“Nel regno digitale immateriale”, scrive Kevin Kelly, “dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche il libro diventa un librare, evolvendo da cartaceo a digitale, confrontandosi con altri sistemi di comunicazione e apprendimento”. Se il libro diventa un “librare”: questo il titolo/quesito/ipotesi che ci conduce in un viaggio su cosa è stato, cos’è oggi e cosa sarà domani il libro, attraverso Dieci Conversazioni con scrittori, editori, esperti. Come guida per orientarci in questo cammino abbiamo scelto la rilettura di tre testi visionari: uno del passato, Alice nel Paese delle meraviglie, il classico di Lewis Carroll, riprendendo alcune riflessioni sviluppate nell’ambito del progetto Alice Postmoderna; uno del presente, L’inevitabile, scritto dal cofondatore di Wired Kevin Kelly; uno del futuro, il romanzo online in corso di scrittura Ariminum Circus, di Federico D. Fellini, disponibile in versione multimediale anche su Wattpad.
Il libro si sta fluidificando? Questo è l’interrogativo intorno a cui ruota la Conversazione odierna sul futuro del libro, cui partecipano Giovanni Peresson, Direttore Ufficio Studi AIE (Associazione italiana editori), Fausto Colombo, Direttore del Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo dell’Università Cattolica di Milano, Sonia Lombardo, che ha fondato il Laboratorio di Scrittura online Storia Continua, Massimo Maugeri, ideatore di Letteratitudine, e Francesco Musolino, giornalista, che ha pubblicato con Rizzoli L’attimo prima, il suo romanzo d’esordio.
Credo che innanzitutto sia opportuno definire l’oggetto di cui ci occuperemo. Leggiamo la definizione data dal Vocabolario Treccani online: “Libro liquido, s.le m. Il libro inteso come contenuto che può adattarsi a diversi supporti, dal volume cartaceo a vari tipi di dispositivi elettronici e informatici. Il libro liquido. È questo il futuro. Poco importa se siamo lettori di romanzi o di poesie, se divoriamo i gialli o amiamo i fantasy. Non è una questione di genere letterario. È un tema che va al di là della diatriba tra carta e digitale. Riguarda il contenuto, che dovrà modificarsi a seconda di chi lo guarda e del supporto su cui desidera leggerlo. (Stefania Parmeggiani, Repubblica.it, 11 maggio 2012, Spettacoli e Cultura). «Oggi si parla di “libro liquido” perché il suo contenuto – saggio o romanzo o testo scolastico non importa – può cambiare forma, assumendo di volta in volta quella del contenitore in cui viene “versato”. Può essere letto sullo schermo di un personal computer, di un tablet o su un ebook reader». [Barbara Hoepli] (R.[oselina] S.[alemi], Espresso, 6 novembre 2014, p. 135, Società)”.
Come tutto ciò che è connesso alla modernità (Bauman docet) anche il libro insomma diventa liquido. Si tratta infatti di una delle tante declinazioni del terzo verbo indicato da Kelly come motore del divenire attuale: fluire. Un attuale piuttosto inattuale se pensiamo al fiume di Eraclito, ma questa è un’altra storia. Il ragionamento di Kelly prende le mosse dal fatto che “Internet è la più grande macchina fotocopiatrice mai inventata”. Ogni cosa che può essere dematerializzata lo sarà e fluirà liberamente in rete, sostiene. Lo abbiamo visto con quello che è successo alla musica quando è diventata digitale. Quando possibile e utile, l’immateriale sembra destinato a prevalere sul materiale, il bit sull’atomo, il soft sull’hard. In questo quadro cambia la dimensione del tempo. Durante l’era industriale le aziende facevano tutto quello che era in loro potere per risparmiare tempo e quindi aumentare l’efficienza e la produttività, ma oggi questo stesso principio non è più sufficiente. Ora le aziende devono far risparmiare tempo ai loro clienti e ai cittadini, facendo tutto il possibile per interagire in tempo reale, cioè il tempo umano. Un bancomat è molto più veloce di un impiegato allo sportello quando si tratta di prelevare denaro, ma quello che vorremmo è una liquidità istantanea, soldi direttamente in mano, servizi simili a quelli offerti da Square, PayPal, Alipay o Apple Pay.
Tutto questo come impatta con l’ideazione, la scrittura e la fruizione di un libro?
Nel 2011 ho pubblicato un libro intitolato L’e-book e (è) il futuro del libro. L’inserimento della “doppia e” (congiunzione / verbo) non è stata casuale. Il titolo si riferiva all’eventualità che il futuro del libro fosse inequivocabilmente ancorato al formato digitale, senza escludere tuttavia che l’identità cartacea potesse comunque resistere. Ci stiamo riferendo a un periodo (sono passati nove anni) in cui molti ritenevano che il destino del libro fosse già ineludibilmente segnato e che l’identità digitale dei testi pubblicati avrebbe quasi inevitabilmente surclassato quella cartacea. Così non è stato. Quantomeno non nelle dimensioni in cui molti temevano che potesse avvenire. Il libro di carta ha dimostrato di avere le caratteristiche peculiari di un prodotto culturale la cui utilità e la cui identità prescindono, almeno in parte, dalla dimensione immateriale (dunque liquida, fluida) in cui può essere fruito.
Anzi, con riferimento ai dati diramati dall’AIE (Associazione Italiana Editori) sul “consolidato del mercato del libro e del digitale nel 2019” abbiamo conferma del calo della produzione di titoli di e-book: “Nel 2019 sono stati pubblicati 48.763 e-book. Per il terzo anno consecutivo, si assiste a una riduzione del numero di titoli, dopo aver raggiunto nel 2016 il picco di 81 mila. Nel 2019 il calo è stato del -5,4%, dopo il -17,2% dell’anno prima, che segue il -15,9% del 2017”.
Giovanni Peresson, che dell’AIE è il Responsabile Ufficio Studi, potrà senza dubbio meglio di me confermare e integrare questi numeri. Io tuttavia aggiungo che persino nella musica, seppur in forma ridotta e limitata, pur viaggiando in via quasi esclusiva lungo percorsi digitali e immateriali, si è assistito a un ritorno alla dimensione fisica, materiale (il riferimento è ovviamente al ritorno al “vinile”), probabilmente anche per fronteggiare un’esigenza di tipo collezionistico.
Al di là di queste considerazioni, ciò che appare comunque evidente è che il libro cartaceo ha dato prova di resistenza ben superiore di quel che si poteva immaginare qualche anno fa. D’altra parte è bene mettere in risalto le differenze tra i tre aspetti presi in considerazione nella tua domanda: l’ideazione, la scrittura e la fruizione di un libro; senza dimenticare, peraltro, che l’enorme produzione di testi antecedenti l’epoca digitale prescinde da due dei tre aspetti evidenziati. Tutti i libri scritti in precedenza, infatti, non hanno risentito delle problematiche attinenti alla fluidificazione dei testi per ciò che concerne gli aspetti della ideazione e della scrittura. Con riferimento, per esempio, a La Divina Commedia possiamo solo chiederci se la fruizione dell’opera in formato digitale presenti differenze rispetto alla fruizione in formato cartaceo (dal punto di vista della percezione del lettore).
Il problema si pone, dunque, soprattutto per i libri di nuova produzione. In tal senso credo che i contenuti delle nuove opere (mi riferisco soprattutto alla narrativa) possono subire influenze legate al concetto di fluidificazione, anche in termini di ideazione e di scrittura; non per via di una influenza diretta (che potrebbe comunque manifestarsi limitatamente al caso in cui un autore decida deliberatamente di indirizzare la propria creatività pensando a priori alle ripercussioni del concetto di fluidificazione sul proprio testo), ma per via indiretta: nella misura, cioè, in cui la suddetta fluidificazione incide nelle nostre vite di scrittori e di lettori e, direi più in generale, di persone. Per esempio: le narrazioni di tipo epistolare nella letteratura di oggi avvengono attraverso l’uso di email, di scambi sui social network o con la messaggistica rapida che può offrire WhatsApp: è un tema che tratti benissimo in Come Scrivere una Lettera d’Amore.
Quanto più l’aspetto della fruizione liquida/immateriale/digitale si concretizza, tanto più le nostre abitudini di vita a esso legate possono agire, in via indiretta e consequenziale, anche nell’aspetto della ideazione e della scrittura… perché sono aspetti della nostra esistenza che, in qualche modo, sono stati oggetto di mutazione; e dunque la narrazione di tale mutazione può rientrare nell’ambito della ideazione e della scrittura.
«Il libro liquido. È questo il futuro». «Oggi si parla di “libro liquido” perché il suo contenuto può cambiare forma, assumendo di volta in volta quella del contenitore in cui viene versato. Può essere letto sullo schermo di un personal computer, di un tablet o su un ebook reader.» Sono queste le due affermazioni, rispettivamente di Stefania Parmeggiani e Rosellina Salemi, con cui Marco ci ha stimolato a riflettere sulla «fluidificazione» del libro.
Come abbiamo già cominciato a vedere, non solo del libro. Concordo con quanto ha appena detto Massimo sul ridimensionamento del destino del libro ineludibilmente volto verso il digitale. Dove il numero di titoli pubblicati era assunto come esclusivo sinonimo di digitale, e quindi – in un passaggio successivo, di «libro liquido». La questione credo vada spostata su un altro piano.
Possiamo partire ricordando quanto scriveva Pier Domenico Baccalario (Una e-storia e mille autori, la Repubblica, 18 dicembre 2011) ormai dieci anni fa spostando (apparentemente) il baricentro del tema. «Credo che le storie [i prodotti editoriali] del futuro cambieranno perché cambieranno i loro lettori. [Ma il] punto che ci riguarda è un altro: cosa succede alle storie e agli autori [e agli editori e ai libri che pubblicano] quando devono (e possono) fare i conti con le nuove tecnologie? Le storie di successo vengono espanse in un universo di storie coerenti dove non esiste un vero inizio e una vera fine, nel senso che inizio e fine possono essere diversi per ogni singolo utente che vi partecipa dato che non è possibile prevedere il momento in cui entrerà in contatto con la storia e, soprattutto con quali conoscenze. Un utente può appassionarsi a una storia partendo da un videogioco, leggere uno dei libri che la narra […], o ancora, seguire una puntata del telefilm. Solo successivamente soddisfatto da quanto ha letto, visto o giocato cercando su Internet, chiacchierando con i social network o riconoscendo una maglietta nella vetrina di un negozio scoprirà che la storia a cui si è affezionato fa parte di un universo narrativo più vasto».
Il vero punto non è il «liquefarsi» del libro, della tecnologia libro intendo, quanto della «liquidità» che le storie contenute all’interno di questa tecnologia hanno. E hanno sempre avuto (Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi, Ferrara, Palazzo Diamanti, catalogo Skira, 2016).
Quando i primi antropologi e poi gli studiosi di mitologia indù iniziarono a raccogliere e sistematizzare il consistente corpus mitologico – trasmesso e narrato in forma orale nei villaggi del Paese – registrarono questo fatto: «Il bardo recita un mito […]. Alla fine gli ascoltatori lo interrompono dicendo: “ Noi l’abbiamo sentito raccontare diversamente”» e lo raccontano (sintetizzo da Wendy Doniger, Śiva. L’asceta erotico, Milano, Adelphi, 1979, la cit. a p. 39).
Quel «noi l’abbiamo sentito raccontare diversamente» a cui seguiva poi la narrazione di fronte allo stesso pubblico di ascoltatori mi ha sempre fatto venire alla mente la scena di Fahrenheit 451 (a sua volta espansione del romanzo breve dello stesso Bradbury, The Fireman) delle persone che sulla riva di un fiume custodiscono ognuno un frammento del patrimonio narrativo dell’umanità tramandando a memoria l’un l’altro i testi dei libri. Ognuno di loro è un romanzo e ognuno di loro è una storia.
Voglio dire che la riflessione ci porta a interrogarci non sulla liquidità dei libri. Ma sul fatto che ogni device può contenere una parte di una stessa grande narrazione. Ogni device è potenzialmente una porta in cui entrare in una storia che «fa parte di un universo narrativo più vasto».
Se il libro (primo «anello della catena del valore») è il punto di partenza (ma non è affatto detto che sarà così e non lo è in alcune occasioni già oggi), lo smartphone si presta assai meglio a contenere spin-off a puntate di avventure di personaggi minori. Altri sviluppi di quel mondo narrativo possono muoversi e svilupparsi sugli schermi o nei giochi di ruolo. Altri nei parchi tematici. Insomma a ogni device la sua parte di una storia ben più grande. A un modello economico lineare – autore, editore, cliente/lettore nel flusso di distribuzione delle storie e di remunerazione economica – se ne sostituisce uno rizomatico e parcellizzato.
Fantascienza editoriale? Tutt’altro, perché è quello che accade già da anni nell’editoria professionale. O in quella educativa: universitaria o scolastica, lo ricordava anche Aaron Buttarelli nella precedente Conversazione. Libri con le loro appendici digitali, in forma di video, di test di verifica dell’apprendimento, di webinar. Dove il «mondo narrativo» della normativa o delle varie tecnicalità arriva al professionista in forme e modi diversi. In forma di libro (manuale), ma anche di corso di aggiornamento, di app da consultare con il suo iPad o smartphone presso il cliente, di newsletter, di banca dati. Ognuna di queste parti, per riprendere Pier Domenico Baccalario, «fa parte di un universo narrativo [professionale, diremmo in questo contesto] più vasto».
Ma c’è un ulteriore tema di riflessione. Tutte queste forme restano sempre ancorate alla gabbia tipografica e alla dimensione autoriale che ha assunto – in un contesto storico determinato: l’Europa tra XVIII e XIX secolo – il testo. L’audiolibro non è l’oralità della narrazione. È la traduzione (fedele) in voce di un testo scritto, che ne riflette esattamente la struttura definita dall’autore e dall’editore. Come la riflette la versione digitale in PDF o in ePub. Così come lo svilupparsi di una storia in un romanzo, o di un viaggio in una guida turistica, hanno come limite invalicabile la finitezza del numero di pagine di un libro. La finitezza di una guida di viaggio – di carta o eBook – esclude, giocoforza, le infinite possibilità del viaggiare. Un limite che anche il libro «liquido» in larga parte si porta dietro.
Vorrei riprendere quest’ultima osservazione di Giovanni, che se non sbaglio ribadisce quanto era stato detto sul finire della Conversazione Se il libro è cognitivizzato. Francesco Varanini così sintetizzava la questione: “L’e-book non comporta in sostanza nessun avanzamento, nessuna sostanziale differenza rispetto al libro, lo ricordava anche Luca Formenton nella Prima Conversazione di questa serie. E’ la copia, l’imitazione digitale del libro cartaceo. Ha qualche piccolo vantaggio sul libro cartaceo: la possibilità di cercare una parola dentro il testo, una sorta di indice dei nomi evoluto. Ma non comporta nulla di diverso. Così il tempo dell’e-book non è che la coda del tempo del libro”.
Ora, è da diversi anni ormai che stiamo cantando la messa funebre del romanzo e più in generale del libro, in quanto tale. I media ci incantano lodando la società smart, light e magari wellness oriented eppure quell’oggetto, con un peso specifico e una grammatura di pagine, pagine finite e non aggiornabili con l’invio di un nuovo firmware, continua a far sognare i lettori, magari con gli stessi sogni che fanno le pecore elettriche, citando Philip K. Dick.
I profeti digitali leggono libri cartacei? I teorici del transumanesimo, coloro che pensano che saremo presto in grado di estrapolare la mente umana e caricarla su supporti digitali, in attesa di un nuovo corpo umano capace di sconfiggere la morte, come si rapportano alla fisicità del libro libro (in Ariminum Circus il tema è toccato nell’Episodio intitolato FEDERICO D. FELLINI’S LONELY HEARTS POSTHUMAN CIRCUS, N.d.R.)? Un oggetto finito che può bagnarsi, essere morso, strappato e persino mangiato, spingendoci nel reame del feticismo dei lettori.
Nel mio zaino, ormai da dieci anni, c’è sempre un Kindle. Il mio lavoro e la mia passione rendono necessaria la familiarità con l’e-reader che aumenta, un modello dopo l’altro con soddisfazione; ciò che è interessante notare in questa sede è che mentre tendiamo verso il verbo librare, mentre i grammi e la carta si tramutano in byte all’insegna della velocità e dell’immediatezza – placando la sete di lettura e alimentando la fame di possesso – non siamo in cerca di una forma alternativa, non si sta offrendo un concetto supplementare alla lettura, a quell’azione nota sin dalla notte dei tempi che discriminava la specie umana in due fazioni: chi sapeva leggere da un lato, dall’altro chi non era in grado di farlo. Il formato digitale – sia esso .pdf, .mobi o .epub – replica la pagina grazie all’e-ink e sì, il libro tende a diventare liquido ma sovente ci lascia insoddisfatti, forse proprio perché si tratta di una replica digitale. Un oggetto alternativo, non nativo nell’idea dell’industria culturale. È comodo, funzionale ma non alternativo. La carta vince perché l’oggetto libro, citando Umberto Eco, non è migliorabile, come ricordava Francesco Morace nella Prima Conversazione di questa serie. E allora perché non chiedersi: è possibile reinventare la lettura?
Domanda che rimanda immediatamente a un’altra: l’ideazione e la scrittura stanno attraversando una reale mutazione? Ci volgiamo ai romanzieri quando la classe politica si rivela incapace di leggere la realtà, anelando una profondità di pensiero, una cura per le parole. Tuttavia, lo scrittore ha un tempo di metabolizzazione diverso, deve poter masticare i pensieri e lasciarli vagare con lo sguardo, prima di poterli modellare con le parole. Sarebbe assurdo contrastare i tempi e la corsa al codice binario, ma d’altra parte, la liquidità dei nostri tempi non può accelerare il pensiero di un romanziere, come dimostra il baratro della vacuità in cui precipitano molti instant-book. Sì, ci sono autori in grado di cogliere i mutamenti della società e a loro ci rivolgiamo – pensate all’attualità dei libri di Michel Houellebecq, da Sottomissione a Serotonina – e altri che rincorrono o peggio, si mettono all’opera per vivisezionare il freddo cadavere della realtà, giungendo in ritardo, scalzati dalla vita che corre sempre in avanti, firmando libri utili ma fuori tempo massimo. Non muta il modo di scrivere un romanzo, semmai, oggi più che mai dobbiamo premiare le intelligenze visionarie che colgono il passo dei tempi e al loro fianco, nuotiamo nel tempo digitale tenendo per mano le parole scritte.
Per quella che è la mia esperienza di editor posso confermare che il processo di ideazione e scrittura non si è poi tanto modificato. Nonostante la digitalizzazione, nonostante il libro si sia fluidificato, la creazione di una storia, un romanzo, passa ancora attraverso i classici processi di rilettura e revisione, raramente si butta giù una trama pensando in anticipo attraverso quale piattaforma questa prenderà vita. Anzi, posso testimoniare che la volontà/desiderio degli autori è perlopiù ancora quello di pubblicare un libro cartaceo, da sfogliare e che possa essere sfogliato, come segno della propria legittimità a essere considerati degli scrittori.
Allo stesso tempo però, molte di queste pubblicazioni vengono realizzate in self-publishing, dunque saltando completamente l’iter di selezione imposto dell’editoria classica, per poter raggiungere i lettori direttamente; anche quando un libro viene pubblicato da un editore, non è raro poi che alcuni dei suoi contenuti vengano estratti e ridotti per essere fruibili tramite siti web e social media perché, come spieghi bene tu, se non sei visibile in pratica non esisti e la tua scrittura è come se non lasciasse alcuna traccia. Perciò, se da un lato lo scrittore pensa di essere finalmente libero da vincoli, dall’altro sottostà senza quasi accorgersene a quelli che sono i meccanismi che regolano queste piattaforme digitali.
Per fare un esempio, Amazon, che pubblica circa l’80% degli indipendenti, ti spinge a “buttare fuori” sempre più novità sempre più in fretta, perché i suoi algoritmi sono settati per dare maggiore visibilità ai libri nuovi che vengono acquistati più velocemente, e tanto più gli acquisti sono ravvicinati nel tempo più un libro salirà in classifica vendite. La domanda perciò non è se gli autori devono accettare di adeguarsi a una rapidità imposta da calcoli matematici, ma quanto sono consapevoli di esserne già influenzati. La risposta ritengo possa farci approdare a un nuovo modo di concepire i libri, già all’inizio del processo creativo.
La cosa che mi piace del termine “librare” è che rimanda non soltanto al farsi fluido del libro, ma anche e soprattutto alla condizione di volo del lettore. Leggere è sempre stato anche volare (librarsi appunto), perdersi nella storia o nel ragionamento dell’autore contenuto nelle pagine del volume cartaceo. Non succede diversamente nei volumi elettronici formato Ipad: consentono lo stesso librare o librarsi della fantasia e dell’intelligenza. Tuttavia, come a questo punto hanno già osservato in molti, essi non sono davvero fluidi. Semmai sono una trascrizione su altro supporto di un formato testuale che rimane lo stesso (voglio dire, senza gli interventi che la sperimentazione ipertestuale consentiva già verso la metà degli anni Ottanta, per esempio), e che non si possono scomporre o frammentare senza una perdita profonda di senso. E se parliamo di senso, evochiamo il rapporto autore-lettore, e quell’investimento di tempo necessario a cogliere appieno il significato che il primo ha depositato sulle pagine per l’altro. Che il testo sia multimediale o no, richiede tempo e pazienza per essere compreso, apprezzato o rifiutato. Mi pare che la scommessa di oggi sia accettare il guadagno della disponibilità e ubiquità dei libri senza smarrire la preziosità del tempo che dobbiamo dedicare loro.
Partendo da questa premessa, si possono poi fare delle sperimentazioni. Nel 2010 ad esempio per l’editore Link ho dato alle stampe Tracce, un atlante warburghiano della televisione raccogliendo, oltre alla mia, le voci di nove studiosi (Alberto Abruzzese, Piermarco Aroldi, Giuseppina Baldissone, Andrea Bellavita, Manolo Farci, Luca Massidda, Giorgio Simonelli, Matteo Stefanelli). Il progetto, come racconta la prima di due brevi appendici al volume, nasce dalla mia passata esperienza in fatto di atlanti (Il dizionario della pubblicità, curato con Alberto Abruzzese per Zanichelli nel 1994, e l’Atlante della comunicazione, realizzato nel 2005 per Hoepli) e dalla lunga frequentazione del lavoro di Aby Warburg, culminata con il coinvolgimento nel progetto di una mostra alla Triennale di Milano sui rapporti fra pubblicità e temi figurativi classici (Classico Manifesto. Pubblicità e tradizione classica, 12 febbraio-24 marzo 2008).
Punto chiave del progetto non solo grafico, ma più ampiamente strutturale, che informa i contributi dei diversi autori, è la difficoltà di dare visibilità all’intuizione warburghiana circa le infinite potenzialità di una visione sincronica del complesso sistema di rimandi su di un supporto, quale è il libro stampato su carta – che sembra destinato a offrire una visione successiva dei suoi contenuti. Difficoltà che viene risolta dando fruttuoso spazio alle tecniche di impaginazione, nonché di riproduzione delle immagini. Da questo punto di vista, Tracce si fa carico di testimoniare come le tecniche di riproduzione – e di trasmissione – delle opere d’arte e il conseguente aumento del nostro potere sulle cose consenta di trasportare o ricostruire in ogni luogo il sistema di sensazioni – o più esattamente, il sistema di eccitazioni – provocato in un luogo qualsiasi da un oggetto o da un evento qualsiasi (cfr. P. Valery, La conquéte de l’ubiquité, 1928). E così, innanzitutto, le opere d’arte acquistano una sorta di ubiquità divenendo fonti di effetti che possono essere avvertiti da chiunque.
Ma c’è di più: la pagina di istruzioni che apre l’atlante, indica che la strada da percorrere per comprendere che la genesi di questo prodotto artistico non si ferma qui, bensì prosegue sul terreno propriamente contemporaneo dei nuovi mezzi di comunicazione. Alla fine di ogni contributo il lettore ha a disposizione una pagina ripiegata che, dispiegata, presenta sul lato destro una sequenza di immagini numerate e, sul lato sinistro, le didascalie alle immagini, anch’esse numerate. Una volta aperta, la pagina con le immagini è sempre visibile al lettore che affronta il saggio correlato, così che il testo non solo rimanda alle note – anch’esse strategicamente posizionate nel margine laterale invece che a piè di pagina – , ma anche, direttamente alle immagini, le quali, a loro volta, rimandano alle didascalie. In questo modo, il lettore ha una visione sincronica di tutti gli elementi che il saggio tiene in gioco e nessuno dimostra una qualche priorità sull’altro. In questo senso, l’atlante è un ipertesto, anzi un oggetto ipermediale, perché la relazione cui funge da piattaforma non è una relazione testo-testo, bensì un movimento fluido dal testo all’immagine, e di nuovo al testo.
E così, il lettore non è più propriamente se stesso, bensì un fruitore generico, chiamato ad assumere un atteggiamento nuovo e completamente diverso, in contrasto con l’atteggiamento “naturale”. Eppure, muoversi liberamente in questo nuovo atteggiamento non gli è arduo, anzi. È vero, la sua attenzione è completamente frantumata, ma essa scorre fluida da un oggetto all’altro, il primo eterogeneo rispetto al secondo. In alcuni casi questa frammentazione, che genera in realtà un movimento fluido, viene raddoppiata: è il caso della figura 8 riportata da Matteo Stefanelli (Questioni di superficie, pp. 41-44), che non è un’immagine, ma un’immagine spezzata in una sequenza di immagini.
Jay, nell’Episodio di Ariminum Circus Come Scrivere una Lettera d’Amore. citato prima da Massimo, vuole scrivere appunto una lettera d’amore a Daisy. “Il novello Orlando ricordava quanto Daisy vivesse in simbiosi con il suo iPad: dunque, forse avrebbe apprezzato il testo di una lettera scritta utilizzando il digitale e le opportunità offerte dal Web, che rende disponibili materiali infiniti, sui quali si può lavorare di taglia e cuci. La bravura consiste nella sapiente mescolanza degli elementi scelti, che nel risultato finale devono trovare la giusta proporzione, come in un cocktail. Ecco, pensò, allo Scrittore contemporaneo si attaglia il ruolo del Barman; la parte della vodka potrebbe essere attribuita al giacimento di notizie alle quali egli attinge. Conosceva la critica a questa concezione: si tratterebbe di un’idea epigonale di scrittura, involta nella rete dell’autoriferimento, nei cui nodi l’Autore è ridotto al ruolo di bricoleur, di eterno copista del già scritto. Eppure, gli aveva detto Kenneth Goldsmith durante un sit-in per sostenere la depenalizzazione del reato di plagio, grazie al Web siamo tutti dei John Cage, dei Marcel Duchamp: già con semplici copia-e-incolla ricontestualizziamo parole e immagini in diversi frame (un profilo Instagram, un tweet, un blog), facendo assumere loro significati diversi. Sotto questo punto di vista, aveva concluso l’attivista, Internet è un gigantesco, continuo readymade.
Durante gli studi per conseguire l’abilitazione all’insegnamento nei nosocomi, d’altronde, Jay aveva seguito un corso di Poetry Therapy Online: lì aveva appreso che poeti e romanzieri hanno lavorato per la maggior parte così da sempre, pur non avendo avuto a disposizione la Rete. La figura romantica del genio solitario anche in passato era più un mito che una realtà. Già Leonardo da Vinci inveiva contro i letterati, capaci solo di ripetere ciò che hanno letto negli altrui libri. Eppure, se avesse conosciuto il più grande di tutti, Shakespeare, avrebbe dovuto prendere atto di quanto il Bardo fosse bravissimo nel comporre storie traendone gli elementi di fondo dal repertorio che la tradizione o la cronaca fornivano. Su queste basi creava capolavori. Basi che spesso erano le stesse. Come l’idea della giovinetta che si finge morta per amore: meccanismo che produce esiti diversissimi in Romeo e Giulietta, Molto rumore per nulla e nel Racconto d’inverno – le opere shakespeariane preferite di Jay”.
Volete commentare questo brano?
No, nel senso che è tutto vero quanto rilevi circa l’originalità dell’autore. Da tempo immemore si dice che le trame possibili sono solo sette, o cinque, dipende dalla propria scuola di pensiero. Tutto il resto è un rimaneggiare di temi universali: uomo vs uomo; uomo vs natura; uomo vs società e così via. Il web non ha fatto altro che accentuare questo passaggio, se una storia una volta pubblicata diventa del pubblico, una volta pubblicata online diventa di un pubblico che può ricondividerla, modificarla, ampliarla, aggiungere un ulteriore livello fatto di note e commenti, che potranno essere a loro volta utili all’autore originario per creare nuovi risvolti e deviazioni di trama. Penso a quanto accade su Wattpad, forse l’unica piattaforma sopravvissuta all’omologazione dei social network, anche Twitter infatti sembra aver perso un po’ la vena creativa che lo ha caratterizzato nei primi anni. Ad ogni modo, esiste un mondo molto attivo che ruota intorno a fanfiction e spinoff, ovvero a storie non originali ispirate o che prendono piede da romanzi già pubblicati, serie e personaggi di successo.
L’idea alla base di questi racconti è chiedersi: cosa accadrebbe se? Cosa accadrebbe se Biancaneve non accettasse mele dagli sconosciuti? Un esempio banale, ma ne esistono molti altri da lasciare a bocca aperta (provate a fare una ricerca del tipo “Salvimaio”). Questo per dire che certo possono nascere degli obbrobri, ma una volta che si abbassano le barriere imposte dalla proprietà non ci sono limiti alla sperimentazione creativa. Oggi ideali come quelli a cui si sono ispirati progetti come Creative Commons o Wikimedia sono molto meno sentiti, Internet si è ridotta all’autoreferenzialità dei social, però è un fatto che i casi editoriali degli ultimi anni hanno sfruttato questo tipo di condivisione per emergere, e credo che sia compito proprio degli autori creativi alimentarla per fare in modo che non vada persa. È la sola vera eredità che lasceremo.
Il tema dell’autorialità è un tema complesso e non nuovo. Già Foucault e lo Strutturalismo avevano messo in discussione l’idea di autore a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Foucault parlava addirittura di “funzione autore”, intendendo che il nome di chi ha scritto un libro è poco più di un marchio, una convenzione che si adotta per bloccare, riferendosi a una persona che ne piloterebbe la direzione, l’infinito scorrere del linguaggio. Poi ci ha pensato il postmoderno a legittimare il sovrapporsi di citazioni in cui non c’è nessun bisogno di creatività individuale per costruire letteratura: basta un’abilità di manipolazione degli ingredienti a disposizione. La rete non ha soltanto realizzato i sogni di queste teorie, ma ne ha assunto le premesse, pilotando più o meno consciamente lo sviluppo tecnologico in una direzione che non fa che confermarle, e addirittura mettendo a disposizione software di manipolazione/produzione/mash-up di testi, letterari e audiovisivi.
Ma abbiamo bisogno di autori? O di testi originali? Almeno, abbiamo bisogno di immaginarli? Io credo di si. Quando la musica sarà completamente fluida continueremo a andare ai concerti di musicisti sempre più vecchi (perché i diritti d’autore, ormai scomparsi, non li manterranno più), o a cercarne le biografie su Wikipedia, perché continuerà a risultarci strano che quelle melodie e quei testi non vengano da qualcuno. Che non ci sia, nelle radici della comunicazione, qualcuno con un nome che parla per noi e continua a dirci qualcosa.
Fausto Colombo ha ragione: le riflessioni che stiamo facendo certo non possono lasciare ai margini i nuovi modelli di business, di remunerazione del lavoro dell’editore, dell’autore delle figure che operano nella filiera e che la liquidità del libro e delle storie oggi obbligano a ripensare. Ma questo è un altro tema, che è stato sfiorato peraltro nella Seconda Conversazione, quando i membri del panel hanno commentato quel brano di Ariminum Circus in cui un personaggio afferma: «Algoritmi sofisticati potranno essere usati per selezionare i manoscritti che arrivano in una casa editrice oppure per misurare la popolarità social di un Autore. Lo stesso Autore potrà essere pagato con il sistema blockchain».
Tornerei quindi al quesito lasciato in sospeso da Francesco Musolino. E se la «liquidità» non fosse (solo) del libro (o delle storie, e anche delle storie degli universi professionali), ma del lettore? Se fosse lui a esser diventato «liquido». Liquido nel momento in cui si definisce come lettore? Nel momento in cui deve rispondere alla fatidica domanda: «Lei ha letto un libro, un eBook, ascoltato un audiolibro nei 12 mesi precedenti?».
Viviamo le tensioni più estreme che vanno a connotare l’attività del leggere. Ci muoviamo lungo i confini che stanno ridisegnando il paradigma stesso di lettura e di accesso ai contenuti. Sperimentiamo i nuovi e mutevoli mix tra parola e immagine, tra carta e digitale, tra libri e smartphone, tra Facebook e romanzo, tra graphic novel e fan fiction, tra romanzo e serie tv, tra letture pubbliche e audiolibri.
In questo senso considerare come spesso si fa, anche in questa conversazione, l’e-book come sinonimo del digitale e della «liquidità» del libro mi sembra riduttivo rispetto alla ricchezza del tema su cui ci è stato chiesto di riflettere. Riflette un approccio letterario alla varietà delle forme editoriali e delle tecnologie che oggi le permettono e le rendono possibili. Torno ancora a richiamare l’attenzione sull’editoria professionale, a quella universitaria e ai nuovi necessari modelli economici di remunerazione dell’azienda editoriale e dei suoi autori e collaboratori. La «liquidità» del libro non può diventare il liquefarsi del conto economico dell’impresa.
Nel corso di una Conversazione precedente citavo un Episodio di Ariminum Circus che poneva proprio questo tema. Lo Scrittore discute con la sua Ombra, esponente di un approccio tradizionale che nega la “liquidità” digitale del libro, e a un certo punto dice: “Nel frattempo, i media che si rivolgono ai giovani manifestano una sensibilità opposta a quella dei vertici del sistema editoriale (per inciso: si sono accorti, i suddetti vertici, che i romanzi di formazione classici, i dolori dei giovani Werther o Holden, sono stati sostituiti da serie tv tipo Roswell o Euphoria? O hanno almeno una pallida idea della rilevanza di fenomeni come la fan fiction?, N.d.R.).
Un esempio è The OA, prodotto da Netflix. Ti leggo la recensione di Wired: “The OA vi ricorderà The Leftovers, Biancaneve e i sette nani, il cinema gelido di David Fincher, Westworld, il cinema teso di Alfred Hitchcock, il cinema allucinato di Tim Burton, Doctor Strange, Sense8, Frozen, La scoperta, La vita è meravigliosa, Il giardino dei sentieri che si biforcano e tutto quel che il vostro archivio audiovisivo mentale pertinente ai generi del dramma realistico, della fiaba, della fantascienza, della teologia, del fantasy e del thriller riesce a evocare. Tutto assieme? Sì»”.
Ben detto! Parlare di lettura e di lettori oggi significa interrogarci sulla «domanda» di contenuti editoriali e di storie che proviene dal mercato. Significa interrogarci sui prodotti, sulle narrazioni, sui bisogni che il mercato – il corpo dei lettori – esprime. Continuare a osservare la lettura e il lettore (solo) nei modi consueti, rende difficile cogliere le trasformazioni che sono avvenute nei decenni scorsi, quelle che stanno avvenendo, quelle prossime future.
Siamo proprio sicuri che la risposta su dove sono andati a finire i 3,096 milioni di lettori di libri che tra 2010 e 2018 hanno smesso di dichiararsi lettori (i dati sono di ISTAT) sia: hanno smesso di leggere. E se la domanda (proposta annualmente con la definizione ormai generica di «lettura di libri») non fosse più in grado di intercettare le molteplici forme che ha assunto oggi quella stessa formula di fronte a nuovi generi o sottogeneri? Se fosse una domanda in cui l’intervistato non si riconosce più? Una domanda incapace di intercettare la lettura dentro le diverse tecnologie che la rendono praticabile? La domanda intercetta i tanti modi in cui il lettore (più o meno «colto») accede (legge) a materiali «editorialmente» importanti e curati? I Millennials, la generazione Z, coloro che saranno i clienti di editori e librerie nei prossimi anni, quanto si riconoscono in una tale domanda? Non si può ulteriormente ignorare il fatto che già oggi coloro che indirettamente pagheranno il diritto d’autore agli aventi diritto si muovono e navigano in un nuovo ecosistema che ha (e avrà) modelli di business ben diversi da quelli tradizionali.
Come in un iceberg, è sempre più rilevante – almeno per dimensioni, per numero di persone coinvolte – la parte sommersa della lettura e dei lettori. Una parte che coincide sempre meno con le forme di lettura più tradizionali e strutturate. Ma al tempo stesso non le esclude nella pratica quotidiana.
Quello che mi appare evidente – come osservatore all’interno dell’Ufficio studi AIE – è la divaricazione strutturale tra le due linee. I «libri» (e la loro molteplicità di generi, manuali, forme, ecc.) rappresentano ormai sempre meno la «lettura».
Una parte invece che il digitale ha esponenzialmente ampliato: eBook e audiolibri, ma anche le attività di self publishing (cartaceo o digitale in formato eBook, mentre inizia a farsi largo anche un «audio»publishing» accanto alla fan fiction. Ma cos’era il sequel della prima parte del Don Chisciotte (1605) scritto, proprio in virtù del successo del romanzo di Cervantes da Alonzo Fernández de Avellaneda (1614) che spinse l’autore a comporre la seconda parte e pubblicarla nel 1615? Voglio dire: molti dei processi a cui assistiamo e che ci paiono narrativamente o editorialmente «nuovi» sono sempre esistiti. La Chanson de Roland e le storie del ciclo carolingio che diventano Opera dei pupi.
In Ariminun Circus la questione è posta così: “«Come e perché terminano i capitoli o i romanzi? Chi decide qual è il giusto confine oltre il quale la prosa finisce? Si può sempre andare avanti dopo la fine di una narrazione: lo dimostrano gli infiniti sequel dei romanzi (ma anche dei film, dei videogiochi; e delle serie-tv, ovviamente, nonché dei miti e dei poemi più antichi) che da sempre hanno appassionato i loro frequentatori. Non parliamo dell’epoca attuale, segnata da una vera e propria orgia di prequel, reunion, revival, remake, spin-off. I film non iniziano e non finiscono, ma proseguono attardandosi sullo schermo. Nell’ultimo anno, diciassette dei venti lungometraggi più visti al cinema sono stati sequel. Netflix può commissionare un reboot sulla base della quantità di utenti che hanno visto l’originale in streaming. Amazon calcola quanto valgono i suoi show allungandoli o accorciandoli sulla base del numero di abbonamenti Prime che hanno generato. I ventisette milioni di fan del Trono di Spade possono costringere HBO a riscriverne la Stagione “Finale” proprio perché non vogliono che finisca. Peraltro già un secolo prima, con la medesima difficoltà si era dovuto cimentare Conan Doyle: la morte di Holmes, nel racconto Il problema finale, fu così contestata dal pubblico che lo Scrittore dovette resuscitarlo. Analogamente, il cattivo di Dallas, che sembrava morto al termine della Terza Stagione, dovette essere riportato in vita perché gli Autori si resero conto che la longevità della serie gli era indissolubilmente legata».
«Ho capito, stai parlando di quella che Stephen King chiamerebbe la sindorme di Misery» concedette l’Ombra.
«Celebre anche il caso del pluripremiato anime Neon Genesis Evangelion: gli appassionati hanno preteso un prolungamento cinematografico che desse una risposta ai tanti interrogativi rimasti insoluti al termine delle vicende raccontate in tv. Così, nel 1997, Hideaki Anno e lo Studio Gainax realizzarono addirittura due lungometraggi animati: Death & Rebirth, composto da vari spezzoni tratti dai ventiquattro episodi della programmazione televisiva originale e da alcune sequenze inedite, e The End of Evangelion, che ne rappresenta un finale alternativo. E così via. Ergo, qualsiasi conclusione è, al giorno d’oggi, casuale, arbitraria: inconcludente, se mi passi l’ossimoro».
Anche perché, al di là dell’insieme tutto sommato ancora emergente fatto da mix di lettura di libri, ebook, audiolibri, troviamo altre forme di lettura (e di scrittura) anche molto articolate e complesse. I testi che posso trovare su blog specializzati in segnalazioni di libri, quelli dei book influencer, o di eventi culturali, di geopolitica, sul cinema o sul teatro, sulle scienze sociali, ecc. Ma anche le poesie di Rupi Kaur; le «instant novel» della NYPL nell’estate 2018; Guido Catalano che comincia a pubblicare i suoi testi sul suo blog, che apre nel 2005 e che è tutt’ora attivo; le «Visual storytelling» di josetoro.0 (e #josetorowalkers). Letture che richiedono – anche nella loro brevità – impegno e attenzione. E poi testi di fanfiction o di narrazioni che hanno come piattaforma Wattpad, lo ricordava prima Sonia, o Instagram, ecc.; siti di quotidiani e periodici che affiancano la possibilità di acquistare la testata in edicola quella di consultare (in tempo reale) articoli e studi su temi e argomenti i più diversi e disparati. Anche queste forme (e modi) le posso (o le devo) riconoscere come lettura? E le riconosce come lettura chi si dichiara lettore? O non lettore.
La domanda che in realtà dobbiamo porci nel ragionare su questo tema è sempre più di «quale lettura sta parlando in questo momento il nostro lettore». Cioè di riconoscere il nuovo statuto di poliedricità della lettura e del lettore. La sua «liquidità», per usare la parola chiave di questa Conversazione. La lettura (e di soli libri) fatta nel tempo libero esaurisce – o no – la rappresentazione che ci diamo della domanda di lettura proveniente dalla società e dai clienti degli editori, del suo declinarsi su formati editoriali sempre più eccentrici rispetto alla tradizionale forma libro (tendenzialmente di narrativa più o meno letteraria, o di saggistica più o meno di cultura). Quel numero (41%: il dato di ISTAT), e quella domanda riescono a rappresentare le nuove modalità di lettura in cui il lettore si trova immerso, le nuove dimensioni autoriali che stanno emergendo (il riferimento agli youtuber è perfino scontato)?
Assistiamo dal nostro Osservatorio AIE a un (più o meno leggero) calo (ma costante) delle forme tradizionali di lettura: libri di narrativa, di saggistica, romanzi di genere, fumetti e graphic novel, manuali di cucina o su cani e gatti, guide di viaggio, eBook, audiolibri o podcast: (dichiarano di averlo fatto il 9% dei 14-75enni).
Scende dal 55% al 54% la percentuale di coloro che si dichiarano lettori di libri (compreso digitale e audio) ma anche di contenuti editoriali diversi da quelli precedenti ma disponibili su social, riviste cartacee, siti on line di cucina, viaggi, ecc.
Cresce invece la quota di coloro che praticano «solo» forme di «altra lettura»: dal 19% al 23% (21% nel 2018). La parte più sommersa dell’iceberg. Sono lettori solo di contenuti editoriali disponibili su social, riviste, siti on line di cucina, viaggi, fan-fiction, ecc. Effetto conseguente la diminuzione (dal 23% al 16% al 14%) dei non lettori assoluti. Non prendiamo i valori nella loro dimensione numerica assoluta, quanto nell’indicazione che ci danno di linee di tendenza che attraversano oggi la società e i lettori.
I lettori di libri e di contenuti editoriali lineari perderebbero due punti. Cresce l’altra lettura: di quattro punti. In realtà pensiamo che cresca in un gioco molto simile a quello a cui assistiamo con le mappe dei «flussi elettorali». Come se fossimo in presenza di flussi migratori della lettura per quanto riguarda i supporti piuttosto che i contenuti.
In aggiunta al ragionamento sviluppato con Giovanni, mi sento di poter dire che l’arte si è sempre cibata di sé stessa e ha sempre seguito un percorso di continua rielaborazione. Il vero artista – non dunque il semplice epigono – è colui che riesce ad aggiungere componenti comunicative e di forma ulteriori rispetto a quelle espresse dai predecessori. E queste nuove componenti comunicative e di forma non possono prescindere dalla contemporaneità in cui l’atto artistico si manifesta. Dal punto di vista della scrittura, l’enorme mole di informazioni che mette a disposizione il web costituisce senza dubbio un maggior supporto dal punto di vista della ricerca… che, tuttavia, non può ovviamente esaurirsi in un mero esercizio di copia-incolla.
Per quanto concerne, invece, la questione parallela relativa alla ricerca del limite tra citazione e plagio, rinvio a un dibattito online condotto su Letteratitudine nel 2010 (che ritengo possa ancora offrire spunti di interesse) intitolato Il futuro della narrativa e la fame di realtà: il caso di David Shields; dibattito sollecitato dalla pubblicazione del volume di David Shields “Fame di realtà” (Fazi editore).
La natura fluida della contemporaneità è la natura di Alice: incessantemente mutevole, rinnovata, imprevedibile. In una parola, “impermanente”. In Wonderland come nella contemporaneità postmoderna si smarrisce la possibilità di sviluppare la propria identità “a una dimensione” percorrendo il labirinto univoco della modernità solida, ma in cambio (dicevamo in Nel Labirinto – Alice annotata 7), si ha la possibilità di creare una nuova personalità molteplice “surfando” in quello pluriverso della postmodernità liquida. E, a proposito di numeri, forse è opportuno ricordare anche quelli che attengono alla sfera “digital & social”. In breve: secondo i dati del Global Digital Report riportati a fine ottobre da We are Social, oltre 4 miliardi di persone utilizzano i social mensilmente, con due milioni di persone che si avvicinano a questo mondo ogni giorno. L’utente medio spende in media circa il 15% del suo tempo utilizzando piattaforme social. Gli altri highlights di questo aggiornamento trimestrale includono:
- L’adoption dei social ha avuto un forte incremento, +12% nell’ultimo trimestre
- Spendiamo sempre più tempo con i nostri dispositivi connessi
- Instagram continua a crescere, ma non è solo
- Esiste un chiaro “age gap” per quanto riguarda l’utilizzo del digital sul lavoro.
Infine ricordo quattro numeri chiave:
- Popolazione mondiale: 7.81 miliardi di persone
- Persone che utilizzano telefoni cellulari: 5.20 miliardi
- Utenti internet: 4.66 miliardi
- Utenti social media: 4.14 miliardi.
Ma torniamo a Kelly. Una legge universale dell’economia dice che qualunque cosa, nel momento in cui diventa onnipresente e gratuita, inverte improvvisamente la propria posizione all’interno dell’equazione. Nell’era industriale sono le copie a essere più preziose degli originali fatti a mano: nessuno vorrebbe il prototipo originale e rozzo di un frigorifero realizzato direttamente dall’inventore; preferirebbe piuttosto una copia in perfette condizioni e funzionante. Più il clone è comune più è desiderabile, dal momento che viene accompagnato da una rete di servizi e centri di riparazione. Ora l’ago della bilancia si è nuovamente spostato: fiumi di copie gratuite hanno minato l’ordine costituito, trasformandolo in questo nuovo universo super saturo di riproduzioni digitali, onnipresenti e così economiche da essere gratuite, in cui le uniche cose veramente di valore sono quelle che non possono essere copiate. La tecnologia ci sta dicendo che le copie non hanno più importanza o, più semplicemente, sono così largamente abbondanti da essere diventate inutili, senza valore, mentre le cose che non possono essere copiate diventano scarse e acquistano pregio. Quando le copie sono gratuite, si deve vendere quello che non si può copiare.
Già, ma cosa non può essere copiato? Per esempio, la fiducia. La fiducia non può essere prodotta in serie, o comprata all’ingrosso, né si può scaricare dalla Rete e custodirla in un database. Ci sono molte altre qualità simili che sono difficili da copiare e che per questo motivo acquistano valore nell’attuale economia. Il miglior modo per distinguerle è porsi una domanda molto semplice: perché qualcuno è disposto a pagare per qualcosa che può avere gratis? I valori impossibili da copiare sono migliori della loro controparte gratuita Anche quando parliamo di libri. Ecco le otto qualità che sono «migliori di quelle gratuite» secondo Kelly: fiducia, immediatezza, personalizzazione, interpretazione, autenticità, accessibilità, personificazione, patrocinio, reperibilità.
«Fiumi di copie gratuite hanno minato l’ordine costituito». Vero. Ogni anno i lettori italiani fanno copie gratuite di materiali editoriali protetti – cartacei o digitali – per 528 milioni di euro (Fonte: Pirateria editoriale, indagine IPSOS per AIE, 2019 ). Di film per 617 milioni (Fonte: FAPAV, 2018). Copiano o scambiano (un dono) password per accedere a banche dati come a una serie tv su Netflix o di Sky.
Per i primi, non solo gli studenti universitari, ma anche, come si dice, fior di professionisti (vi contribuirebbero per quasi il 20%). E 528 milioni è una stima prudenziale perché considera solo coloro che rinuncerebbero a farsi una copia gratuita (o a scambiarsela) a fronte di un’offerta diversa proposta dalla casa editrice. Il capitolo o la parte del libro a pochi euro, lo sharing invece dell’acquisto. Perché c’è poi chi lo farebbe lo stesso, e la stima arriverebbe a 1,2 miliardi. In questi valori è certamente compreso il mancato guadagno dell’editore ma anche le mancate remunerazioni, i posti di lavoro persi o non creati, le librerie chiuse, ecc. per tutti coloro che lavorano nell’indotto editoriale.
Aggiungerei che i 528 milioni di euro di mancato fatturato che la pirateria sottrae ogni anno al settore editoriale librario è pari al 23% del mercato complessivo (escludendo il settore scolastico e l’export). Se per il sistema Paese la perdita è di 1,2 miliardi, per il fisco è di 216 milioni ogni anno. Valori che non solo si traducono in una mancata occupazione per 3.600 persone nella filiera, 8.800 posti tenendo conto anche dell’indotto: il danno arrecato annualmente dalla pirateria si traduce in “2,9 milioni di copie in meno vendute”.
Stiamo parlando di cifre tutt’altro che irrilevanti. Possiamo dunque affermare che un libro proposto anche in formato digitale può essere vittima della pirateria così come un brano (o album) musicale o un film o un prodotto destinato alla televisione. Questo tipo di problematica non investe, viceversa, il prodotto artistico che si traduce nella realizzazione di un bene unico e non riproducibile: l’esempio classico è quello del quadro di un pittore.
Chiudo quindi condividendo una domanda… Al di là, per esempio, dei rimedi proposti dai sistemi legali di download (pensiamo a Spotify o iTunes per la musica) che forse – ma con forti dubbi dal punto di vista degli esiti – potrebbero applicarsi anche all’editoria… se un musicista può difendersi dalla pirateria proponendo concerti (che, in quanto spettacoli dal vivo, sono unici e dunque non riproducibili… quantomeno in termini di esperienza vissuta da parte del fruitore dell’evento live) e un attore può proporre, analogamente, una propria (irripetibile) interpretazione su un palcoscenico… quali potrebbero essere gli “strumenti di difesa” di uno scrittore?
Massimo pone la domanda giusta. Alcune industrie culturali hanno trovato dei punti di equilibrio (apparenti e instabili), con altri modelli economici rispetto a quelli tradizionali. La musica con Spotify. Ma oggi il mercato musicale italiano, diventato digitale, vale 248 milioni di euro (Fonte: Fimi 2020, il dato è relativo al 2019); quando nel 2000 era di 657 milioni. I concerti sono diventati con 423 milioni di euro (Fonte: SIAE, Annuario dello spettacolo 2019) il modello economico (un altro volto della «liquidità») per dare un nuovo equilibrio al sistema e all’artista. Certo «le […] cose di valore sono quelle che non possono essere copiate» ma che aggiungono valore al cliente. Ma è un equilibrio comunque che resta a somma negativa.
Se il 31% dei lettori digitali di eBook, audiolibri afferma di esserseli procurati da siti che offrono «gratuitamente» contenuti digitali (Associazione Italiana Editori, Osservatorio sulla lettura e gli altri consumi culturali, a cura di Pepe Research, 2017-2020) quale modello economico e di creazione di una consapevolezza culturale possiamo immaginare. Ma anche: quale validità filologica possono avere questi testi. La nostra filologia è una filologia delle copie manoscritte, per ragioni storiche e di patrimonio. Non certo una filologia delle edizioni a stampa (qui si veda Alberto Cadioli, Le diverse pagine. Il testo letterario tra scrittore, editore, lettore, Milano, Il Saggiatore 2012). Ma quali sorprese potrebbero scaturire da una filologia delle copie digitali di testi letterari (i classici, anche moderni e contemporanei) specie là dove dalla pagina del libro scansita con le tecnologie OCR si passa alla versione digitale, illegale e no.
Non so se quei numeri possono essere una risposta – terra terra, lo ammetto – alla «domanda molto semplice» «perché qualcuno è disposto a pagare per qualcosa che può [invece] avere gratis?». Una risposta che traduce i numeri nella constatazione che il «lavoro intellettuale» (se ancora si può usare questa espressione) non può venire adeguatamente remunerato. Come le attività connesse al lavoro editoriale (se ancora si può usare questa espressione). E questa è una prima possibile risposta.
La seconda riflessione nasce da un libro di qualche tempo fa: Il dono al tempo di Internet (Marco Aime e Anna Cossetta, Torino, Einaudi, 2000). Il punto di partenza è Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (Torino, Einaudi, 2002) di Marcel Mauss Tema, l’esame del paradigma del «donare» nelle società polinesiane. Gli autori rintracciano nello scambio permesso dalla rete alcuni equivalenti del paradigma «dono» in quei prodotti digitali (le copie) – di musica, password, codici di accesso a piattaforme televisive, libri, musica, giochi, ecc. – che viaggiano (file sharing, peertopeer, free software) sempre più tra gli schermi di un device e l’altro.
E senz’altro vero che questi «fiumi di copie gratuite che hanno minato l’ordine costituito», o meglio che hanno minato la redditività di alcuni processi imprenditoriali, hanno dallo loro – non come giustificazione però – la dimensione del «dono». Ben di più, va detto, pesa la garanzia dell’impunità di fronte al reato: il 77% sa di essere di fronte a un «atto illecito», ma il 66% afferma che è poco o per nulla probabile il «venir scoperti» (sempre fonte: Pirateria editoriale, indagine IPSOS per AIE, 2019).
La dimensione del dono traguarda comunque un modello relazionale tra individui ben diverso rispetto a quello che delineavano i paradigmi rituali il cui il dono si inseriva nelle società polinesiane, come in quelle occidentali arcaiche e non: vedi (Iliade VI 119-236) i «bei doni ospitali» nella narrazione della vicenda di Glauco e Diomede (una sintetica ricognizione si trova qui). Ecco: quel «dono» che diventava base di un «vincolo» tra soggetti, dalla rete – pur nel suo proporsi come creatrice e amplificatrice di relazioni tra soggetti – è stato portato, per i processi di cui stiamo parlando, a una sorta di grado zero.
Se posso aggiungere, l’osservazione ultima di Massimo, su «quali potrebbero essere gli “strumenti di difesa” di uno scrittore» rispetto ai «doni» e agli scambi del suo ebook tra amici e parenti quando per il musicista gli “strumenti di difesa” sono diventati i concerti, mi portano a due altre considerazioni. Il ruolo che hanno le letture pubbliche fatte dall’autore, e non pensiamo solo allo scrittore di romanzi. Le Lezioni di storia di Laterza ne sono uno degli esempi. In viaggio con Il Mulino accompagnati dai suoi autori di libri saggistica storica, un altro.
Nella direzione di creare l’unicità dell’evento che si «compra» prima di comprare (o anche senza comprare) il libro o l’ebook, da anni si sono mossi gli editori. I festival e i saloni cosa sono? I corsi di formazione e aggiornamento, i seminari a pagamento e i webinar un altro. Come lo è dagli anni Ottanta-Novanta il modello economico dell’editoria d’arte. Non vende più, e da decenni, cataloghi, ma la singolarità della mostra. Trovando nel sistema dei servizi aggiuntivi all’evento – dalla gestione della biglietteria, alle audioguide (un’altra forma di «liquidità» del libro-catalogo), al bookshop temporaneo, al merchandising, – il suo modello economico di sopravvivenza (lockdown permettendo dovremmo dire oggi). Sottolineo questi aspetti per mostrare come l’editoria, che appare all’esterno «vecchia e polverosa» abbia da tempo percorso linee innovative nei suoi tanti processi. Che sono, a ben vedere, altre forme della «liquidità» contemporanea.
Questo passaggio è ancora più affascinante degli altri perché, almeno nella mia interpretazione, chiama in causa Walter Benjamin e l’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica. La prendo alla larga, richiamo “la natura fluida della contemporaneità” e lascio scivolare l’immagine di “fiumi di copie gratuite (che) hanno minato l’ordine costituito, trasformandolo in questo nuovo universo supersaturo di riproduzioni digitali, onnipresenti e così economiche da essere gratuite, in cui le uniche cose veramente di valore sono quelle che non possono essere copiate”.
Ebbene, entrando nella discussione nella veste di autore, tutto ciò in me richiama un giorno ben preciso. La mail mi avvisava di un Google Alert e incuriosito, ho cliccato. Mi aspettavo un link ad una nuova recensione del mio romanzo, magari un blog sconosciuto o qualcosa di già edito che zigzagando nei motori di ricerca era stato ripescato, pronto per essere rilanciato sui canali social. E invece, mi sono trovato davanti il link alla copia pirata del mio libro in versione .epub. Campeggiava la scritta gratis e una serie di stringhe url. Voi cosa avreste fatto? Ho cliccato e con piccoli passaggi ho scaricato la copia del mio romanzo e subito dopo, sconfortato, l’ho confrontata sull’ipad con la versione orginale, in mio possesso, inviatami dall’editore Rizzoli.
Fianco a fianco, device contro device, schermo contro schermo, eccomi in una trama di Cronenberg. Se scompare la carta, se viene meno la firma autografa, basta un bollino siae per attestare l’originalità di qualcosa che viene creato da un codice binario? Ad un occhio esterno erano due gocce d’acqua digitali ma in mezzo c’era un abisso chiamato copywright o tutela della proprietà intellettuale. O per dirla in altre parole, ricordo con amore le notti e i giorni passati davanti allo schermo, le idee e la scrittura, l’atto della creazione e della distruzione, i dubbi e poi, avanti veloce, tutto l’iter editoriale sino al momento in cui ho visto e toccato con mano la prima copia del mio primo romanzo. Da una scatola ho preso la prima che mi ha accompagnato lungo tutto il tour di presentazioni, perfettamente uguale alle altre trenta copie dentro la scatola eppure unica, speciale, mia. E tutto questo viene azzerato in pochi click, da un file di nemmeno un megabyte, a costo zero, immediatamente disponibile tramite il web a qualsiasi latitudine e orario. Ovviamente ho debitamente segnalato alla polizia postale, al mio agente e alla casa editrice il link in questione, ben sapendo che parte della fluidificazione del libro è anche una lotta impari contro la pirateria che volatilizza gli sforzi.
Resta sul piatto la domanda dalle cento pistole: “perché qualcuno è disposto a pagare per qualcosa che può avere gratis?”. E se non basta il concetto di legge e legalità, mi appello alla considerazione che nel momento in cui il lavoro – la creazione dell’intelletto – non viene più protetta e tutelata, stiamo aprendo una crepa nella nostra società, correndo verso l’anarchia. E andando in senso contrario in questo flusso temporale, penso che oggigiorno per scoraggiare la pirateria, ci sono anche editori che non concedono la licenza per sviluppare l’ebook. Fermarsi e puntare i piedi è un gesto antistorico o è un rimedio contro la perdita di contatto dell’eccessiva parcellizzazione della proprietà intellettuale?
Le qualità di cui scrive Kelly mi hanno fatto ripensare a un libro pubblicato di recente da Simon Groth, si chiama Ex Libris ed è composto da dodici capitoli che possono essere mescolati in qualsiasi ordine. In pratica ogni lettore riceverà una copia unica del libro, perché ad ogni stampa l’ordine dei capitoli viene rivisto pur mantenendo lo stesso arco narrativo. Le combinazioni possibili sono di ben mezzo miliardo!
Groth dice di essersi ispirato al Tristano di Nanni Balestrini, ora non so quale sia la qualità o quale livello di coerenza mantenga il libro, ma leggendo gli articoli apparsi su TheWritingPlatform, mi pare che quantomeno il progetto risponda a tutte le caratteristiche: immediatezza, personalizzazione, interpretazione, autenticità, accessibilità, personificazione. Caratteristiche che portano a interrogarci però su chi sia l’autore e dunque sul concetto di fiducia. Se un testo può essere randomizzato appunto, se può essere rielaborato perfino da una Intelligenza Artificiale, senza che se ne distingua la differenza da uno scritto dalla mano di un autore, ecco appunto, cosa distingue l’autore oggi?
Quando la rete è nata, è stata un grande esperimento di democrazia. Nel senso letterale: il primo tentativo umano di creare una democrazia senza territorio. Alle rivoluzioni politiche che di solito consentono di passare a forme condivise di governo si era sostituita, questa volta, una rivoluzione tecnologica. I fondamenti erano quelli classici delle democrazie politiche: regole uguali per tutti, diritto di accesso senza discriminazioni, condivisione delle risorse (in questo caso cognitive).
Il terzo punto, la condivisione, si fondava su una ideologia comunitaria che aveva già dato luogo, negli Stati Uniti, a opere come il Whole Earth Catalogue di Stuart Brand, che collazionava invenzioni da parte di tante persone e le pubblicava a vantaggio di chiunque volesse accedervi.
Il problema irrisolto di quel sogno democratico consisteva nel rapporto diritti/doveri. I padri fondatori di internet davano per scontato che tutti avrebbero non solo ricevuto, ma anche dato secondo le proprie possibilità. Invece si è poi scoperto che: a) prendere (gratis) è più facile che mettere a disposizione, e che b) non tutto quello che è a disposizione è affidabile. Ecco allora riemergere il tema della fiducia e della attendibilità dei contenuti. Il che fatalmente rimanda al fatto che se vuoi che una istituzione culturale, un autore, un divulgatore sia affidabile, devi consentirgli di spendere per produrre contenuti credibili e utili. Due le strade trovate finora: i contenuti premium, che funzionano e però ricreano una distanza fra have a have not, e forme di pagamento diversificato (come il crowd funding). Poi ci sono altre forme, ma ci piacciono meno: per esempio il vantaggio pubblicitario degli influencer, che diventano dispensatori di consigli pubblicitari o di credibilità conto terzi.
Un ruolo essenziale penso toccherà nel futuro alle grandi istituzioni tradizionali come l’Università: dovranno essere capaci di adattare la loro credibilità alle condizioni del nuovo sapere, per esempio attraverso la pubblicazione in open access dei propri risultati di ricerca e di sperimentazione.
Immagine di Marcello Minghetti.