“Nel regno digitale immateriale”, scrive Kevin Kelly, “dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche il libro diventa un librare, evolvendo da cartaceo a digitale, confrontandosi con altri sistemi di comunicazione e apprendimento”. Se il libro diventa un “librare”: questo il titolo/quesito/ipotesi che ci conduce in un viaggio su cosa è stato, cos’è oggi e cosa sarà domani il libro, attraverso dieci conversazioni con scrittori, editori, esperti. Come guida per orientarci in questo cammino abbiamo scelto la rilettura di tre testi visionari:uno del passato, Alice nel Paese delle meraviglie, il classico di Lewis Carroll, riprendendo alcune riflessioni sviluppate nell’ambito del progetto Alice Postmoderna; uno del presente, L’inevitabile, scritto dal cofondatore di Wired Kevin Kelly; uno del futuro, il romanzo online in corso di scrittura Ariminum Circus, di Federico D. Fellini, disponibile in versione multimediale anche su Wattpad.
Dopo la prima conversazione (Se il libro è un divenire) proseguiamo oggi a ragionare del futuro del libro con Aaron Buttarelli, Direttore Generale Mondadori Education, Giulia Ciarapica, blogger culturale e autrice del romanzo Una volta è abbastanza, Chiara Grizzaffi, che insegna allo IULM di Milano, Alberto Maestri, saggista e Direttore della collana Professioni Digitali per Franco Angeli, Omar Rashid, regista e produttore cinematografico e Francesco Varanini, scrittore, docente e grande conoscitore del mondo editoriale italiano.
Vorrei cominciare questa conversazione partendo dall’analisi del secondo “verbo” che Kevin Kelly ne L’Inevitabile sceglie per definire il nostro presente-futuro: “cognitivizzare” il mondo, in particolare attraverso l’Intelligenza Artificiale e la robotica. E quindi anche l’oggetto della nostra indagine: il libro. È uno dei temi di Ariminum Circus. Riporto per un vostro commento un brano in cui alcuni personaggi, bevendo vodka nel loro bar preferito, Alla Fortezza Bastiani, discutono proprio di tutto questo:
“Il viso del Pescivendolo si allarga in un sorriso mentre stappa una vodka alla liquirizia con Ganzoo, un apribottiglie a forma di asso di picche. Poi apre un nuovo fronte: « Slavoj Žižek sostiene che il nostro pc sarebbe capace di votare meglio di noi, in quanto potrebbe profilarci con esattezza sulla base di quello che guardiamo, leggiamo o compriamo sul Web, delle nostre e-mail e dei nostri tweet. Non si farebbe influenzare da sentimenti o da antipatie e valuterebbe con cinica efficienza il candidato e il programma che davvero possono fare il nostro interesse. A quel punto, se il miglior elettore è un computer, perché il miglior candidato non potrebbe essere un’Intelligenza Artificiale?».
Alberto Lupo non coglie l’ironia e prende l’uscita di Earnest per un assist, che raccoglie con destrezza. «Ottima domanda e buon soggetto per un servizio giornalistico, se non fosse che anche i giornalisti sono una razza in via di estinzione, perché sono sostituiti sempre più spesso da software in grado di costruire una notizia e impacchettarla con un bel template o che capiscono le sfumature di un testo e sono in grado di riassumere interi libri».
Il Pescivendolo sta al gioco e chiude il triangolo: «Libri scritti da Autori che si ribellano contro Amazon perché pratica politiche di sconti molto aggressive, che i consumatori invece apprezzano perché rende più facile ed economica la strada verso un libro, oltre che verso qualsiasi altro genere di prodotto: Amazon sta mettendo in ginocchio i concorrenti in ogni settore, dai supermercati ai network televisivi. Fra l’altro grazie anche alla produzione di telefilm ispirati a romanzi e racconti di P.K. Dick. Uno di questi è Autofac, in cui la “fabbrica” è diventata così centrale e indispensabile da costituire l’unico elemento di rilevanza in un mondo assoggettato al consumo e alla continua sostituzione dei ricambi. Che ironia…»”.
E’ possibile insomma immaginare un libro cognitivizzato del prossimo futuro, scritto da una Intelligenza Artificiale e magari utilizzato in classe da un robot insegnante, come è immaginato in certi romanzi e film di fantascienza?
Per prepararmi bene a questa conversazione credo di aver riletto almeno cinque volte la domanda che ci hai inviato anticipatamente per riuscire a mettermi nell’ottica di un’ipotetica risposta, ma temo di non esserci riuscita. E non perché la domanda non sia chiara, ma proprio perché penso che non ci sia “partita” rispetto all’argomento.
Trovo che “cognitivizzare” un libro attraverso l’Intelligenza Artificiale sia quanto di più anomalo, snaturante e impossibile da immaginare rispetto al senso intrinseco di qualsiasi testo. Non riesco a pensarlo, un libro cognitivizzato, per il semplice fatto che non c’è nulla di meccanico in una storia che viene raccontata o in una tesi critica sostenuta da un saggista. Non esiste neanche una piccola percentuale di materia che un’Intelligenza Artificiale possa programmare di scrivere senza “consultare” il dato umano, emotivo e sentimentale. Ancora oggi il libro, nonostante il progressivo processo di cognitivizzazione del mondo, resta l’unico strumento con cui è impossibile scendere a patti se non per volere del proprio autore, che per definizione non può essere una macchina, perché per quanto precisa e in grado di sondare le nostre preferenze, non ammette variazioni, non contempla l’attimo in movimento, la percezione che si rovescia. Mi vengono in mente i vari tipi di apparecchi fotografici: per quanto ci si sforzi di ideare un prodotto che riproduca in tutto e per tutto l’occhio umano, le ombre, i riflessi e i chiaroscuri che l’uomo riesce a mettere a fuoco non saranno mai gli stessi di quelli che riesce a focalizzare una macchina. La stessa cosa vale per il libro.
La cognitivizzazione, semmai, può avvenire rispetto agli strumenti di vendita e di acquisto dell’oggetto libro, ma appunto dell’oggetto e non del Libro come aorta principale della condizione umana. Ridurre il libro a una macchina – perché di questo, in fondo, stiamo parlando – significherebbe annullare anche quel briciolo di autonomia emotiva che persiste nell’uomo di oggi. Vorrebbe dire alienarsi da sé, diventare ancora più soli – e non solitari, ben inteso – e smettere di osservare il mondo che cambia alla velocità della luce. Perdere il ritmo della corsa senza rendersi conto che non si è più padroni di nulla.
Mi piace l’idea che ci sia stata un’evoluzione in senso tecnologico (e meccanico) per quanto riguarda il modo di approcciare la lettura (l’e-book, Amazon, Ibs, perfino gli algoritmi pubblicitari che mi suggeriscono libri da acquistare in base alle mie preferenze – ok, forse un po’ ansiogeno, ma insomma), ma non mi piace l’idea che si possa arrivare a scambiare la forma per il contenuto. Possiamo cognitivizzare un modo di affrontare le cose, ma non possiamo pensare di cognitivizzare un contenuto, né lo credo possibile. Non vorrei sembrare troppo galimbertiana in questo, ma faccio un passo e indietro e riporto una considerazione del filosofo monzese: «siamo soliti considerare la tecnica come uno strumento a disposizione dell’uomo, quando invece la tecnica oggi è diventata il vero soggetto della storia, rispetto al quale l’uomo è ridotto a funzionario dei suoi apparati. Se dunque la tecnica è diventata il soggetto della storia e l’uomo il suo obbediente funzionario, l’”umanesimo”, che come ci ricorda Heidegger, prevede la centralità dell’uomo, può considerarsi concluso» (vedi su questo Etica e Tecnologie Emergenti. Una conversazione con Gilberto Corbellini e Nicola Gasbarro, N.D.R.).
Confesso di provare un certo imbarazzo nel trattare questioni così rilevanti (l’immagine di un futuro lontano e il ruolo del libro, nel caso mio, del libro scolastico) avendo davanti agli occhi un presente per certi versi ancora così intriso di passato; meglio, un mondo in cui le dinamiche tecnologiche “inevitabili” coesistono con forze e pulsioni primitive se non addirittura regressive. Capisco quindi la difficoltà di Giulia a concepire l’idea stessa di “cognitivizzare” il libro, ma il particolare campo in cui opero mi consente, posta la premessa, di accogliere la sollecitazione di Marco provando ad articolare la risposta riferendola, di volta in volta, a un piano diverso.
Comincerei da un concetto molto semplice, ma che ai più potrebbe risultare nuovo: il libro scolastico è già un prodotto altamente cognitivizzato; ovviamente, non nell’accezione adottata da Kelly. Che cosa intendo dire? Che essendo l’editoria scolastica – e il libro scolastico – un’editoria di progetto, con una sua intrinseca “tecnologia”, e una ben precisa finalità (sollecitare, accompagnare, consolidare i processi di insegnamento e apprendimento), la cognitivizzazione è la dimensione fondamentale dell’intera esperienza editoriale. Con altre parole, il testo scolastico è una “macchina” per l’apprendimento molto efficiente ed ergonomica.
Aggiungerei un’altra informazione, non trascurabile nel contesto del nostro colloquio. Il libro scolastico possiede già oggi un’invidiabile (se confrontata con la forma libro tradizionale) compenetrazione con le nuove tecnologie; la sua forma narrativa e la sua grammatica si sono aperte, negli ultimi anni, alle forme narrative degli altri media digitali: video, audio, simulazioni interattive, software per la rielaborazione dei contenuti, Internet … Insomma, diciamo “libro” ma dobbiamo pensare a una macchina complessa fatta di carta, versione digitale interattiva che dà accesso ai contenuti digitali integrativi e a piattaforme per l’apprendimento e il testing.
E, finalmente, vengo alle sollecitazioni di Marco. Il libro scolastico potrà beneficiare (e in parte già beneficia) dagli impieghi della IA. Per esempio, e mi riferisco alla fase di progettazione e realizzazione, alcuni motori semantici permettono di controllare il livello di accessibilità/leggibilità del testo e, pertanto, di sostenere quella che gli addetti ai lavori chiamano la personalizzazione dell’insegnamento. Ancora, i motori di ricerca danno già da ora la possibilità di sventare imbarazzanti casi di plagio (sì, anche gli autori copiano …). Più banalmente, l’IA permette un’indicizzazione e una taggatura fine dei contenuti; insomma, una sorta di ingegnerizzazione del testo. E che dire delle piattaforme adattive che già consentono di restituire allo studente feedback puntuali durante lo svolgimento di esercitazioni? Ancora, non escludo che strumenti basati sull’IA possano amplificare in maniera straordinaria l’esperienza dell’apprendimento simulato così come le competenze multidisciplinari, “rappresentando” le mappe dei saperi e dei nodi concettuali. E, infine, perché no?, l’IA dovrà assumersi il compito di spiegare ai giovani studenti sé stessa, la sua grammatica, la sua logica interna, le ragioni della sua “inevitabilità”, i compiti e le responsabilità degli uomini nei suo confronti.
Ed eccomi al docente-robot o al docente-avatar. Come sapete, in alcuni paesi sono già in corso sperimentazioni di questo tipo. Parliamo dunque, in questo caso, di un “quasi futuro”. Tuttavia, credo che si debba introdurre un qualche distinguo tra ciò che è inevitabile e ciò che è auspicabile. A mio avviso, è inevitabile (e auspicabile) che un robot possa svolgere compiti sussidiari, anche molto rilevanti. Per esempio, se parliamo di insegnanti, mi viene facile immaginare il ruolo importantissimo che l’IA potrebbe avere nel campo della formazione lungo tutto l’arco della vita professionale (e anche dopo). Allo stesso modo – ne abbiamo fatto cenno prima parlando di piattaforme adattive – straordinario potrà essere il contributo dell’IA nel restituire al soggetto che apprende feedback continui e puntuali, seguendolo passo a passo nella costruzione del sapere. Ancora, un robot potrebbe essere utilissimo nelle attività di tipo istruttivo, liberando tempo per il docente umano e offrendogli così la possibilità di seguire più da vicino i singoli studenti. Non credo invece che sia auspicabile la sostituzione dell’insegnante umano con l’insegnante robot. Credo che la qualità dei processi di apprendimento – fondati, tra l’altro, sulla relazione e, più in generale, su una dimensione affettiva – ne risulterebbe fortemente indebolita.
Abbiamo cominciato questa conversazione come se fosse ben chiaro cosa vuol dire “cognitivizzare”. Questo mi spiazza un po’. Troviamo questo verbo ella traduzione italiana di The Inevitable, un testo che, ad essere sincero non credo meriti tutta questa attenzione. Se citassimo Out of Control o News Rules ci starei più volentieri. Ma dopo l’inquietante misticismo di What Technology Wants, come dare credito ancora a Kelly? Comunque, dicevo, in The Inevitable troviamo questo verbo. Grazie alla creatività del traduttore, Alberto Locca. Perché credo che l’italiano cognitivizzare trovi una buona corrispondenza in cognize… Mi pare che pochi da noi si siano presi la briga di ricordare qual’è l’espressione usata da Kelly: tra questi pochi, meritevoli, Carlo Mazzucchelli e Carolina Niglio. L’espressione usata da Kelly è cognifying. Ora, a me cognifying sembra una parola bifronte, ibrida, dove si sovrappone il senso di cognize, o verbi simili, con codify. Stiamo parlando allo stesso tempo di cognizione e codifica?
Nel mio libro appena uscito, Le Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale, la prima delle leggi di cui parlo, leggi imposte a noi cittadini, leggi alle quali ci conviene trasgredire, recita: “Ti arrenderai a un codice straniero”. Un po’ mi pare stiamo cadendo in questa trappola. Ci lasciamo dettare la linea da un guru americano nella sua fase calante. Nel mio libro mostro come non ci sia soluzione di continuità tra l’imposizione, ed il subire, una lingua straniera, un lessico che impone la chiave di lettura, ed il codice digitale, che porta con sé il progetto di chi ha scritto il codice.
Perciò propongo di prendere la domanda di Marco da un’altra parte.
Conosco Marco da vent’anni, mi considero suo amico al di là della incostante frequentazione. Ho partecipato al Manifesto dello Humanistic Management da lui promosso. Ci siamo ospitati reciprocamente su riviste che dirigevamo: Hamlet, Personae, Persone e conoscenze, a rileggerne i titoli in ordine cronologico è come se avessimo seguito inconsapevolmente un filo rosso evolutivo. Ricordo in particolare Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Mi pare sia irreperibile oggi, meriterebbe certo una ristampa.
Amicizia letteraria. Le migliori amicizie sono le amicizie letterarie, legate alla scrittura, alla lettura, ai libri esistenti e possibili. Certo non condivido con Marco il giudizio su Italo Calvino, ma questo è marginale. Del resto, così come non siamo d’accordo a proposito di Calvino, concordiamo per quello che riguarda Philip Dick e il Cortázar di Rayuela.
Osservo da anni il procedere del lavoro di scrittura di quattro o cinque amici, nessuno di loro letterato di professione, tutti loro a fianco della professione proseguono con la propria opera letteraria, in qualche caso ancora nel cassetto, in altri pubblicata con pseudonimo o con il loro nome. La fortuna letteraria di Svevo e dello stesso Kafka, da vivi, non era migliore della loro. Uno di questi, non so se gliel’ho mai detto, è Marco. Quindi prendo sul serio Ariminum Circus, che considero un punto di partenza per il nostro ragionamento ben migliore delle pagine di Kelly.
I personaggi di Ariminum Circus si tolgono la parola e si rubano gli argomenti e giocano a ribaltarseli reciprocamente. E volutamente, mi pare, non c’è confine tra il punto di vista dell’autore ed il punto di vista dei personaggi. Tutti i personaggi di Ariminum Circus sono proiezioni di aspetti del carattere non di un astratto autore, ma di una persona fisica, Marco; e tutti i discorsi, chiunque sia a pronunciarli, sono sfaccettature di ciò che Marco pensa. Naturalmente, più o meno trasfigurati, sono presenti gli echi dei libri letti e delle posizioni di amici e conoscenti… Mi rendo conto ora che quello che sto dicendo di Marco vale anche per un autore che per vari accidenti della mia vita mi sono trovato a studiare, Juan Emar.
E’ uno pseudonimo: Je n’ai marre, ne ho abbastanza, ne ho fin sopra i capelli dei critici che non capiscono la mia opera. Quindi scrivo senza preoccuparmi del successo immediato: è esattamente lo stesso spirito che troviamo in Episodi di Ariminum Circus come Test d’Ammissione, Recensione della Martin Eden Review, La Casa del Simurg o Il Ritorno del Leggendario Uccello Gigante. Così Juan Emar si ritira a scrivere un romanzo sterminato, scriverà fino al giorno della morte. C’è un gioco preciso in questo scrivere: scrivere un romanzo così complesso che il recensore, autore di banali recensioni, non potrà raccapezzarcisi. Juan Emar vince la sfida. Ma poi finisce paradossalmente per perderla. Il critico presuntuoso che non riesce a riassumere il romanzo di Emar, se è costretto a leggere su carta tutte quelle pagine, dispone di nuove armi se ha a disposizione un testo digitale.
Resto convinto che questo sia il passaggio più interessante, quando si parla di ‘libri del futuro’. Più che chiederci se esisteranno in futuro libri scritti da Intelligenze Artificiali e libri letti da Robot, credo ci convenga parlare -in quanto esseri umani a cui piace scrivere e leggere-, chiederci come scriveremo e leggeremo domani, quando avremo ben appreso ad usare il codice digitale. Che porta con sé una minaccia: chi scrive non lo può dominare con la stessa facilità con cui si domina la scrittura su carta. Ma allo stesso tempo porta con sé nuove virtù. Permette a chi scrive di dominare come mai avrebbe potuto fare scrivendo su carta il testo che sta scrivendo. E permette a chi legge di muoversi nel testo con una libertà impossibile a chi non può far altro che leggere riga dopo riga, pagina dopo pagina.
Riprendo alcune osservazioni di Aaron e di Francesco collegandomi alla scena dei tre personaggi di Ariminum Circus che ha proposto Marco nella sua provocazione iniziale. Ci mostra con chiarezza e in maniera molto diretta una delle possibili traiettorie dell’immediato futuro che ci attende. Alla base, sta un fil rouge che però contesto, costituito da due elementi narrativi:
- la visione distopica della tecnologia, secondo cui se non necessariamente ci ruba il lavoro, tenta almeno di fregarci;
- il fatto che a rimetterci non sia tanto l’oggetto (il libro, di per sé inanimato e dunque piuttosto menefreghista su ciò che succede nel contesto), quanto il professionista (il giornalista, l’autore, nell’accezione più ampia chi lavora con l’oggetto-libro).
Le tecnologie digitali sono esponenziali per definizione e DNA, dunque quando si tratta di muoversi non se lo fanno dire due volte e si fanno ben sentire. Se Facebook fosse utilizzato da un milione di persone, sarebbe un flop colossale. Ciò porta alla necessità di stare all’erta dalle piattaforme digitali: una novità a prima vista lontana dal proprio settore, in poco tempo si trasforma in una minaccia incombente per lo stesso. Proprio perché le piattaforme digitali hanno fame sono ingorde. Ingorde di dati, ingorde del nostro tempo, ingorde della nostra attenzione, ingorde delle nostre vite. Se potessero, ci terrebbero incollati agli schermi 24/7 – e con qualcuno ci riescono anche. Al di là dei risvolti etici di una tale ingordigia, ciò che mi preme è proprio la pervasività dei social network e delle altre soluzioni digitali. Le quali, da ‘semplici’ strumenti per migliorare le nostre comunicazioni, l’organizzazione dei nostri viaggi oppure la nostra vita privata facilitando la ricerca dell’anima gemella, si sono trasformate in paradigmi capaci di farci vedere e vivere il mondo con occhi nuovi. Lo sanno bene i musei delle città pervase di narcisi digitali sempre pronti all’ultimo selfie davanti alla Gioconda, oppure gli architetti, che oggi si vedono giudicare la proposta di progetto non più solo sui parametri di valutazione tradizionali come la qualità dei materiali scelti o la forma del building, ma anche dal fattore Instagrammabilità – ovvero dalla probabilità stimata con cui l’edificio, una volta eretto, verrà effettivamente fotografato e finirà sui feed Instagram di quante più persone possibili.
Insomma, social media e piattaforme digitali oggi plasmano il reale, e diventano l’alfabeto con cui noi il più delle volte leggiamo la quotidianità. Qui, che ci piaccia o meno, rientra anche l’utilità dell’intelligenza artificiale come soluzione che permette la selezione e il filtro intelligente di informazioni nel mare magnum dei contenuti che ci vengono proposti ogni secondo.
Perché, siamo sinceri, spesso le tecnologie digitali ci fanno comodo: non ci lasciamo trasportare da loro perché in balìa di qualche strana stregoneria, ma al contrario perché ci semplificano una vita che già per la quantità e qualità di attività che facciano ci genera affanno. Il collega Cosimo Accoto ha usato alcuni anni fa un’espressione – algo-rythm – proprio a indicare come oggi gli algoritmi, l’AI e il machine learning ‘racchiusi’ in Google Maps, Spotify, Netflix, Facebook e tutti gli altri siano capaci di battere il ritmo del reale, orientandoci in modo più o meno trasparente ed entrando nel profondo del nostro mindset. Ragion per cui noi, oggi, non facciamo differenza tra un ordine Amazon, la fruizione di un film su Netflix o l’esperienza in libreria: certi standard di prodotto e servizio come la disponibilità di un’ampia scelta al minor prezzo, la possibilità di ricevere tutto a casa entro poche ore, l’assenza di file o di altri elementi di frizione, etc. sono trasversali e ormai sempre necessari. In caso contrario, il più delle volte non consideriamo quel prodotto o quel servizio degni della nostra attenzione.
Credo che troppe volte, dietro la dicotomia umano/artificiale, organico/macchinico ci sia ancora una prospettiva, di fondo, antropocentrica. Anche quando tendiamo a immaginarci le macchine o le intelligenze artificiali come delle forze negative destinate a sostituirsi a noi, in fondo pensiamo che la nostra sia la forma di vita più desiderabile. Rispondendo alla provocazione dei tre personaggi di Ariminum Circus con un’altra provocazione, mi chiedo se siamo davvero certi che un’A.I. scriverebbe un libro, così come lo conosciamo e con un linguaggio che gli esseri umani possano comprendere. Mi viene in mente Her, il film di Spike Jonze: alla fine la relazione fra il protagonista e l’assistente vocale finisce, ma non perché lui si rende conto che la “vita reale” (qualunque cosa significhi questa espressione) è meglio di una relazione con un essere virtuale. È “lei”, piuttosto (ma possiamo davvero attribuire un genere a un’A.I.?), a rifuggire una concezione dei rapporti limitante, per abbracciare una condizione dell’esistere e dell’esistere in relazione che il partner umano non riesce nemmeno a concepire. Un’A.I. che si limiti a svolgere compiti per l’uomo non si sostituisce a esso, né, forse, è così inscindibile dalla sua intenzione creativa, e anche dai suoi limiti.
Del resto, ci sono stati già esempi di scrittura elettronica, automatizzata, randomizzata: pensiamo alle sperimentazioni di Balestrini, o alla computer poetry (vedi su questo La breve storia della letteratura elettronica di Paola Carbone, N.d.R.). C’è più creatività e intenzionalità artistica in queste esperienze che in tanta letteratura prodotta da scrittori umani per compiacere il lettore ideale delineato da qualche studio di marketing.
E che dire, poi, dell’empatia che noi esseri umani saremmo più capaci di provare? C’è un bellissimo cortometraggio di Yves Gellie che si intitola L’année du robot e si interroga sull’impiego di “robot da compagnia” per i malati di Alzheimer ricoverati in case di riposo. Mai distratte o annoiate per i comportamenti dei loro interlocutori umani, queste piccole macchine stimolano i pazienti con domande, suonano della musica per intrattenerli o farli ballare: non possiamo certo definirle “più empatiche” di noi, ma è innegabile che siano immuni dall’impazienza e dalla frustrazione che può colpire un operatore sanitario in carne e ossa. O un insegnante: e se un robot risultasse più paziente, più attento, più efficace di noi nell’affrontare le molte situazioni difficili che si presentano nel contesto-classe?
Si tratta, certo, di provocazioni, ma la verità è che la nostra relazione con la tecnologia è più stretta e più profonda di quanto pensiamo. Nel suo libro, La tecnologia che siamo, Francesco Parisi scrive giustamente che “la tecnologia non è semplicemente una presenza ingombrante che influisce sulla vita delle persone, ma può diventare in taluni casi una componente costitutiva della cognizione dell’Homo sapiens come il cervello, il cuore, le mani”. Se quello fra noi e le cose (comprese le tecnologie) è un rapporto di coesistenza basato su equilibri in costante divenire, certi immaginari fantascientifici che tu, Marco, giustamente menzioni, sono il prodotto di fantasie e proiezioni che ci dicono poco sulle cose, e molto sulle ansie che riguardano noi e la società in cui viviamo. Il punto non è se il libro scritto da un’A.I. o il robot-insegnante manchino di qualità che attribuiamo all’umano, ma quali limiti, quali intenzioni – quelle sì, profondamente umane – siano chiamati a soddisfare.
Algo-rythm: è bello giocare con le parole, ma qui c’è dietro un concetto: affidare le nostre scelte, i nostri gusti, il nostro lavoro ad una procedura automatica. Sono d’accordo con Chiara: in quanto esseri umani, credo che dovremmo chiederci “chi ce lo fa fare?”. Nelle Cinque Leggi Bronzee mostro, spero in modo convincente, come Turing fosse privo di fiducia in sé stesso e negli altri esseri umani. Con molti motivi, vista la sua vita sfortunata. Dal profondo della sua depressione progettò un certo tipo di macchina. Ora noi siamo, da quella macchina, costretti a vivere la sua stessa depressione.
Amo la tecnologia, ed una parte della mia attività professionale è strettamente legata all’informatica e alla computer science, ma voglio continuare a considerare la scrittura e la lettura come arti umane, come risposte a bisogni umani e manifestazioni dell’umano desiderio, come ricerca di piacere.
Quindi non mi interessa partecipare a questo gioco nuovista fatto di terminologie inglesi e di immagini di macchine sempre più autonome. Stimo Accoto per la qualità del suo pensiero. Ma per quanto mi riguarda cerco di coltivare la filosofia intendendola come pensiero umano che si interroga sull’essere umano, non sull’essenza della macchina. Pensiero che si situa nel lungo arco della storia umana, senza privilegiare ciò che accade oggi ad Harvard e nella Silicon Valley. Mi sembra che si corra il rischio di ridurre la storia al modesto, minuscolo in fondo, arco di tempo nel quale sembra vigere la cosiddetta Legge di Moore
Ora, dove sta l’arte, dove sta la letteratura? Se accettiamo di collocarci restrittivamente nel tempo della Legge di Moore, non possiamo più concepire la letteratura nella sua vastità e nella sua profondità. Non per gioco dico che Ariminum Circus di Minghetti – come anelito, come tentativo, come recapitolazione – fa parte della gran rete che è la letteratura, è contiguo a Shakespeare e a Proust. Solo se accettiamo questa vastità storica comprendiamo i tempi digitali – e comprendiamo quindi come nei tempi digitali la letteratura è costretta in angustie. Il dominio globale e sempre più ferreo sulla diffusione della letteratura esercitato da Amazon è una situazione politica sulla quale dovremmo riflettere. I vantaggi portati dalle nuove tecnologie hanno un rovescio della medaglia. C’è un pericolo implicito in ogni macchina digitale. Anzi meglio: pericolo implicito in ogni macchina, che appare più gravemente evidente nell’era digitale. C’è il rischio di sostituire la macchina a noi stessi. Leopardi l’aveva capito bene: “Le macchine al cielo emulatrici / crebbero, e tanto cresceranno al tempo / che seguirà”.
Rispetto a tutto questo, la letteratura è la nostra salvezza.
Francesco giustamente ci richiama all’importanza di sviluppare la nostra conversazione in base a definizioni precise. Ora, secondo Choudary, ricordava proprio Cosimo in una intervista a questo blog, una piattaforma è “un modello di business plug-and-play che consente agli utenti e agli oggetti connessi di collegarsi, orchestrandoli attraverso interazioni efficienti”.
In particolare, cito direttamente Cosimo, “il framework dettaglia, con un focus su ambienti crowd-driven, come combinare asset, pratiche di interazione e meccaniche di ingaggio, tool e funzionalità di cocreazione, moneta di scambio e modelli di cattura del valore. Lavorando con un approccio tipico di market design su tre dimensioni (pull – attraggo una crowd che produce; facilitate – agevolo le interazioni sulla piattaforma; match – incrocio con le esigenze di una crowd che consuma), il modello viene raccontato con esempi di realtà come Facebook, Airbnb, Uber, Instagram, ma anche piattaforme meno immediatamente percepite come tali del tipo di Nest, il termostato intelligente acquisito da Google”.
In questo modello, è rilevante la capacità delle piattaforme di attivare dei filtri che possono essere di natura editoriale, algoritmica o social con cui la produzione della crowd viene filtrata (la produzione crowd non è sempre di qualità o mirata) e può arrivare alla crowd che consuma in maniera la più significativa possibile. Pensate, ricorda Cosimo, “a come Airbnb attiva meccanismi di filtro, curation e customizzazione (tag, rating degli utenti, selezione per geolocalizzazione, prezzo, ecc) per fare match tra chi propone una stanza e chi la sta cercando. Naturalmente, la platfirm (neologismo accotiano che indica un'”azienda piattaforma”, N.d.R.) deve prevedere meccanismi di cocreazione del valore, la moneta di scambio (che può essere simbolica o monetaria) e un modello di cattura del valore specifico. Le piattaforme rendono esplicito un modello di creazione del valore che è distribuito tra gli attori coinvolti e in cui l’azienda non è più il (solo) produttore del valore”.
Questo modello consente di centrare l’attenzione sul disegno delle interazioni che si vogliono generare dentro e grazie alla piattaforma. È un approccio “interaction-first”, dice Choudary, che strategicamente si focalizza su “market design” e “behavior design” e che solo dopo passa a ragionare sulle interfacce e sui device, oltre che sull’esperienza che si vuol dare agli utenti.
Non vi seguo nel dar credito a Choudary. Nelle Cinque Leggi Bronzee cerco di mettere in guardia – da un punto di vista umanistico – dal mettere sullo stesso piano esseri umani e cose. E’ una scelta etica che non pretendo sia condivisa. Scelgo di non vedere utenti e oggetti che si connettono alla pari. Scelgo di vedere esseri umani e cittadini che usano strumenti e macchine. Il problema sta nel fatto che gli strumenti e le macchine che i cittadini si trovano ad usare sono costruiti da tecnici che considerano i cittadini come meri utenti. A proposito di piattaforme, inviterei a leggere Benjamin, The Stack. E’ una questione politica: “is changing not only how governments govern, but also what governance even is in the first place”.
Provo a semplificare il tutto: le piattaforme digitali sono ingorde ed esponenziali per DNA, e anche per tale ragione sono entrate in pieno nella nostra vita, ritmandola. Bastano questi primi elementi per farci capire come il digitale sia una cosa molto seria, da comprendere e da sfruttare. Chi non riesce a farlo, semplicemente, è tagliato fuori: dimenticato dalle ricerche web ed etichettato con una reputazione retrò e vetusta, dunque indegno di qualsiasi attenzione sia per i motori di ricerca che per le persone che vivono l’oggi. Proprio questa è la ragione per cui mi preoccupo del futuro del libro: chi guida il settore, in effetti, non sempre sembra comprenderne pienamente la portata, rifugiandosi piuttosto nel mantra secondo cui i lettori non leggono più. Salvo poi assistere all’affermazione di best seller nati su YouTube o di influencer che hanno scritto libri capaci di vendere decine di migliaia di copie raccontando le loro giornate.
Io credo che il momento storico in cui viviamo sia analogo a ciò che successe con la rivoluzione industriale, solamente che questa volta la rivoluzione è informatica. Siamo bombardati da una quantità di informazioni e di prodotti che non siamo in grado né di filtrare, né di gestire, ma ritengo che sia una questione puramente legata al processo di cambiamento che è in atto e che, come tutte le cose che si evolvono, è difficile storicizzare ed analizzare e quindi ci troviamo spesso e volentieri impreparati e non siamo in grado di gestire la mole informatica che ci travolge quotidianamente.
Da creatore di contenuti è davvero stimolante avere molteplici possibilità di sviluppo, ma da utente mi sono trovato più e più volte a dover rimodulare le mie abitudini per far fronte alle miriadi di creazioni che ogni giorno ci vengono offerte. In altre parole, prima di tutto mi viene da riflettere, sempre di più, sull’importanza del contenuto piuttosto che del contenitore.
In questo momento storico essere un fruitore è facile, ma spesso è difficile trovare ciò che veramente merita anche solo un leggero approfondimento e spesso e volentieri ci troviamo incastrati in qualcosa che ha semplicemente il contenitore più “furbo” nel creare affezione. In questi casi è fondamentale riconoscere il contenitore per ciò che è e ricentrarsi sul proprio gusto personale.
Per fare degli esempi, i social network sono dei contenitori facili sia da fruire che da riempire di contenuti, ma è davvero difficile trovare chi li utilizza in modo intelligente e creativo. Personalmente considero i social al pari di altri medium e questo, quando vengono utilizzati “bene” li rende prodotti di pari valore rispetto a libri, film o serie tv.
Mi spiego meglio: un autore di qualsiasi tipo è in grado di prendere un contenitore, renderlo interessante e trasformarlo in un opera artistica vera e propria e mi vengono in mente alcuni utenti Facebook o Twitter che hanno reso il proprio canale una vera e propria opera degna di tale nome. Purtroppo però, proprio per la facilità di utilizzo che li contraddistingue è sempre più difficile trovare chi li utilizza così, mentre è sempre più facile trovare contenuti fastidiosi che tendono ad allontanarci dal medium o a classificarlo nel modo sbagliato.
Lo stesso discorso è applicabile alla serialità televisiva. Io prima di essere regista e produttore sono soprattutto uno spettatore e come tale tendo a cercare qualcosa che catturi la mia attenzione e mi coinvolga. Con le serie TV purtroppo ho vissuto l’esperienza di essere trascinato dentro il meccanismo della dipendenza da prodotti seriali, fino al punto di rendermi conto che era un meccanismo che tendeva ad intrappolarti (esattamente come fanno i social network) e la conseguenza immediata fu il rigetto. Per molti anni non ho voluto vedere serie, per poi ricordarmi che anche in questo caso si trattava solo di un contenitore e che come tale poteva anche contenere qualcosa di molto alto.
L’errore che si tende a fare è proprio quello di essere tranchant e tendere a chiudersi a delle forme di espressione che in realtà hanno solo la colpa di essere state saturate da molti prodotti “sbagliati”. Sicuramente i filtri creati dalle AI hanno a cuore interessi molto distanti dall’arte, proprio perché il loro obiettivo è quello del profitto e questo sicuramente tende a condizionare un pubblico più rilassato.
Come dicevo per i social network, così anche le serie TV (soprattutto quelle presenti su piattaforme on demand), si sono riempite di contenuti scadenti (leggevo che solo nel 2019 sono state prodotte oltre diecimila nuove serie nel mondo) che hanno in qualche modo condizionato la reputazione del contenitore stesso, ma ribadisco che in realtà si trova tantissimo materiale di altissima qualità che ha il solo difetto di essere in minoranza e quindi più invisibile rispetto ad altro che magari è stato pensato proprio per creare un meccanismo di dipendenza. È normale quindi che un utente possa stare intere serate a scorrere la timeline di Instagram piuttosto che guardarsi un film, semplicemente perché quell’utilizzo semplice ed immediato è irrobustito da algoritmi che hanno solo l’interesse di tenerti lì e bombardarti di informazioni commerciali.
Ritornando al discorso iniziale, credo che sia in atto una vera e propria rivoluzione informatica e che in un futuro prossimo le cose miglioreranno e verrano regolamentate, anche solo come naturale evoluzione del fenomeno. È quasi assurdo dirlo, ma è evidente che non esiste il tempo materiale per poter fruire tutto ciò che ci viene proposto, anche concentrandosi su un solo medium (solo nel cinema si parla di 16.000 nuovi film all’anno). È quindi necessario costruirsi un sistema di filtraggio che ci aiuti a districarci in questa giungla di informazioni. Credo quindi che il modo migliore sia quello dell’approfondimento individuale e l’individuazione di “mentori” che ci guidino in qualche modo: ma persone reali, non algoritmi.
Proprio come stiamo facendo noi, anche i personaggi di Ariminum Circus continuano a ragionare di tecnoentusiamo e neoluddismo fino a tarda notte. Uno di loro, “un consulente con la faccia da serial killer””, osserva: “mentre i lettori e gli appassionati amano Amazon, gli Scrittori la odiano perché ne considerano la strategia commerciale una deplorevole concessione alle ragioni del mercato. E anche i giornalisti: non credete che trascurino di cogliere le enormi possibilità offerte dalla tecnologia? Utilizzando l’Intelligenza Artificiale per comporre articoli come quelli sugli andamenti economici o i risultati sportivi, si potrebbe ottenere più tempo da dedicare a inchieste di approfondimento basate sull’elaborazione delle tante informazioni che oggi, grazie a Internet, sono disponibili. Quanti altri scandali tipo Cambridge Analytica potrebbero venire a galla?”. Un altro incalza: “E che dire poi del panico degli “esperti” di letteratura di fronte all’intelligenza collettiva sprigionata dal Web? Dell’avversione verso il digitale di intellettuali diversi come Jonathan Franzen, Thomas Pynchon, Tom Wolfe, James Patterson o Evgeny Morozov?”.
Di neoluddismo e tecnoentusiasmo applicato al mondo editoriale abbiamo discusso in particolare con Luca Formenton nella prima conversazione di questa serie. A me, come al Piccolo Ed di Ariminum Circus “sembra che quegli intellettuali rovesciano la realtà: accusano Internet di favorire la stupidità diffusa, ma l’uso che fanno del mezzo per antonomasia finalizzato al rimbambimento di massa, la televisione generalista, per vendere i propri libri, ne dimostra l’ipocrisia. È una situazione che torna nel corso dei secoli: l’idea che il “mondo sia fuori di sesto” legittima coloro che dicono di ricordare un’epoca nella quale il mondo non lo era e possono vendere i loro ricordi (ovvero la conoscenza di un canone tradizionale). Si tratta di una patologia che va oltre la fobia verso il nuovo. Qualcuno la ha definita “l’antica paranoia dello sciamano”: l’ansia del medicine man, del santone che vede sfuggirgli il controllo dell’immaginazione collettiva della tribù di fronte ad anonimi infermieri armati di endofoni e vaccini. E questo è ancora niente. Algoritmi sofisticati potranno essere usati per selezionare i manoscritti che arrivano in una casa editrice oppure per misurare la popolarità social di un Autore. Lo stesso Autore potrà essere pagato con il sistema blockchain”.
Almeno per quanto riguarda la mia esperienza di Direttore di Collana e autore, gli scrittori adorano Amazon, per due principali ragioni.
In primis, Amazon è ormai l’unico strumento di marketing e commerciale in loro possesso, rafforzandone inoltre il personal brand e soddisfacendo il desiderio personale di vendere quante più copie possibili. Amazon imposta infatti le campagne di advertising del libro, i suoi algoritmi negoziano 1-to-1 in maniera automatizzata e in tempo reale il miglior prezzo per il singolo potenziale acquirente, salvo poi rincorrerlo attraverso retargeting e remarketing nel caso il deal non vada a buon fine. La customer-centricity di Amazon spinge addirittura la piattaforma a vendere sottocosto, pur di vendere (dunque raccogliere dati, dunque profilare). Tutto questo viene fatto senza chiedere un centesimo all’autore. Secondariamente, Amazon è oggi una delle piattaforme di self-publishing più potenti ed efficaci al mondo, e sempre più autori stanno pensando all’auto-produzione delle proprie opere. Se l’Editore mette la fama, la reputazione, la storicità, l’expertise delle proprie risorse (Editor, Proof Reader, …), nonché la possibilità ancora romantica e di grande presa di raccontare al proprio network di essere stati pubblicati, Amazon per contro mette una percentuale di royalties – se non sbaglio, intorno al 50% – semplicemente inavvicinabile.
Si tratta in tutti i casi di meccanismi delicati, complessi e soprattutto molto veloci. Per qualcuno, troppo: che il personaggio del romanzo di Marco citava, sia da parte di chi vende, che da parte di chi scrive.
Rispetto a chi vende, ricordo bene le parole di un libraio conosciuto a un evento a cui ho partecipato alcuni mesi fa, che mi disse più o meno questa frase: “negli anni ‘70 decisi di vendere libri perché solo il 25% degli italiani leggeva: mi pareva ci fossero praterie commerciali infinite per saturare il restante 75%. Oggi, questa percentuale è in realtà minore di 40 anni fa”. Potrebbe sembrare una riflessione sensata: ma avreste dovuto vedere l’affanno dello stesso libraio a rispondere alle email, o anche solo a comprendere quali libri portare per il banchetto di quell’evento in funzione degli argomenti trattati. Insomma, il tema mi pare abbia sempre lo stesso ritornello – man mano, molti di noi escono dal mercato perché non si aggiornano o rimangono curiosi, e appena se ne accorgono invece di cercare di recuperare si barricano dietro al passato, irrigidendosi. Solo che oggi questo ritornello viene accelerato a un ritmo mai visto prima e l’obsolescenza è dietro l’angolo.
Meccanismo identico ma speculare riguarda e travolge gli autori. È probabile che sempre più avremo autori artificiali, almeno stando ai risultati delle nuove ricerche che vedono le macchine creative affiancare sempre più spesso gli storyteller in carne e ossa. D’altronde, già siamo abituati a interagire in altri ambiti con content creator artificiali (ma per nulla artificiosi, anzi, più empatici e relazionali di molti esseri umani): penso all’enorme successo di una computer-generated influencer come @lilmiquela, disegnata al pc ma capace di veicolare attraverso il suo piano editoriale Instagram i più importanti temi sociali e politici – da ultimo, il movimento #BlackLivesMatter. Certamente, al di là di chi scrive, AI e big data devono aiutarci a comprendere i temi più caldi e di maggiore interesse su cui orientare le opere e i dibattiti degli autori – senza scomodare Data Scientist e AI Expert come nuovi talent scout, anche solo attraverso un semplice (ma smart) utilizzo di Google Trends, una corretta analisi delle conversazioni condivise su LinkedIn o di altre soluzioni capaci di fare ordine nel content continuum.
Sotto questo punto di vista mi trovo perfettamente d’accordo con Marco e Alberto (e il Piccolo Ed!). Sono una di quelle che tende a sfruttare la tecnologia, ove possibile, per arrivare più rapidamente all’obiettivo, proprio perché penso che lo strumento, il mezzo, debba essere ben distinto dal contenuto, come accennavo poco sopra (e qui mi ritrovo con quanto diceva Omar). Dunque, ben venga Amazon, ben venga l’Intelligenza Artificiale che ci aiuti a comporre articoli su andamenti economici e risultati sportivi, ben vengano tutte le informazioni disponibili sul Web per organizzare più velocemente un articolo, un saggio breve, un documento che riporti dei dati oggettivi a sostegno di una tesi. Torno sullo stesso punto, forse, ma credo sia il fulcro di tutto il discorso e anche di quel che riguarda, ad esempio, il mondo dei social network. Marco citava la televisione come strumento di “rimbambimento di massa” per eccellenza, perché è così che viene, anzi veniva vista giusto fino all’altro ieri; oggi abbiamo “sostituito” la tv con il magico mondo “dell’Internet”, attribuendo ad uno strumento di comunicazione un valore contenutistico che non possiede e gridando “al lupo, al lupo”, com’è ovvio, in faccia alla novità. Perché, diciamolo, l’Italia è il Paese per eccellenza in cui il Nuovo incute più timore del Già visto, già sentito e già testato come pericoloso. Pensate che questo accadeva perfino con il romanzo – che in Italia arrivò piuttosto tardi –, considerato un genere per la borghesia, niente a che vedere con la nobiltà, scherziamo?
Lavoro molto su Instagram, in cui parlo e scrivo di libri attraverso il microblogging, e in molti mi chiedono: può la Letteratura dialogare apertamente con i Social? Mio Dio, certo che può! È come se chiedessi ad uno chef: possono le patate dialogare con la vaporiera anziché col forno impostato a duecento gradi? Certo che sì. In entrambi i casi la patata resterà tale, cambierà soltanto il metodo di cottura. La confusione abissale che si è venuta a creare tra forma e contenuto, fra mezzo e significato, è deleteria tanto per chi crede che il Web, i Social o le piattaforme di discussione online siano il male assoluto, e tanto per chi è convinto che non occorra più possedere una base “analogica” di partenza per sviluppare un’altezza “digitale”. Bisogna distinguere i due piani: a Moravia non verrà mai sottratta nobiltà letteraria solo perché acquistiamo Gli indifferenti su Amazon o perché li fotografiamo per postarli su Instagram, né gli scrittori possono nascondersi dietro a un dito: bellissime e gloriose le recensioni sui grandi quotidiani, ma il passaparola che si scatena sul Web molto spesso è di gran lunga più efficace. Meno schizzinosità e più realismo.
Tutto giusto, forse, però io credo che ci siano alcuni elementi di negatività che è bene non nascondere. In particolare, a mio avviso, il “sistema di raccomandazione” che domina nel mondo dei social network e delle varie piattaforme streaming o di ecommerce, su cui prima Giulia scherzosamente minimizzava, è il “male assoluto” (o quasi).
Marco, citando Cosimo Accoto, ci ha spiegato tecnicamente come l’algoritmo che regola questo sistema si basa sui comportamenti che abbiamo sul web e come, in base a ciò che vede (che non combacia quasi mai, o molto raramente, con chi siamo in realtà), ci suggerisce ciò che potrebbe interessarci, con il solo scopo di tenerci su quella piattaforma e mostrarci ai pubblicitari. Ecco perché tendo a stare molto alla larga da tutto il “sistema di raccomandazione” che permea i due medium su cui mi sono soffermato in questa conversazione, i social e le serie tv.
In tutto ciò, purtroppo, chi ne esce con le ossa più rotte sono proprio i medium tradizionali che richiedono una fruizione più attiva, come per esempio leggere un libro o guardare un film. Ho sentito ripetere tantissime volte la frase «non sono riuscito a vedere quel film perché è troppo lungo» quando si parlava di una pellicola di poco più di due ore da persone che magari si guardano cinque o sei puntate da un’ora di una serie tv. Oppure di persone che “non hanno tempo”, ma che trascorrono sei o sette ore sui social network. Ritengo quindi molto importante imparare a conoscere molto bene tutti i vari medium per poi capire individualmente cosa è più adatto a noi.
Tuttavia, il bombardamento di informazioni costante al quale siamo soggetti non rende semplice l’analisi e la riflessione su ciò che sta succedendo. Come dicevo a riguardo del filtraggio, credo che il miglior antidoto sia il ritorno al rapporto umano. Rimanendo nell’ambito cinematografico, la figura del videotecaro (che purtroppo sta scomparendo) è sicuramente più importante dell’algoritmo di Netflix che mi suggerisce nuovi contenuti da fruire in base a ciò che ho visto. Oppure il proprietario di una piccola libreria, per quanto confuso sull’uso delle nuove tecnologie come quello in cui si è imbattuto Alberto, è sicuramente più incisivo dell’algoritmo di Amazon. Prima di tutto perché ci può essere un confronto vero sui propri gusti e non un calcolo su un comportamento che non può tenere conto di tutti i fattori necessari a capire effettivamente cosa può o non può piacermi. Per fare un esempio, può capitare di addormentarsi più volte davanti allo stesso film e magari il film non ci è piaciuto, ma non mettiamo la valutazione. Per l’algoritmo ci è piaciuto tanto da rivederlo più volte o ha capito che l’ho dovuto riavviare perché mi addormentavo?
Provo a introdurre alcuni distinguo. Non sono tra quelli che demonizzano l’IA né Internet né, in generale, la pervasività delle nuove tecnologie. Ci mancherebbe altro! Nei loro confronti adotto una postura critica ma dialogante.
Ci sono però delle evidenze riguardanti l’utilizzo del libro (e ancor di più del libro scolastico) che a mio avviso è bene ribadire. Tali evidenze dicono, per esempio, che la lettura del libro cartaceo favorisca più di quanto non faccia la lettura digitale l’apprendimento profondo. Non sono un esperto di neuroscienze, per quanto mi piaccia seguire il dibattito in corso; tuttavia, sperimento su di me questi concetti semplici e mi paiono plausibili. Ancora, la migliore ricerca scientifica non ha ancora dimostrato impatti significativi sui processi di apprendimento delle nuove tecnologie. C’è invece evidenza che i risultati migliorano quando la formazione all’utilizzo delle nuove tecnologie rivolta ai docenti è più spinta e diffusa e quando le pratiche di insegnamento adottano modelli misti, in presenza – mediati dal docente, anche con l’utilizzo delle tecnologie – e a distanza, anche senza la mediazione del docente e del libro di testo, con un utilizzo spinto di contenuti digitali, meglio se guidato e strutturato. Insomma, il design progettuale – lo stesso su cui si basa la costruzione del libro scolastico – continua ad essere il punto di riferimento indispensabile, con e senza tecnologia.
Quanto all’utilizzo degli algoritmi per la selezione dei manoscritti, è sicuramente una pratica plausibile, soprattutto – e mi riferisco al libro scolastico – con riferimento alle dimensioni richiamate prima: accessibilità dei contenuti, rischi di plagio, reputazione e influenza dell’autore nella comunità scolastica.
Comprendo diverse delle ragioni dei luddisti e dei tecnoentusiasti. Trovo che parlare di “instupidimento” delle generazioni cresciute con le tecnologie digitali sia riduttivo, però è altrettanto innegabile che facciamo fatica ad adattare i percorsi di didattica, di crescita e di formazione alla velocità con cui si modificano le nostre capacità cognitive nella relazione con le nuove tecnologie. La verità è che, rispetto alla produzione culturale, il web si configura come luogo di infinita apertura del testo: troviamo comunità e gruppi di lettura che si scambiano opinioni, interpretazioni, chiavi di lettura; circolano forme di appropriazione e riuso, remix e remake alla base delle quali c’è un’attività critico-interpretativa che non si può ignorare; ci sono, insomma, forme di apprendimento condiviso e meno gerarchico. Ma internet è anche luogo di ripetizione dell’identico, di conferma della propria opinione, di pigra accettazione che siano altri a dettare la nostra agenda culturale. Ma quando imputiamo certi meccanismi agli algoritmi rischiamo di anonimizzare, e in qualche modo occultare, il fatto che dietro gli algoritmi ci siano interessi fin troppo umani: un sistema economico, delle leggi di mercato, dei colossi industriali che, fra le altre cose, nell’illusione dell’infinità disponibilità tendono a celare un altro aspetto, forse quello davvero problematico, delle loro infrastrutture e delle piattaforme online: il fatto, cioè, che siano finalizzate a “chiudere” il testo impedendone la manipolazione e la condivisione (provate a fare anche solo lo screenshot di un frame da un film su Netflix: coi browser più comuni non è possibile!), per includerlo invece in percorsi di fruizione e in catene di associazioni predeterminate, e finalizzate a ulteriori acquisti.
Diventa fondamentale, a questo punto, non rifuggire la tecnologia, ma piegarla a usi “tattici”, per rifarci a quanto scrive De Certeau ne L’invenzione del quotidiano: se le strategie dell’industria culturale consistono nel delimitare e governare un “luogo proprio”, un perimetro entro il quale esercitare il proprio potere e forme di controllo, le tattiche hanno “come luogo solo quello dell’altro”, ed è quindi su un terreno comune che bisogna giocarsi la possibilità di sovvertire le regole, e non semplicemente di pascolare in recinti tecnologici che altri hanno creato per noi.
Nel corso della prima conversazione di questa serie, ricordavo che la frase con cui si presenta Alice nell’incipit del Wonderland è: “A che serve un libro senza immagini e conversazioni?” Questo è il pensiero di una bambina del 1862 che potrebbe essere quello di una persona appartenente alla generazione dei nati dopo il 1996, quando si assiste all’esplosione di Internet, e ancor più dopo il 2006 (anno che segna l’avvento dei social media e del web 2.0), per cui l’ambiente naturale di comunicazione e apprendimento è costituito da videogiochi e instant messaging. Alice è loro contemporanea fin dalla scena di apertura del libro che ne narra le avventure nel Paese delle Meraviglie, dove la sua prima azione è al tempo stesso una azione mentale e una re-azione: un atto di sfida alle modalità tradizionali di apprendimento, verso cui la più giudiziosa sorella maggiore cerca di instradarla. Questo almeno secondo la versione di Walt Disney del 1951, che forse avrete visto, come tantissimi di noi. In realtà, nell’originale carrolliano la sorella maggiore, che è immersa nella lettura del suo libro, offre un modello di comportamento, ma ignora totalmente la bambina. Proprio come ignorati e disprezzati dagli “adulti” sono oggi i ragazzi con i loro Instagram, Tik-Tok, Snapchat, Spotify, Minecraft, Call of duty, League of legends… chiacchiere e immagini prive di senso, per moltissimi ultraventenni. Puro “nonsense”.
Ma, osserva l’Alice disneyana: “If I had a world of my own, everything would be nonsense.” Un mondo da cui noi “tardivi digitali” siamo esclusi, come sembra indicare la porticina di accesso a Wonderland, cruna di un ago insuperabile per chi è troppo cresciuto. O non sa trovare il coraggio di resettare la propria identità mordendo la mela (ricordate il logo della Apple!) delle nuove conoscenze – o, nel caso di Alice, mangiando una misteriosa fetta di torta e bevendo il contenuto di una bottiglietta, che a mo’ di istruzioni recano solo le scritte EAT ME e DRINK ME… ma consentono una user esperience decisamente straordinaria!
Fuor di metafora, sostenevo nel post precedente su questo tema, l’esperienza straordinaria è data dalla possibilità offerta dal social networking di diventare protagonisti attivi delle immagini e delle conversazioni, come lo è Alice. Ma un blog può sostituire un diario cartaceo? L’esperienza di lettura solitaria può essere scambiata con il social reading? L’istantaneità cui ci stanno abituando i vari Messanger, TikTok, Whatsapp che impatto ha sulla scrittura di un libro, oggi?
Per risponderti, integro da un lato la prospettiva di Alessandro Baricco, che tu hai del resto già proposto in tempi non sospetti nell’ambito del progetto Alice Postmoderna (cfr. Alice la Barbara) contenuta ne I Barbari – questo popolo che descrive metaforicamente le nuove generazioni, così strane nei modi nei costumi rispetto a quello che era accaduto fino al 2000 – con l’affascinante pensiero di Kevin Kelly, secondo cui “nel regno digitale immateriale, dove nulla è statico o fisso, tutto è in divenire, anche il libro diventa un librare”. Proprio questa trovo sia la chiave di lettura dei libri, e degli autori di successo oggi: capire la contemporaneità – per definizione mutevole, e quasi mai facile per noi esseri umani restii ai cambiamenti – e portarla dentro man mano al libro, che diventa dunque un perpetuo divenire.
Il paradosso del libro è forse questo: da un lato esso nel suo nocciolo rimane un’opera, un oggetto, un artefatto statico da appoggiare sopra al comodino o in libreria – anche la versione digitale, in effetti, è contenuta in un ‘oggetto’ materiale come un e-reader – ma dall’altro deve avere un contorno sfumato e dinamico, capace di prendere la forma dello spirito dei tempi. Una volta (e in realtà tutt’ora) c’erano le ristampe e le edizioni aggiornate che scandivano tale ritmo, ma oggi deve essere tutto molto più fluido e scorrevole, immateriale e on-demand. Anche perché le storie che facevano presa anche solo qualche anno fa, oggi sono bollate come ‘roba da anziani’. Pensa che chi studia i giovani e la iGeneration parla di neo nostalgia, ovvero della nostalgia di un tempo che in realtà è troppo vicino per poter provare… una reale nostalgia.
Un esempio è la grande nostalgia che hanno i giovanissimi d’oggi per il 2016 – ripeto, il 2016! – a loro dire l’età d’oro della musica trap. Alla luce di questi fenomeni, capiamo cosa può sembrare ai loro occhi il Libro Cuore. Il libro deve allora snellirsi, prendere vita, diventare mobile. Trasformarsi una serie di riflessioni pubblicate su Medium, nonché un progetto cross-mediale di tweet o insta-letteratura, come del resto stiamo facendo noi proprio in questo momento, incrociando Kelly con il tuo progetto multicanale Alice Postmoderna e Ariminum Circus, un romanzo in corso di scrittura sul social network letterario Typee: tutto questo sul blog di NOVA100. In modo simile, e sempre diverso, in divenire appunto, da singoli capitoli di un libro possono nascere articoli di riflessione o anche corsi, tour, addirittura vere e proprie startup.
Un libro non più da sfogliare ma da vivere, se è vero – come ci raccontano i sociologi da una quarantina di anni – che sempre meno noi ci accontentiamo di fruire passivamente di qualcosa. Al contrario vogliamo viverla da protagonisti, darci il nostro imprinting: il libro e l’autore devono allora imparare da altri settori, perché i concorrenti non sono più altri titoli e altri autori. Sono i progetti editoriali fatti dai content creator su TikTok, sono i soldi dedicati allo Spritz piuttosto che a 150 pagine di contenuti, sono le partire in modalità multi-gamer permesse dagli e-games contemporanei.
Questo è un tema davvero interessante, che ci permette di riflettere sulla dimensione sociale e collaborativa dell’apprendimento e sul ruolo che, rispetto a questa dimensione, ancora può avere il libro (di testo). Quanto dicevano Marco e Alberto rappresenta la premessa indispensabile per sviluppare il ragionamento nel mio contesto di riferimento: il libro scolastico già oggi è un dispositivo che accoglie dentro di sé diverse forme narrative e sollecita differenti modalità di ingaggio e di coinvolgimento, attraverso una molteplicità di canali (piattaforme digitali, software, applicazioni, Internet …). Con altre parole, già oggi il libro scolastico è al centro di un ecosistema costituito da molte risorse.
Venendo alle domande poste, invece, credo che non solo i modelli di social networking, bensì l’uso delle tecnologie (anche quelle più avanzate) in generale possa/potrà contribuire in modo formidabile allo spostamento del baricentro delle pratiche di insegnamento/apprendimento verso lo studente, rendendolo finalmente protagonista. Nel recepire, rielaborare, connettere, restituire, condividere. Insomma, anche questi verbi – come quelli di Kelly – hanno la loro pregnanza …
Il blog può sostituire il diario cartaceo? Perché mai? Io preferisco pensare sempre in termini di affiancamento, confronto; a un processo di acquisizione di competenze ampio, che includa modi, strumenti, canali differenti.
E il social reading? Intanto, cominciamo a dire che già esistono nel mercato scolastico piattaforme dedicate a questa pratica. Anche in questo caso, tuttavia, rischieremmo un approccio riduttivo se pensassimo in termini di sostituzione/alternativa. Credo infatti che, oltre a una dimensione sociale e “collaborativa” della lettura, ne esista una, altrettanto profonda e necessaria, legata alla sfera individuale. Che dire poi delle numerosissime esperienze di incontro fisico tra autori e lettori di cui le scuole sono ogni giorno testimoni (oggi, ovviamente, meno, a causa dell’emergenza sanitaria)? O ancora alla pratica diffusa, soprattutto nella scuola primaria, di atelier di lettura espressiva, senza mediazioni tecnologiche se non quella della voce di uno scrittore o di un maestro …
Per ultimo, il tema dell’influenza sulla scrittura contemporanea delle pratiche digitali legate all’istante, al momento colto nella sua immediatezza. Se penso alla scrittura del libro scolastico, potrei dire in generale che la struttura del discorso e dell’argomentazione ha subito una semplificazione notevole. Ciò che notiamo, e che i docenti ci dicono, è che le capacità attentive e di concentrazione degli studenti sono molto diminuite. Di conseguenza, la scrittura si sforza sempre di più di mantenere standard di accessibilità molto alti. Di contro, sono aumentate le interazioni tra la parola scritta e l’immagine così come i media digitali integrati nel testo. Da questo punto di vista il libro scolastico può contare su un indubbio vantaggio rispetto al libro tradizionale, essendo al centro – come abbiamo detto prima – di un vero e proprio ecosistema.
Nel quadro che stiamo delineando, Aaron ha toccato una tematica importante, che vorrei ulteriormente analizzare: la velocità con cui l’accesso a qualsiasi medium diventa consumer.
Venti anni fa fare foto e video era una passione relegata a pochi appassionati. Oggi chiunque ha in mano uno strumento che permette la realizzazione non solo di foto, ma di veri e proprio lungometraggi. Questa facilità di accesso non ha certo ampliato il panorama di “buoni prodotti”, anzi. Per fare un esempio con un tema a me molto caro, negli ultimi anni si è affacciato nel panorama dei linguaggi audiovisivi quello della realtà virtuale (su questo vedi anche la serie di post pubblicati in occasione del VRE Festival 2020, ndr).
Da produttore e regista mi sono trovato subito a volermi confrontare con questo nuovo mezzo e dopo un grande investimento di risorse, sia temporali che economiche, ho iniziato a proporre i miei contenuti, frutto di tanto studio e tanti errori. Purtroppo però, nel giro di pochissimo tempo, la tecnologia è andata così veloce che ha trasformato ciò che richiedeva tempi lunghissimi di progettazione e realizzazione in qualcosa di super accessibile. Oggi con poche centinaia di euro è possibile comprare una telecamera che permette di realizzare un contenuto immersivo in pochi passaggi e senza grossi “sbattimenti”. Peccato però che la grammatica di questo linguaggio sia ancora da scrivere ed analizzare e quindi ci siamo trovati in pochissimo tempo ad avere a disposizione migliaia di prodotti scadenti e mal realizzati che hanno inquinato il “mercato”. Come osserva Jay nell’Episodio di Ariminum Circus L’Ante e il Retro, mentre cerca di fare un primo piano alla sorella di Daisy: “Connessi in rete con smartphone dotati di mille funzioni per la modifica dell’immagine (togliere gli occhi rossi, sbiancare i denti, migliorare la texture della pelle: come faceva Helen con il suo corpo reale, si disse Jay) e filtri dagli effetti stravaganti (mai quanto i tatuaggi di Daisy!), gli ariminensi si credevano tutti degli Steve McCurry; invece, benché la fotografia sia un linguaggio universale, c’erano molti analfabeti. Quanti sapevano che le diverse tipologie fotografiche – ritratto, paesaggio, documentazione – affondano le radici nella pittura di Vermeer, Rothko, Kandinskij, Mondrian?”.
E c’è anche un’altra questione. Mi è capitato di sentirmi dire da molte persone di non voler provare la realtà virtuale perché ciò che avevano visto gli aveva creato nausea o comunque l’esperienza che avevano avuto era stata negativa, quando in realtà si trattava semplicemente di prodotti che avevano errori alla base che, con un minimo di esperienza, si riescono ad evitare. Questo avvalora la tesi che un’apertura troppo prematura, mossa solo dal volersi prendere uno spazio commerciale da parte delle case di produzione di hardware, ha in realtà fatto più danni che benefici all’industria del cinema in realtà virtuale.
Concludendo credo che sia necessario un ritorno ad un filtro umano, basato sull’empatia, in tutte le varie forme di comunicazione e informazione, cercando di scegliere la strada più tortuosa piuttosto che la più semplice e veloce della raccomandazione digitale: quella che passa per una conoscenza molto approfondita dei vari medium, proprio perché ogni contenuto ha il giusto medium per arrivare al cuore del fruitore finale, che si trattino di poche battute come un tweet, di un film di sei ore o di un videogame (che può avere pari dignità di un capolavoro della letteratura).
Torniamo al libro e alle considerazioni di Aaron: sì, un blog può sostituire un diario cartaceo, ma resta il fatto che l’esperienza di scrittura manuale conserva delle potenzialità che nessun tipo di scrittura digitale potrà mai avere. Non ne faccio solo una questione sentimentale, ma proprio scientifica. La scrittura manuale ci offre la possibilità di riordinare i pensieri e di far fluire le idee in modo molto più libero e armonico, per il semplice fatto che l’atto meccanico del disegno della parola su carta permette al cervello di memorizzare e mettere meglio a fuoco il concetto che vogliamo esprimere. Niente poesia, questa è neuroscienza.
Per quanto riguarda invece l’esperienza di lettura solitaria e il social reading… Beh, permettetemi di dire che, secondo me, si tratta di due mondi completamente diversi. Vero è che al centro di tutto c’è la lettura, ma nel momento in cui fai social reading, ovvero “porti” un libro sui social e inizi a discuterne, non viene più contemplato l’atto del singolo ma diventa condivisione. Il social reading è un modo per condividere una passione e confrontarsi con altri lettori, ma la lettura è ben altra cosa: implica solitudine, concentrazione, attivazione di uno spirito critico che nasce prima in solitaria, appunto, e poi può essere condiviso con terze persone.
Se pensiamo invece all’istantaneità della messaggistica e alla scrittura di un libro, il discorso cambia ancora. Da un lato, ha inciso molto il modo in cui comunichiamo oggi attraverso Whatsapp, Telegram o i direct sul processo di scrittura e di organizzazione dei capitoli, dei periodi, perfino sullo stile. Frasi brevi, talvolta disarmoniche, in qualche caso addirittura pagine semi vuote (su questo, vedi anche Come Scrivere una Lettera d’Amore, ndr). Può sembrare una sciocchezza, ma lo stile di vita e l’approccio alla comunicazione, incidono fortemente sulla nostra percezione letteraria, sul gusto e sulle aspettative. Dall’altro lato, invece, credo che dal punto di vista strettamente materiale, il continuo bombardamento della messaggistica odierna, il fatto che non venga più contemplata l’irreperibilità né un ipotetico “assenteismo” dalla rete di comunicazione social, sta creando forti disagi allo scrittore contemporaneo. Tornando al discorso iniziale e al perché non credo sia possibile una meccanizzazione del libro (non dell’oggetto libro, eh), ritengo che lo scrittore abbia bisogno di un habitat sociale molto più tranquillo di quello a cui si espone oggi, un luogo fisico e mentale in cui poter scomparire senza tener conto di essere sempre sul pezzo in tempi rapidissimi. Meno schiavitù da tweet, più scrittura (in solitaria).
Devo confessare che nel mio ambito di ricerca, quello del cinema e dell’audiovisivo, il problema di Alice, cioè quello dell’assenza di immagini nei libri, è stato e continua a essere centrale. Scrivere di immagini significa, inevitabilmente, tradurre l’iconico in linguaggio verbale, e accettare che molti aspetti dell’esperienza di visione rimangano “lost in translation”. È evidente, perciò, che io guardi con molto interesse alle possibilità del libro di farsi testo inter e multimediale, anche se non basta, a mio avviso, dotare una pubblicazione tradizionale di un sito e qualche link. Il dialogo fra testo e immagine deve consistere in un’integrazione dialettica di codici e di linguaggi. Integrazione a cui, del resto, siamo già abituati: anche se oggi ci troviamo di fronte a una proliferazione di immagini senza precedenti, non assistiamo alla scomparsa del testo scritto. Si scrive, anzi, ovunque, perfino sulle foto che scattiamo o sui video che giriamo (pensiamo alle Instagram Stories).
Certo, si tratta di forme di scrittura differenti da quelle realizzate a mano o con la macchina da scrivere, su carta: la sequenzialità e la linearità di pensiero a cui il mezzo ti costringeva vengono superate dalla malleabilità del testo digitale. Chi è cresciuto con le tecnologie digitali si illude, perciò, di poter usare una lingua altrettanto duttile e sgangherata: provate a dire a uno studente che un testo che ha scritto manca di una struttura coerente e di nessi logici chiari, vi risponderà che “tanto si capisce lo stesso”. Può darsi che sia così, ma se abdicassimo del tutto a quelle norme linguistiche nate e codificate prima dell’avvento del digitale, perderemmo anche la possibilità di leggere, capire, interpretare, conoscere la produzione culturale del passato.
Per preservarne la memoria, però, non giova demonizzare gli strumenti digitali o la produzione culturale e creativa dell’oggi, come purtroppo avviene in tanti luoghi e contesti di formazione, perché si è convinti a priori che il passato sia meglio del presente, che la didattica vada fatta “come si faceva una volta”, oppure perché si dà per scontato che per un utilizzo consapevole degli strumenti digitali basti solo l’autoapprendimento. Bisogna ripensare seriamente l’educazione digitale, affidarne la pianificazione e l’insegnamento a persone davvero competenti. Bisogna accettare che la didattica non sia solo trasmissione, ma uno scambio, un processo in cui i ruoli possono rovesciarsi. E per rendere possibile e fruttuoso questo dialogo è indispensabile progettare strumenti e percorsi di lettura e di formazione che integrino davvero più linguaggi, che spalanchino orizzonti, avventure cognitive, Wonderlands da cui fare ritorno con occhi nuovi.
Certo però attenzione, Giulia parla giustamente di “libro, non dell’oggetto libro”. “Libro”, “libro del futuro”. C’è un equivoco, credo, in quello che ci stiamo dicendo. Equivoco generato dalla fervida urgenza con la quale parlano i personaggi di Ariminum Circus.
Parlando in forma breve, nel calore di una amichevole discussione, diciamo “libro”. Ma intendiamo: “testo”. Mi spiego: il testo è una porzione della rete letteraria, rete che connette ogni opera di ogni autore e di ogni tempo. Rete di influenze: ogni testo rimanda ad ogni altro testo. Rete che tiene insieme i testi di ogni autore e di ogni tempo. Omero, che codificava il suo testo nella propria memoria appartiene alla stessa rete di Shakespeare che scriveva su carta e di Minghetti che scrive su codice digitale.
Il libro non è che un mero oggetto, che in una epoca storica è stato lo strumento principale per la conservazione di letteratura. Un oggetto costituito da elementi precisi: copertina, pagine rilegate o incollate. Parlare di libri, è anche parlare di e-book. L’e-book non comporta in sostanza nessun avanzamento, nessuna sostanziale differenza rispetto al libro, lo ricordava anche Luca Formenton nella prima conversazione di questa serie. E’ la copia, l’imitazione digitale del libro cartaceo. Ha qualche piccolo vantaggio sul libro cartaceo: la possibilità di cercare una parola dentro il testo, una sorta di indice dei nomi evoluto. Ma non comporta nulla di diverso. Così il tempo dell’e-book non è che la coda del tempo del libro.
Immagine di Marcello Minghetti