolte dall’interno del sistema stesso e con modalità narrative tradizionali (vedi per tutti Essere Nanni Moretti di Culicchia) che in ultima istanza confermano il sistema nella sua immutabilità. Certo, ribattono alcuni, sì, ma mettiti nei panni di un editore. La sua responsabilità è pubblicare libri, renderli pubblici. Un libro che non si vende, che non si vede, resta un fatto privato. Sarà: ma senza arrivare a sostenere che si tratta di “alibi ridicoli per giustificare politiche editoriali che mirano solo al profitto realizzato senza troppi sforzi” come afferma lo Scrittore di Ariminum Circus, forse bisognerebbe riconoscere che c’è una certa mancanza di coraggio diffusa, o almeno che l’assenza di figure paragonabili ai Calvino, ai Manganelli di un tempo si fa sentire.
Forse sembrerà una difesa d’ufficio, ma io non credo che l’editoria italiana sia arroccata su una posizione di retroguardia, né più né meno di quanto lo siano altri mercati internazionali. Se osservo le classifiche di vendita di oggi e quelle di cinque o dieci anni fa, ai primi posti (e anche più in basso) vedo tipologie di libri estremamente diverse da allora.
Cambiano i tempi e cambiano i libri; cambiano anche i cataloghi degli editori. Qualcuno a questo punto si alzerà, indignato, dicendo che i cataloghi sono sì cambiati, ma in peggio. Questo a mio avviso è puro disfattismo, è assenza di fiducia umanistica. È un pensiero che non posso condividere, come non condivido la nostalgia per i “bei tempi perduti” di Calvino e Manganelli. Come può esserci innovazione, se ancora rimpiangiamo un’esperienza che appartiene al passato?
Che l’editore miri al profitto mi sembra giusto e pure sano, oltre che inevitabile – qualcuno conosce un modo di sopravvivere senza guadagnare? Perché una casa editrice, che è un’impresa privata, dovrebbe disprezzare il profitto economico? – mentre trovo insensato pensare che si possa farlo “senza troppi sforzi”, come se esistessero terreni sicuri sui quali muoversi con il minimo rischio. Anzi, sottolineo che proprio i terreni che vengono spesso ritenuti “più sicuri” – ad esempio i libri di personaggi famosi, o di autori già bestseller – sono quelli coi quali è più frequente farsi male dal punto di vista economico.
Ogni editor sa che il vero colpo grosso lo fa quando scopre lo sconosciuto di talento e lo porta al successo contro ogni logica e previsione commerciale. È per quel tipo di emozione che viviamo, ogni giorno. Siamo affamati di “nuovo”, gridiamo di gioia quando lo troviamo, combattiamo crociate per difenderlo… ma il dramma è che la maggior parte delle cose che leggiamo non sono né nuove né belle quanto vorremmo. Davvero qualcuno crede ancora che abbiamo le scrivanie piene di capolavori e non ce ne accorgiamo o, peggio, non siamo disposti a sostenerne il valore?
Io credo invece che i maestri citati da Marco abbiano ancora molto da dirci. Calvino, ad esempio, nella lezione americana dedicata alla molteplicità anticipa come l’arte moderna possa essere paragonata a un guazzabuglio, a un pasticcio, a un sistema di sistemi che si interfacciano tra loro. È il piano dell’orizzontalità – commenterà molti anni dopo Alessandro Baricco nei Barbari – che ha vinto e sconfitto il piano della verticalità, della profondità, dell’originario. «Da qualsiasi punto di partenza – chiosa Calvino – il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti».
Ecco, il nostro presente e il tema di questa conversazione che abbiamo affrontato partendo da lontano, ma investigando il ruolo dell’autentico e dell’originario attraverso il secolo. Dal postmoderno in avanti il problema di ciò che è originario non è in realtà del tutto uscito di scena. Il piano dell’originario e dell’autentico, un tempo intrecciati, hanno lasciato ora il posto all’orizzonte dell’originale che è la conditio sine qua non del moderno remixare. «Si prende un piccolo fatto vero», recitava una nota poesia di Postkarten di Edoardo Sanguineti, e per preparare una poesia la si condisce come se fosse un piatto di cucina «con un pizzico di Artusi e Carnacina». Così nell’odierno superamento dei generi un tweet di 140 caratteri può essere unito a un’immagine, alla descrizione di un’immagine, a una canzone, o uno spezzone di un film entra nelle nostre storie di Instagram, o un paesaggio è sormontato da scritte, da poesie, da citazioni, da citazioni di citazioni con il sottofondo di una canzone hip hop.
In questa esplosione di forme, di generi e di tendenze, domina l’ibridazione sia a livello di contenuti che a livello stilistico (e in questo senso, per tornare alla questione iniziale, Gomorra e l’Amica geniale sono due ottimi esempi di “originale”). Ma talvolta parte del nostro mondo editoriale sembra troppo legato a una cultura verbocentrica, dimenticandosi che le immagini hanno da sempre accompagnato la scrittura e i testi. È solo un esempio ma è spia più generale di un disinteresse nei confronti della cultura dell’ibridazione.
Un attento critico dei fenomeni culturali letterari italiani ha parlato di “letteratura circostante” e, in effetti, una ampia parte del mercato editoriale italiano è propensa alla creazione di prodotti estetici che non ambiscono a durare, a restituire una conoscenza del mondo, come avrebbe voluto Benjamin, quanto a consumarsi nell’atto della loro fruizione. Scrive Gianluigi Simonetti: «Il prototipo allo studio, nei cantieri dell’industria culturale, è insomma quello di un’opera stilisticamente facile, perfettamente traducibile, idealmente non troppo lunga (ma serializzabile), con un protagonista nel quale sia facile proiettarsi». In questo, il sostantivo “l’originale” ha lasciato lo spazio all’aggettivo “originale”.
Si tratta di uno slittamento semantico non da poco, nel quale si scorge un aspetto interessante del mondo contemporaneo che già Calvino aveva snasato. A fronte di tale mutazione, sopravvive una consiste produzione letteraria che, richiamandosi all’arte del remix, mescola generi differenti, ibrida forme e contenuti culturali disparati non solo con l’intento di innovare, ma di produrre conoscenza.
Se il tema della produzione letteraria nella contemporaneità digitale risulta cruciale, come sottolinea Riccardo, mi sembra altrettanto centrale la questione delle competenze ermeneutiche del lettore o più radicalmente la questione della leggibilità/illeggibilità. La grandiosa accessibilità dell’informazione non basta infatti a renderla comprensibile e “leggibile”. Da un lato, vi fa ostacolo la temporalità propria richiesta dalla lettura della forma libro, dall’altro l’ipertrofia della produzione, come ad esempio, nell’ambito universitario, l’iperproduzione dei contributi scientifici. Ne faccio esperienza occupandomi di un oggetto di ricerca – le tecnologie immersive e la realtà virtuale – in continua evoluzione, rispetto a cui l’aggiornamento bibliografico risulta concretamente impossibile. L’esito di questa invasione di contenuti è un offuscamento del campo visivo con la conseguente creazione di bolle informative e di effetti di isolamento (ne si è parlato a più riprese nella Sesta Conversazione. Se il libro è condiviso). In questo senso l’emergenza di forme ibride, come quella del video saggio, non sono solo la conseguenza dell’ibridazione con l’audiovisivo, ma anche una risposta alla necessità di una nuova temporalità del pensiero.
Rispetto a questo quadro, anche senza coinvolgere le stratificazioni di senso proposte dalla letteratura ergodica, mi pare si richieda oggi al lettore, ma in generale all’utente della rete, di saper remixare anche le proprie competenze interpretative, intersemiotiche oltre che intermediali. Il lettore di un ipertesto è chiamato a comprendere a colpo d’occhio la diversità di registro che intercorre tra elementi contigui e tra loro sovrapponibili a livello semiotico: come un testo e un commento, una fotografia e un deep fake, una GIF animata e un banner pubblicitario. Un lettore che non sappia operare l’integrazione reciproca tra questi elementi espressivi eterogenei rimane escluso da una piena comprensione. Tuttavia, di rado si sottolinea come questa integrazione non sia affatto automatica, ma richieda la mobilitazione di un atteggiamento creativo. Anche su questo punto sono illuminanti le riflessioni di Pietro Montani (Tre forme di creatività, Cronopio, 2019).
Se il libro è condiviso (Paolo Costa, nella Sesta Conversazione, sottolineava l’ambiguità di questo termine, che intendo qui in senso forte e che anche in senso etimologico richiama ancora una volta a un gesto di ricombinazione di elementi scomposti), il lettore si fa protagonista di una nuova scrittura, basti pensare al fenomeno delle fanfiction (di cui parlava anche Sonia Lombardo nella Terza Conversazione. Se il libro si fluidifica). Come è già stato ricordato, il web 2.0 o web interattivo implica che il lettore sia sempre anche scrittore/creatore, al limite semplicemente in quanto rimescolatore. Conosciamo ormai una totale porosità tra consumatore e produttore, nella figura del prosumer (di cui si è parlato nella Quinta Conversazione), ma anche tra mainstream e underground, come testimonia il fenomeno dell’hipsterizzazione nel campo delle tendenze di consumo.
Ma, l’interattività che si lega al remix – che è del resto il termine successivo proposto da Kelly – significa anche questi elementi hanno un loro comportamento mediale, non si limitano cioè a una fruizione passiva, ma ci sollecitano, hanno una agentività cui il libro non ci ha preparati. Lo ricordava spesso Bernard Stiegler: mentre il nostro sistema educativo elaborato nel corso di secoli prevede che un allievo sia sottoposto ad almeno un decennio di studi per arrivare ad appropriarsi della forma Libro, si dà invece per scontato che l’accesso agli strumenti digitali, ed in particolare agli schermi, sia “immediato”, mentre non lo è neppure per quelli che definiamo “nativi digitali”, che, ricordiamolo, sono molto spesso degli analfabeti della tecnologia, raramente in grado di agire al di fuori dei pattern proposti automaticamente dalle interfacce dei servizi digitali. Ma così facendo si elude completamente la questione dell’agentività di queste tecnologie o, potremmo dire, dei Poteri degli schermi, per riprendere il titolo del volume, appena uscito, che ho curato insieme a Mauro Carbone e a Jacopo Bodini (Mimesis, 2020).
La questione delle competenze era evocata in maniera molto giusta anche da Alice Di Stefano nella Quarta Conversazione. Se il libro diventa uno schermo. Non sono però d’accordo con l’idea che “non sono i social il problema, ma l’uso che se ne fa”. Questo atteggiamento presuppone l’idea che la tecnologia sia di per sé neutra o neutrale, come se non si trattasse di un artefatto culturale umano. Anche i più critici dello stato attuale delle tecnologie digitali, come Tristan Harris (cofondatore di Humane Technologies), rischiano di ricadere in questa concezione, a mio avviso molto rischiosa. Invece, è essenziale mettere sempre a fuoco che, nella configurazione specifica di un’interfaccia, ovvero nelle possibilità e nelle affordances specifiche che ci offre un certo dispositivo sono già presenti delle possibilità agentive che informano, se non determinano, il nostro comportamento. In altri termini, non abbiamo ancora veramente assimilato, fino a che punto, per dirla con McLuhan, il medium è il messaggio.
Le provocazioni di Kevin Kelly per cui “nel regno digitale immateriale”, dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche il libro diventa un librare, sembrano proporre quasi che l’evoluzione dal cartaceo al digitale costringa la forma libro ad adeguarsi a nuovi registri comunicativi. In questo senso, è il libro a modificare la sua geometria in funzione di ciò che è attuale (tagliando le frasi diversamente, distribuendo in maniera personale metafore e altre forme di figure retoriche, rompendo la convenzionalità della sintassi e della punteggiatura). La domanda che mi pongo a questo punto è: qual è il limite per cui l’elastico dell’evoluzione si può tendere senza però spezzarsi e quindi lasciare spazio allo snaturarsi?
Se si accetta l’idea per cui l’artificio letterario deve essere completamente prono alla capacità del pubblico di riconoscersi in esso per poterlo comprendere, allora l’elastico evolutivo risulta indistruttibile. Lo scrittore, con l’abilità di un’eminenza grigia, potrà spostare l’emotività del lettore a seconda della propria volontà, ma seguendo solo e soltanto i ritmi e il lessico che è già proprio di quel pubblico: una sorta di cavallo di Troia che cela dietro al regalo di resa un attacco intellettuale. È evidente che l’arte letteraria, evolvendosi, dovrà modificare la sua forma, ma è altrettanto evidente che deve farlo stando attenta a non perdere la forza dirompente del suo contenuto.
L’elastico evolutivo si spezza immediatamente, invece, se aggiungiamo una certa arroganza dello scrittore che, oltre a voler rivelare un messaggio al lettore seducendolo con una storia, vuole anche costringerlo a vedere ciò che di sua volontà non guarderebbe mai, a sentire ciò che spontaneamente non esperirebbe mai, a toccare ciò da cui fuggirebbe. La forma letteraria così diventa uno dei tanti passatempi che racconta al pubblico solo quello che il pubblico vuole gli sia raccontato e l’ingranaggio intellettuale che un buon libro alimenta e fa correre all’impazzata rimane fermo e seduto nella comodità di ciò che già si conosce e si crede vero.
Anche se non esiste una posizione più valida o ontologicamente più meritevole dell’altra, io personalmente tendo a preferire il protagonismo dell’artista e della sua arte, la violenza con cui mostra la sua creatività, l’arroganza dei suoi ritmi, la sgradevolezza e l’antipatia con cui si può soffermare su elementi apparentemente vuoti. Tendo a preferire la libertà espressiva totale e non per questo egoista di chi crea: lasciare che lo scrittore articoli arbitrariamente le parti narrative per raccontare il significante della storia, anche se questo richiede al pubblico uno sforzo di empatia maggiore.
Oriana Fallaci, nel suo ultimo capolavoro letterario Insciallah, suggeriva una visione interessante riguardo al destino del libro. La dittatura dell’immagine (cinema, tv…etc) non è di per sé negativa. Il fatto che però quest’ultima abbia eclissato il mondo cartaceo in maniera quasi totale, ha fatto sì che il pubblico perdesse la capacità di pensare, produrre idee e fornirle. In questo modo, anche le immagini di quella che lei chiama la moderna Medusa sono piatte, prive di tridimensionalità, ferme a riflessioni passeggere. Lo schermo non permette e non permetterà mai di pensare come si pensa leggendo, lontano dai mezzi rudimentali e “giocattoleschi” che si usano nella dittatura delle immagini.
Credo che aggiornare il sistema narrativo di un libro in funzione del confronto con la velocità e l’accessibilità propria dell’online sia una scelta estrema e invasiva perché pone l’attenzione sui codici, sulle convenzioni linguistiche e sulle modalità di interazione di una piattaforma e non invece sull’utente che le subisce e le vive. Al contrario, aggiornare la forma letteraria in funzione della capacità del pubblico di apprendere e ritrovare il proprio linguaggio, credo sia una scelta saggia e ponderata. La conclusione forse sarà la stessa ma sono le premesse a essere diverse.
Un libro che diventa librare è un oggetto che diventa un’azione; un libro che diventa pensare è carta che diventa propulsione esplosiva.
Un libro che diventa librare è un’insensatezza di un problema che reitera sé stesso; un libro che diventa pensare è parola viva che racconta il tempo presente.
Un libro che diventa librare è la scelta anacronistica di voler rincorrere la novità (e, come recitava Benigni interpretando le parole di Vincenzo Cerami, non esiste cosa più antica della novità); un libro che diventa pensare è la capacità dello scrittore di incontrare il lettore e suggerirgli all’orecchio tutta la passione del mondo.
La televisione non sarebbe mai potuta diventare un’estensione del cinema, e piuttosto è diventata una realtà a sé stante. Il web non può diventare l’estensione del linguaggio cartaceo. Anch’esso è una realtà autonoma e nuova.
Si sente tanto dire come il fenomeno di diffusione che ha avuto la piattaforma di Twitter abbia generato una generazione di scrittori: chi non ha mai espresso sé stesso tramite la parole ha iniziato a farlo copiosamente seppure nel limite di centoquaranta caratteri. È certo vero che Twitter ha facilitato e reso dilagante la verbalizzazione della vita degli utenti ma, allo stesso tempo, trovo inesatto e poco puntuale poter parlare di questa realtà come di una madre di scrittori moderni.
Se è vero che Twitter ha creato una generazione di scrittori è anche vero che ha creato una generazione di lettori degli scritti degli altri e non credo che conseguentemente a ciò si sia verificato un rifiorire dell’editoria. Un utente che ha “imparato” a leggere così abbondantemente non è diventato un lettore, un utente che ha “imparato” a esprimersi con l’arte della parola non è diventato uno scrittore. L’esercizio di scrittura di quella piattaforma è appunto solo un esercizio.
A proposito, mi torna in mente la distinzione, sempre della Maraini, tra la scrittura terapeutica, quella dello sfogo, quella che traccia fondamentalmente il rapporto con noi stessi, dalla scrittura letteraria, quella che attraverso i sensi raggiunge il lettore e lo seduce.
È chiaro che anche il libro – medium vecchio in opposizione ai nuovi media – viene però da questi rimesso in circolo e attraversa anch’esso un processo di rimediazione. Mi riferisco al fatto che la letteratura – e in particolare il romanzo come notava Stefano Izzo – è già di per sé una forma di crossover, che assorbe e integra alla forma narrativa le strategie estetiche e compositive delle forme espressive con cui entra a contatto. Faccio un esempio, ho da poco concluso la – splendida – trilogia di Rachel Cusk (Resoconto, Transiti, Onori, Einaudi, 2018-2020), una narrazione in cui il lettore è situato nel punto di vista della protagonista Fay, senza che quasi la sua voce o la sua azione sia presente sulla scena. Una narrazione che sarebbe incomprensibile senza una familiarità con il costrutto della soggettiva cinematografica e la sua evoluzione intermediale, il first person shot (proprio delle camere di sorveglianza, delle go pro, o della visualizzazione dei video games).
Pensiamo per immagini, attraverso le immagini e attraverso gli schermi, e il libro – anche quello più classico – si nutre di questo pensiero visuale e fa leva sulla nostra familiarità con altre forme mediali. Per questo mi sembra dogmatico opporre oggi immagine e testo, come suggerisce Michele Bravi riprendendo Oriana Fallaci. Se, come librare, il libro diventa un’azione è perché anche la scrittura è diventata tridimensionale, multisensoriale, ambientale, esattamente come le immagini oggi diventano ambienti (al centro del progetto di ricerca ERC An-Icon di cui faccio parte) e originano nuove forme di storytelling, che non potranno lasciare indifferente l’universo del libro.
In questo senso, rispetto al futuro del libro, mi sembra che siamo di fronte ad un’alternativa: o il libro è destinato a fluidificarsi e così a fondersi e confondersi sempre più con le forme di scrittura nativamente digitali, oppure, se vuole mantenere la sua specificità, è chiamato a diventare sempre più “oggetto”. Non mi riferisco puramente alla sua materialità e matericità, che si valorizza oggi per una nota vintage e nostalgica, ma ad un’idea di oggetto mutuata dal design. In un momento in cui il design abbandona l’oggetto fisico (Emanuele Quinz, Contro l’oggetto, Einaudi, 2020) e si trasforma in design di interazione e di interfacce, forse il libro diventa oggi non solo testo, ma oggetto performativo, in quanto diviene perno di interazioni sociali e creazioni identitarie, oltre che, come è sempre stato, uno snodo di scambi concettuali e culturali.
Nelle riflessioni proposte da Marco viene sollevata una questione relativa alla forma e una relativa al contenuto (due facce della stessa medaglia): è possibile scrivere un romanzo superando obsolete distinzioni fra narrativa e saggistica? Non solo è possibile, ma accade e quando accade “bene” il risultato è molto interessante. Inoltre, è vero che il nostro cervello, sottoposto ad una esplosione della varietà dell’offerta culturale si trova a fare i conti con suggestioni e ritmi molto più intensi rispetto al passato. E’ difficile immaginare di realizzare una regia per un’opera senza essere condizionati dalla resa televisiva, né si puo’ ignorare che il visitatore di una mostra è probabilmente giocatore di videogiochi.
La smaterializzazione dei contenuti, la convergenza e la moltiplicazione di contenuti che utilizzano contemporaneamente più forme espressive smussa i confini fra i settori culturali da un punto di vista sia competitivo sia di percezione da parte del pubblico. Cinquanta anni fa non esistevano i videogiochi, internet, la musica streaming, YouTube, i video on demand, i programmi televisivi erano in bianco e nero; oggi, autori di libri che hanno plasmato l’immaginario di generazioni – penso ad esempio a Salgari – sono semplicemente illeggibili, perché troppo lenti.
In un contesto in cui – a fronte del fatto che le ore del giorno sono sempre 24 – l’offerta culturale si è arricchita enormemente, la tenuta del settore editoriale – e per di più su carta – è un incredibile risultato; e se vi pare che 40% di popolazione che legge tra uno e tre libri l’anno sia poco (per carità, io vorrei che tutti leggessero ben di più), perché la lettura è attività elitaria, forse vale la pena ricordare che secondo l’Istat il 20% degli italiani ha assistito almeno una volta ad un evento sportivo in presenza (prima del Covid, naturalmente). Ciò detto, mi pare però che la capacità dei libri di costruire gli immaginari e di orientare gli altri settori culturali sia molto diminuita; Harry Potter, Elena Ferrante e pochissimi altri a parte, mi pare che la filiera dell’audiovisivo sia più in grado di mobilitare l’attenzione a livello internazionale; e mi aspetto che gli scrittori di successo contemporanei ambiscano ad essere sceneggiatori di serie televisive.
Il ruolo dell’editore di certificatore rimane rilevante, ad esempio nell’editoria accademica e nella saggistica; e nonostante la crescita enorme dei titoli autopubblicati, la pubblicazione da parte di un editore mainstream consacra l’autore autoprodotto e ne fa esplodere le vendite. Però l’autorevolezza degli editori di libri e la loro centralità culturale mi pare in progressiva erosione.
Aggiungo una nota di allarme. Mi viene in mente la Leonia di Città Invisibili, libro attraverso cui Calvino descrive un dialogo immaginario tra Kublai Khan e Marco Polo, una città che rifà sé stessa tutti i giorni e in questa produzione infinita ed estenuante annega nei rifiuti. Il destino di Leonia è un rischio concreto e più che potenziale per una letteratura “citazionistica” che rifà sé stessa all’infinito, componendo i testi come tessere di un puzzle, remixando generi, forme sintattiche e schemi narrativi? Oppure, piuttosto, si dovrebbe parlare di un proliferare virtuoso che, componendo più aspetti della nuova cultura mediatica con quella letteraria, crea un colosso architettonico stupefacente?
Trovo abbastanza presuntuoso e supponente pensare di trovare una scintilla di novità in duemila anni di narrazione di storie. Forse addirittura impossibile. Non a caso, coerente con questa linea di pensiero, Marguerite Yourcenar fa dire al suo Adriano “tutto quel che ciascuno di noi può tentare per nuocere ai suoi simili o per giovare loro, almeno una volta è stato fatto da un greco. Altrettanto avviene nelle nostre scelte interiori.”
In uno dei suoi monologhi a cui ho avuto il piacere di assistere qualche anno fa, Lella Costa rifletteva e faceva riflettere su come la parola “nuovo” goda di un immeritato credito. Perché è questo a cui sembra tendere la provocazione di Kelly: rendere la letteratura “nuova”. L’attrice presentava un repertorio di classici intramontabili, di libri del passato che, nonostante la loro datazione restano ancora così incatenati e necessari al tempo presente. In effetti, i classici volano sopra le catene limitanti del tempo, non sono mai legati all’attualità ma riescono sempre a raccontare e decifrare il contemporaneo. Altrimenti detto, se un testo è passibile del sospetto che sia vittima di allusioni al presente, allora è un classico.
Quante combinazioni di generi e linguaggi e registri (tesi a formare la letteratura evoluta di Kelly) rischiano di formare una Leonia e quanti aprono invece una porta sul futuro?
Se si decide di credere alla definizione di classico sopracitata, ogni infiltrazione del tempo presente, di narratività attuale e momentanea non fanno altro che incatenare il destino di un libro, quale che sia la sua forma, a questa sola frazione temporale, a questo momento e non c’è nulla di più breve e fuggevole di un momento. Questo, a mio avviso, potrebbe creare un fuoco spettacolare talmente effimero da non durare più di un battito d’ali e non fare altro che accelerare la fine dell’arte della parola, quindi privata della sua immortalità.
Succede la stessa cosa nel mio mestiere di cantautore, una canzone scritta al pianoforte potrà essere digerita con minore facilità di un apparato elettronico assordante e convincente, ma quel mostro di suono affascina alla stessa velocità con cui invecchia mentre il seme del suono legnoso del pianoforte mette le sue radici silenziosamente per diventare quercia.
Questa non vuole essere una rigida posizione accademica di quanto la letteratura debba rimanere immutabile e immutata nonostante l’evoluzione dei registri comunicativi che ci stanno formando come individui e che sono la nostra espressione quotidiana, vuole piuttosto essere un invito a cogliere cosa, nel nuovo linguaggio futuristico dell’online, ha le prerogative e le possibilità di formare un’identità di popolo, a distinguere quali storie, schemi, registri sono già eterni e raccontano l’identità collettiva.
Ferdinando Pessoa diceva che “la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta” e se la vita adesso ha espanso i suoi confini diventando anche realtà virtuale, credo sia inevitabile che anche la parola debba rompere i suoi argini e cercare di raccontare, con la stessa modernità di un classico, chi siamo oggi.
Mario Perniola, in uno dei suoi scritti Contro la comunicazione, suggerisce che in una tempesta di dati, informazioni, eccessi di velocità, per far sì quei dati, quelle informazioni, quegli eccessi di velocità diventino comunicazione autentica, serve necessariamente che qualcuno si assuma l’onore e l’onere di fare una traduzione leggendaria dell’attualità rendendola mitologia: trasformare il momento presente in storie che possano non attraversare l’umanità oggi ma attraversare l’umanità sempre.
Capire e riconoscere l’entità dell’urgenza di raccontare il nostro nuovo mondo, a prescindere dalla forma, dalla sintassi e dal registro di vocaboli, non deve essere scambiato con la forzatura dell’attualizzazione.
La letteratura resiste ed esiste ancora come mappa geografica per viaggiare dentro sé stessi. In ogni mappatura che si rispetti, il mondo è rappresentato solo come disegno primitivo e necessariamente non suggerito nell’interezza del suo aspetto reale. Con i libri vale la stessa regola: il libro parla del futuro ma non ne ha la forma. Altrimenti il viaggio interiore diventerebbe fittizio e sterile, un percorso inutile sull’epidermide dell’anima.
Immagine di Marcello Minghetti.