“What is the use of a book without pictures or conversations?”, si chiede Alice, accovacciata vicino alla sorella maggiore sulla riva di un fiume, metafora antichissima di cambiamento, nell’incipit di un testo che, insieme al suo sequel, delle acque della mutazione è completamento imbevuto, pur traendo le sue fonti dalle più pure sorgenti del pensiero occidentale.
Wonderland emerge dagli stessi flutti su cui veleggiano i cacciatori dello Snark (il mitico discendente dello Jabberwocky (che torna anche nel Wikiromance Racconti invernali da spiaggia) dunque un animale forse marino che discende da un leggendario drago alato, come si conviene alla logica rovesciata di Carroll, che inverte anche le sequenze dell’evoluzione darwiniana [i]) e che bagnano le coste di Utopia (quindi della Repubblica platonica), ponendosi nella corrente della tradizione educativa anglosassone, secondo cui le conoscenze possono e devono tradursi in pratica.
L’opera capostipite in epoca moderna di questa tradizione è, chiaramente, il Robinson Crusoe. Nell’Ottocento proliferavano i libri che vedevano protagonisti uomini – anche ragazzi o bambini – alle prese con un ambiente ostile e sconosciuto. Questa produzione romanzesca si mescola con quella che Celati (con riferimento a Dickens in particolare) mette in relazione alla piaga dilagante dello sfruttamento del lavoro minorile [ii], che oggi, in epoca di globalizzazione, si ripropone nei Paesi in via di sviluppo con modalità non dissimili da quelle che si erano determinate in Inghilterra durante la Rivoluzione industriale. Sta di fatto che la maggior parte di queste opere, di attitudine ottimistica e idillica, mostra i valori di autosufficienza e aggiogamento del paesaggio propri di Crusoe, aggiungendovi quello della cooperazione di gruppo, ad esempio in The Coral Island. A Tale of the Pacific Ocean di R.M. Ballantyne. Un secolo più tardi, ci ricorda Meddemmen [iii], W. Golding avrebbe rovesciato questa attitudine nel suo celebre The Lord of Flies.
Ma Alice anticipa di gran lunga ogni rovesciamento. Una bambina e non un maschietto come protagonista di un romanzo di formazione individuale che fa pratica di un mondo dove tutte le regole, a partire da quelle della fisica, sono rovesciate! Wonderland, mobile Iperuranio a testa in giù (“How funny it’ll seem to come out among the people that walk with their heads downward! The Antipathies, I think”, rimugina nel suo precipitare, senza mai smettere di conversare con se stessa) in cui per prima cosa Alice apprende che, come ha scritto il Premio Nobel Wislawa Szymborska, l’impossibile è possibile: “you see, so many out-of-the-way things had happened lately, that Alice had begun to think that very few things indeed were really impossible”. Ad esempio, è possibile un contesto sociale dominato dalle donne (La Regina Rossa, la Duchessa, la stessa Alice….) ed in cui le figure maschili sono figure subalterne (il Re, il Coniglio Bianco) o mutanti (lo Stregatto, il Brucaliffo) o letteralmente fuori di testa (come, con sublime ironia carrolliana, il Cappellaio. Matto, appunto).
Ma che bambina è la nostra Alice postmoderna? Raffaele Simone ha sostenuto che il processo di “creazione del bambino” iniziato nel secolo XIX “ha la sua acme tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento. La psicologia dello sviluppo e dell’educazione (Dewey, Piagete Bruner in testa), le teologie della liberazione, il montessorismo con le pedagogie aperte, la pediatria “liberale” (alla Benjamin Spock; qualcuno si ricorda di lui?) e, naturalmente, la psicoanalisi lo hanno posto via via al centro della scena come soggetto autonomo, da trattare non come un adulto in scala ridotta, ma come un individuo con proprie dinamiche, forme di intelligenza, emotività, sofferenze e diritti”.
Tuttavia, prosegue Simone, questa stagione è durata poco a causa dell’avvento del “bambino globale”, “in cui il tratto più inquietante è l’emulazione anticipata e sfrontata dell’adulto: consumismo affluente, polemica contrapposizione ai grandi (che può arrivare al dileggio degli adulti e degli anziani), relativa indifferenza al bene comune, anticipazione generalizzata (nei ragazzi) delle prime esperienze sessuali e della droga, spostamento dell’attenzione dalla scuola verso il mondo esterno, e così via, con effetti che si accentuano nella fase successiva, quando il “bambino” diventa un “giovane”… Così in un certo senso ripete, su un altro asse, quel che succedeva prima della modernità: dapprima il bambino era un piccolo adulto da sfruttare, ora è tornato a essere un piccolo adulto, ma protagonista, consumista e egocentrico (con l’aiuto dei genitori). In altre parole, l’epoca in cui il bambino occidentale era davvero un bambino è durata appena dagli anni Settanta alla fine del ventesimo secolo, poco più di un lampo…”[iv].
Ho riportato questa analisi perché è tipica di un modo di affrontare il tema dell’infanzia un po’ alla Totò Fabrizi e i giovani d’oggi senza neppure considerare la conseguenza più eclatante dell’avvento del web 2.0. : l’arrivo dei barbari evocati da Baricco, I Nativi Digitali. Chi sono questi giovanissimi nati e cresciuti a rivoluzione internet compiuta? Una buona sintesi la troviamo in un post di Serena Danna, Il Regno (Wonderland?, ndr) dei Nativi Digitali.[v]
«Frequentano gli schermi interattivi fin dalla nascita», spiega qui Paolo Ferri, docente di Tecnologie didattiche e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università Bicocca di Milano, «e considerano internet il principale strumento di reperimento, condivisione e gestione dell’informazione». È la prima generazione (che oggi ha tra gli 0 e i 12 anni: manco a dirlo, l’età di Alice) veramente hitech, che pensa, apprende e conosce in maniera differente dai suoi fratelli maggiori. «Se per noi imparare significava leggere-studiare-ripetere, per i bambini cresciuti con i videogames vuol dire innanzitutto risolvere i problemi in maniera attiva», prosegue, che studia e promuove da anni il «digital learning». I bambini cresciuti con consolle e cellulare sono «abituati a vedere la risoluzione di compiti cognitivi come un problema pragmatico», aggiunge Lynn Clark direttrice dell’Estlow International Center for Journalism and New Media dell’Università di Denver (Usa) che ha condotto un progetto di ricerca su 300 famiglie americane per capire come se la cavano con i media digitali. «Grazie ai videogiochi, il sapere dei bambini si nutre di simboli, sfide e modelli sempre diversi di narrazione», sostiene Clark, che avrebbe senza dubbio incontrato l’approvazione di Lewis Carroll, infaticabile realizzatore di giochi per insegnare matematica e logica ai bambini basati su narratività, grafica e interattività. «Se qualcosa può essere visto, ascoltato, suonato, perché dovrebbe essere raccontato a parole?», si chiede Paolo Ferri. Proprio la stessa domanda che si fa Alice.
Alice annotata 5. Continua.
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[i] The hunting of the snark, Lewis Carrol, Macmillan, 1876.
[ii] Celati, Alice disambientata, pp. 49-53.
[iii] John Meddemmen, Enciclopedie, isole deserte, bambole, Arcipelago Edizioni, Milano, 2010
[iv] Il culto del bambino, 03 agosto 2011 — pagina 40 sezione: Cultura La repubblica