Autonomia e Autosviluppo in una Social Organization – Alice annotata 44

Alice dalì


Autosviluppo e progettazione individuale

Prima di sviluppare un excursus sul tema dell’Empatia (cfr. L’empatia come fondamento di un Mondo Vitale – Alice annotata 42), avevamo lasciato la nostra Alice alle prese con  la minaccia di incendiare la casa da lei   “abusivamente” occupata, lanciata come extrema ratio dal Bianconiglio, dopo il fallimento del “Piano Strategico” del Dodo, conclusosi con il tragicomico volo della lucertolina Bill (vedi Il Modello Comando e Controllo – Alice annotata 40).

Alice riesce con un bluff (evocando il fantasma della sua gattina) a ridurre gli oppositori a più miti consigli: l’incendio della casa si trasforma in una pioggia di confetti, mangiando un po’ dei quali la bambina torna a dimensioni che le consentono di uscire dalla casetta e fuggire: “Appena comparve Alice, tutti le si scagliarono contro; ma la fanciulla si mise a correre più velocemente che le fu possibile, e riparò incolume in un  folto bosco.

‘La prima cosa che dovrò fare, — pensò Alice, vagando nel bosco, — è di ricrescere e giungere alla mia statura normale; la seconda, di trovare la via per entrare in quel bel giardino. Credo che non ci sia altro di meglio da fare'”.

L’evoluzione della situazione consente di mettere in luce una caratteristica tipica di Alice, quella che le consente di uscire di uscire brillantamente dalle situazioni pericolose e potenzialmente letali in cui spesso si imbatte: la capacità di prendere decisioni in maniera autonoma e di sviluppare dei piani di azione mirati a degli obiettivi da lei stessa individuati.

Una capacità in netto contrasto con la stupidità organizzata messa in moto dal modello del Comando e Controllo che porterebbe il fantozziano Bianconiglio a bruciare la sua stessa casa pur di far sloggiare la “mostruosa” Alice.

Stupidità che fa il paio con la paura che governa ogni suo comportamento, tanto che anche in questo caso basta pochissimo per spaventarlo.

Non diversamente molti ottusi Scientific Manager stanno facendo andare a fuoco le aziende pubbliche e private di cui sono responsabili, pur di opporsi all’innovazione che potrebbero portare le nuove logiche del lavoro collaborativo che temono tremendamente, anche perchè non le conoscono, e di cui i giovani, oggi esclusi dal mercato del lavoro, sarebbe i più efficaci implementatori.

L’Autonomia necessaria a fare emergere  nuove logiche collaborative

Fortunatamente però le cose stanno cambiando. “L’approccio del programma educativo è basato sull’autosviluppo e sulla progettazione individuale del proprio percorso formativo”.

Questa affermazione del Direttore Personale e Organizzazione di Heineken, che rappresenta una ottima lettura delle avventure di Alice, certamente iscrivibile nel quadro dei “romanzi di formazione” (cfr. Alice Nativa Digitale – Alice annotata 5),  sarebbe sottoscritta da tutti coloro che stanno spingendo sull’adozione di modelli di Social Learning.

Il che significa porre l’Autonomia fra i principi fondativi della Social Organization. Ovvero la libertà di agire da soli, di prendere decisioni senza la necessità di specifica direzione o di approvazione da livelli più elevati di gestione.

Il Web ha dato agli individui gli strumenti che  consentono loro di agire in modo indipendente. Dove in passato la  gestione è stata strutturata attorno al  modello del comando   e controllo, sostengono gli esperti di Hackathon, le aziende di oggi devono sapere esprimere un  principio più profondo e più potente di libertà per gli individui nelle loro organizzazioni.

E’ esattamente quanto affermavamo già nel Manifesto dello Humanistic Management: “Le persone – si legge nell’Ottava Variazione Impermanente – cercano nel posto di lavoro un ambiente meraviglioso dove poter costruire qualcosa di nuovo, creativo, artistico, dove l’accoglienza, l’atmosfera, l’avventura siano garantite.

Se dovessimo allora indicare un singolo fattore motivazionale cui riportare a un fondamento comune le due alternative, apparentemente antitetiche, indicate – una che muove dall’Umanesimo più estetizzante e inteso come territorio dell’armonia, degli equilibri, dell’uomo misura di tutte le cose, l’altra che scopre la versatilità umana, ambigua e tormentata, non nel perfetto corpo divaricato della famosa immagine leonardesca, quanto guardandone l’espressione corrucciata, tesa, insoddisfatta – esso potrebbe essere l’Autonomia, resa possibile da condizioni organizzative di Agio e dalla possibilità di realizzare la massima Autoespressione, valore umanistico per eccellenza.

Operare lungo la traccia epistemologica dell’Autonomia implica che l’impresa accetti e faccia sua una visione che non prospetta una   descrizione definitiva e onnicomprensiva degli attori organizzativi. In cui la gestione aziendale è interessata a seguire, sul piano dell’esperienza diretta, quali caratteristiche specifiche gli esseri umani possono sviluppare. E’ una  gestione della vita vivente e non della vita statica. Gli esseri umani conservano la loro autonomia, mutando in coerenza con le proprie caratteristiche vitali: il contesto manageriale può avviare, favorire, ma non costituire in toto il loro cammino evolutivo.

Resta così aperta per gli esseri umani una crescita della propria auto-organizzazione, senza una  necessaria connessione all’idea di un programma predefinito dettato. Dalla prospettiva dell’Autonomia si vede con chiarezza che le imprese devono andare a costituire uno spazio nel quale le  singolarità diverse trovino ospitalità in un collettivo comunitario.

Agio è il nome proprio di questo spazio irrappresentabile; il termine agio indica infatti, secondo il suo etimo, lo spazio accanto (ad-jacens, adjacentia), il luogo vuoto in cui è possibile per ciascuno muoversi liberamente, in una costellazione semantica in cui la prossimità spaziale confina col compito opportuno (ad-agio, aver agio) e la comodità con la giusta relazione. Agio come luogo da raggiungere, dove i singoli possono esprimersi attraverso quel «libero uso del proprio» che, secondo un’espressione di Hölderlin, è il «compito più difficile».

Se il riconoscimento è il bisogno individuale emergente nella società contemporanea, la libera Autoespressione è la motivazione individuale fondamentale; un mix gestionale qualitativo, riconoscente, con capacità di contenimento, dei fattori che caratterizzano gli attuali contesti di lavoro, è la   condizione, per così dire irrinunciabile, perché l’Autoespressione del sé da possibilità divenga emergenza quotidiana”.

Vedi su questo anche una  bella sintesi video disponibile su YouTube del lavoro di Daniel Pink che letteralmente dimostra come l’incentivo materiale, nel caso specifico il denaro, non riesca a rispondere alla domanda di senso della persona come forza che la muove a dare il meglio di se.

Cosa ancora più paradossale è l’asserzione, supportata da studi scientifici, di  come  in casi in cui il compito richieda componenti di creatività  e  problem   solving, la ricompensa in denaro diventa addirittura un elemento di disturbo fortissimo. Cosa invece “libera” valore? Autonomia,  padronanza  e  scopo. Elementi che sono fondanti il modello della Social Organization.

Autonomia e autenticità

In questo quadro, scrivo in  Una  via umanistica a Facebook, “i Social Network come Facebook (ma questo vale anche per le piattaforme di Enterprise 2.0 interne alle aziende), se riescono a sfuggire ai rischi opposti dell’appiattimento digitale sul “mero reale”, da una parte, e dell’ossessiva compulsione ad apparire a tutti ed in ogni luogo sempre-e-comunque nella propria dimensione più luminosa, apollinea e superficiale, dall’altra, con la conseguente entropia di ogni possibile significato autentico, offrono a ciascuno la possibilità di rendere più profondo e articolato il proprio modello espressivo.

Pensiamo a Omero: avendo a disposizione una memoria elettronica, il modello compositivo fondato sul montaggio di blocchi standard avrebbe potuto essere portato a più alti livelli di complessità e tutte le possibilità combinatorie teoricamente previste dal modello avrebbero potuto essere esplorate.

E questo non viola l’autonomia dell’autore: ogni autore resta se stesso, libero di “chiudere” il testo come vuole: ovvero di comprendere, o di escludere, materiali narrativi e piste di lettura. Insomma: usando un word processor, Omero, come Dante o Proust, si sarebbe trovato a disposizione una più vasta    gamma di materiali coerenti con il suo progetto, un repertorio più vasto di  collegamenti tra gli elementi, senza che ciò venisse a togliere la facoltà di scegliere, confezionando una redazione finale, alcuni materiali, alcuni collegamenti.

Vale l’analogia: come l’autore vede potenziata dall’information technology la sua autonomia creativa, altrettanto fa il manager. Le informazioni e le conoscenze non sono più chiuse in procedure, ma plasticamente messe a disposizione del decisore. Del creatore di mondi. L’individualità, la     multi-individualità, è in entrambi i casi incrementata dalla protesi tecnologica”.

Accettare la sfida della  social organization significa partire dal riconoscimento dell’Autonomia individuale.

Solo la libera, autonoma,  adesione del singolo alla value proposition della community aziendale può accendere la fiamma dell’Engagement. Anche per questo occorre sottrarsi all’influsso di quello Scientific  Management che fu inaugurato da Taylor cento anni fa. “Pur nella varietà delle sue interpretazioni, i caposaldi dello Scientific Management sono, in breve sintesi, il primato della specializzazione funzionale, del principio gerarchico, degli obiettivi individuali, dell’orientamento al controllo, con una cultura diffusa nelle organizzazioni a coltivare standard interni per la valutazione del raggiungimento dei diversi compiti primari.

Le organizzazioni ispirate e gestite attraverso le prospettive paradigmatiche dello Scientific Management si pongono come soggetti collettivi compatti, orientati da una razionalità piena, con una forte capacità previsiva e una visione lineare/sequenziale del processo decisionale.

Autonomia e sensemaking

Ma la condizione strutturale necessaria per la declinazione di tali paradigmi è la stabilità: con la progressiva accelerazione dei tempi del cambiamento e la necessità per le organizzazioni di essere permanentemente“mutanti”, gli strumenti di previsione, valutazione e controllo classici    sono    stati    messi pesantemente in discussione.

L’organizzazione vincente – suggerisce ad esempio Kevin Kelly nel suo libro programmaticamente intitolato Out  of Control, che ha inaugurato un certo tipo di analisi con troppa fretta relegata fra il pattume pubblicistico della new economy:

a) è  una rete fatta di nodi autonomi e cooperanti;

b) non risponde a una funzione di  comando centralizzata;

c) è in grado di autoprogettarsi. L’aporia del management  contemporaneo diverrebbe quella di essere capace di perdere il controllo dell’organizzazione, sapendone conservare la guida.

Ci permettiamo dunque di sollevare quantomeno il dubbio che l’impresa contemporanea operi tanto più efficacemente quanto più “leggero” è il sistema di governo. Il sospetto è che l’adeguamento a un ordine predefinito e declinato in termini di rigidi e capillari strumenti di comando, valutazione e controllo rischia di atrofizzare la forza differenziatrice dell’organizzazione, che è proporzionale al grado di autonomia delle    sue    sinapsi,  rendendola più vulnerabile.

Sospetto che si rafforza se pensiamo all’organizzazione come sforzo collettivo di generazione di senso e contesto discorsivo privilegiato.  Secondo la prospettiva del  sensemaking  di Karl   Weichessa chiarisce i propri obiettivi e i ruoli delle parti coinvolte – diciamo: esplicita il proprio progetto – solo al termine del percorso discorsivo, non all’inizio.

Il manager, quindi, cessa di essere    colui    che detta i significati al resto dell’organizzazione, colui che fornisce la corretta interpretazione degli obiettivi, dei ruoli e delle funzioni, magari attraverso un processo di envisioning più o meno  manipolatorio, che dovrebbe essere sostituito da un approccio più vicino alla maieutica socratica.

Si tratta di rinunciare alla proposizione di un ordine dettagliato, sostituita dalla diffusione di una “Vision” tale da consentire, tramite l’attivazione riflessiva e dialogica di tutte le persone che operano nell’impresa, l’adempimento della imprescindibile missione manageriale che resta pur duplice:  favorire il conseguimento degli obiettivi dell’organizzazione, ma coniugandoli con quelli di autorealizzazione e autosviluppo delle persone che in essa lavorano.

E’ il cuore di ciò che da anni chiamiamo “humanistic management“.

Il modello organizzativo che ispira lo scientific management è olistico, totalitario, definitivo, prescrittivo, fondato sulla centralità del comando, su modelli,  procedure e “best practices”,  su un’attenzione ossessiva ai processi di esecuzione, sul controllo.

Per usare le parole di  Wislawa SzymborskaFinge di non tralasciare nulla,/di concentrare, includere, contenere e avere (Tutto).

Viceversa, lo humanistic management è partecipativo, impermanente, fondato sulla convivialità, su uno “stare insieme per”, sulla delega agli individui e l’imprenditorialità diffusa, sulla “governance” di sistema e non sul “controllo” di dettaglio: nella convinzione  che l’illusione di poter contenere “tutto” oggi più che mai si rivela tale” (in Da Le Città Invisibili… a Le Aziende InVisibili, 21. Nascondimento, parte seconda).

Autonomia e narrazioni

E’ quanto accade al Kublai di Calvino, di cui il Fordgates de Le Aziende InVisibili  è la controfigura. “Come molti manager odierni, anche Kublai avverte la tentazione di sottrarsi alla fatica del  sensemaking.

Marco parla, ma Kublai sembra talvolta stanco di leggere i suoi racconti e vorrebbe stringere una volta per tutte il suo impero in una     formula, averlo come un possesso chiuso per sempre: la vecchia utopia, si sottolinea in  apertura di Nulla  due volte,  dello scientific manager come di quei generali romani  immaginati da Szymborska che si sentono minacciati “da ogni nuovo orizzonte” e che, di fronte alla minaccia, non sanno che andare ciecamente avanti, nella certezza disperata che “il mondo prima o poi deve pur finire” (Voci).

Allo stesso modo, nonostante la sua ammirazione per il giovane veneziano, Kublai non sopporta la trama aperta delle sue narrazioni e vorrebbe cose  dove  invece sono soltanto parole, proprio come i responsabili delle organizzazioni descritte ne Le cose e  le  parole. Ma, come osserva Marco Polo, «non si deve mai confondere la città con il discorso che la descrive».

Per sfuggire al rischio del non senso Kublai tenta diverse strade, come diverse sono state le incarnazioni dello scientific management nel suo secolo di storia. Ad esempio ad un certo punto dice: “La mente del gran Kan partiva per suo conto e smontava le città pezzo per pezzo, le ricostruiva in un altro modo, sostituendo ingredienti spostandoli, invertendoli – D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, tu  verificherai se esistono e se sono come le ho pensate”.

L’intento dell’imperatore è quello di proporre schemi e modelli, da smontare e ricostruire, combinandone e variandone le strutture interne, conferendo ad essi (e non ai singoli individui)  una sostanziale autonomia funzionalistica, schemi d’ordine a cui tutto deve essere ricondotto. La situazione da cui avevamo preso le mosse  si è ribaltata: non è più l’esperienza, ma il potere combinatorio e  intellettuale a garantire la mappa su cui poi dover ritrovare l’esperienza  medesima.

Abbiamo così Zobeide, città sognata e poi costruita, città quasi familiare poiché prevista, ma anche città brutta, città trappola. Che  ne è infatti di questa proposta? Il sistema prevale cancellando le ragioni dell’esperienza, la costruzione si trasforma, come in Zobeide, in trappola, in  inganno fine a se stesso” (in Dalle Città Invisibili alle Aziende In-Visibili. 3b. Segni – parte seconda).

Alice annotata 44. Continua.

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