Wislawa Szymborska: l’odio, Maestro del contrasto

L'odio

Odiare o amare?

Dopo avere parlato di amore, proseguiamo nel nostro percorso all’interno della poesia di Wislawa Szymborska soffermandoci sul sentimento opposto: l’odio. Quale dei due è il più universale? L’odio ha dalla sua parecchi argomenti e, nella poesia che gli dedica, il nostro Premio Nobel li presenta con la sua impareggiabile capacità di mescolare orrore ed ironia, distacco dalle cose terrene ed intima compassione per il genere umano.

L’odio

Guardate com’e’ sempre efficiente,
come si mantiene in forma
nel nostro secolo l’odio.
Con quanta facilità supera gli ostacoli.
Come gli e’ facile avventarsi, agguantare.

Non e’ come gli altri sentimenti.
Insieme più vecchio e più giovane di loro.
Da solo genera le cause
che lo fanno nascere.
Se si addormenta,il suo non e’ mai un sonno eterno.
L’insonnia non lo indebolisce,ma lo rafforza.

Religione o non religione-
purché ci si inginocchi per il via.
Patria o no-
purché si scatti alla partenza.
Anche la giustizia va bene,  all’inizio.
Poi corre tutto solo.
L’odio. L’odio.
Una smorfia di estasi amorosa
gli deforma il viso.

Oh, questi altri sentimenti-

malaticci e fiacchi.
Da quando la fratellanza
può contare sulle folle?
La compassione e’mai
giunta prima al traguardo?
Il dubbio quanti volenterosi trascina?
Lui solo trascina, che sa il fatto suo.

Capace, sveglio, molto laborioso.
Occorre dire quante canzoni ha composto?
Quante pagine ha scritto nei libri di storia?
Quanti tappeti umani ha disteso
su quante piazze, stadi?

Diciamoci la verità:
sa creare bellezza.
Splendidi i suoi bagliori nella notte nera.
Magnifiche le nubi degli scoppi nell’alba rosata.
Innegabile e’ il pathos delle rovine
e l’umorismo grasso
della colonna che vigorosa le sovrasta. 

E’ un maestro del contrasto
tra fracasso e silenzio,
tra sangue rosso e neve bianca.

E soprattutto non lo annoia mai
il motivo del lindo carnefice
sopra la vittima insozzata

In ogni instante e’ pronto a nuovi compiti.
Se deve aspettare, aspetterà.
Lo dicono cieco. Cieco?
Ha la vista acuta del cecchino
e guarda risoluto al futuro
– lui solo.

La motivazione più forte

In una intervista Szymborska ricorda “una poesia sull’odio, che non riguardava un attimo particolare, dal momento che purtroppo l’odio  in quanto tale ha sempre accompagnato l’umanità, e per quel che mi sembra di capire non ha nessuna intenzione di scomparire. Certo, la poesia in questione prendeva le mosse da un evento specifico – erano i giorni in cui cominciava la guerra in Serbia – e questo ne fu il motivo scatenante, la spinta. Ma non sono versi intrappolati in quel contesto, perché toccano il tema più ampio dell’odio fra gli uomini, fra consanguinei…non ha fine l’odio, non ha fine il razzismo, e, ripeto, purtroppo quella poesia rimarrà attuale”. E non si può negare che l’odio nelle sue varie declinazioni (ira, accanimento, furore, livore)  sembra avere sempre la meglio: pare affermarsi come la motivazione più forte, che è servita persino, nota Szymborska, a creare capolavori fondamentali nella storia dell’umanità (difficile dimenticare che il primo grande poema della letteratura occidentale comincia con le parole “Cantami, o diva,  l’ira del Pelide Achille”). Secondo Girard, questo non è che un nome dato al motore immobile delle interrelazioni sociali: l’invidia (cfr. Wislawa Szymborska: felicità individuale e invidia collettiva -nella vita privata e in quella aziendale). La sua opinione  è che esse si fondano su un conflitto  scaturente dal desiderio di essere un altro, attraverso il possesso di ciò che l’altro, assunto come modello, possiede.

Di diverso avviso è l’Ecclesiaste, che è anche l’unico autore citato da Szymborska nel discorso di accettazione del Nobel (a parte un doveroso tributo alla allora fresca morte di Joseph Brodskij), e a cui dedica una ampia riflessione, in quanto lo reputa “uno dei poeti più importanti”. Egli è “autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano” (peraltro definita da Stendhal  “il sentimento opposto all’amore”, quasi fosse la forma più pura di odio). Questo è il vento rincorso dalle azioni degli esseri umani, benché non vi sia nulla che li renda ridicoli più di frequente. Per quanto saldo possa sembrare, ogni uomo non è che vanità. I suoi giorni non sono che dolore, la sua occupazione non è che fastidio; perfino la notte il suo cuore non ha posa. Eppure, dice l’Ecclesiaste, anche questo è vanità (il drago è la vanità in questa nostra valle,  scrive Szymborska in Hania). Un filosofo ha osservato che le ferite che le si fanno non sono mai molto gravi e tuttavia non guariscono facilmente; così come i servigi che le si rendono sono tra i più fittizi, eppure lasciano una riconoscenza duratura. Un altro modo elegante per indicarne la pervasività è la massima di La Rochefoucauld, secondo cui ciò che rende insopportabile la vanità degli altri è il fatto che offende la nostra.

A ben vedere, però, i due punti di vista non sono così lontani, se si considera che il vanitoso vuole in fin dei conti essere invidiato. Prendiamo il caso del Sogno shakesperiano. Lisandro non cerca tanto l’amore di Elena o di Ermione: desidera ogni volta vantare la sua superiorità sessuale su Demetrio, suscitando una speculare reazione invidiosa. Lo stesso vale per gli altri:  la ripetuta applicazione dello schema, per cui ogni attacco vanitoso è seguito dal relativo contropiede invidioso, al culmine della notte  raggiunge il diapason, portandoli sull’orlo dell’annientamento collettivo. Risentimento contro volontà di potenza? Può darsi, ma non facciamola troppo difficile. Basta riportare i rapporti umani ai minimi termini:  la  vanità   genera l’invidia, che subito vuol schiacciarla sotto i propri piedi, così come l’invidia sollecita la ripartenza della vanità. Ogni fatica e tutta l’abilità messe in un lavoro non sono così che  invidia dell’uno contro l’altro. Anche l’invidia è insomma  vanità, un correre dietro al vento dei propri desideri, in un continuo ribaltamento del fronte di gioco, un circolo vizioso che si autoalimenta fino a distruggere uno o tutti i partecipanti allo scontro. Triplice fischio. That’s all, folks.

Natural born killers

Sembrerebbe  insomma  aver ragione chi vede nella pulsione di morte la mano invisibile che regola l’economia dei rapporti fra gli esseri umani, natural born killers.  L’Odio diventa così il propulsore del futuro. Lo sapeva bene Shakespeare, il cui capolavoro assoluto ruota attorno al  desiderio di vendetta. Lo sapeva bene Melville, che bene ha saputo guardare dietro la smorfia di estasi amorosa del capitano Achab alla caccia della Balena Bianca. Lo sanno bene tutti coloro che vivono in mezzo ai mille meschini conflitti che deturpano le relazioni umane in tutti i contesti organizzativi, dai più piccoli ai più grandi. O quanti assistono annichiliti allo spettacolo dell’assurdo mondo che sull’Odio è stato edificato e che si srotola come i fotogrammi di un film dell’orrore:

Il terrorista ha già attraversato la strada.

Questa distanza lo protegge da ogni male,

e poi la vista è come al cinema:

 

Una donna ha già attraversato la strada.

Un uomo con gli occhiali scuri, lui esce.

Ragazzi in jeans, loro parlano.

Le tredici e diciassette e quattro secondi.

Quello più basso è fortunato e sale sulla vespa,

quello più alto invece entra.

 

Le tredici e diciassette e quaranta secondi.

La ragazza, lei cammina con un nastro verde nei capelli.

Ma quell’autobus d’improvviso la nasconde.

La ragazza non c’è più.

Se è stata così stupida da entrare, oppure no,

si vedrà quando li porteranno fuori.

 

Le tredici e diciannove.

Più nessuno che entri, pare.

Invece esce un grassone calvo.

Sembra che si frughi nelle tasche e

alle tredici e venti meno dieci secondi

rientra a cercare i suoi miseri guanti.

 

Sono le tredici e venti.

Il tempo, come scorre lentamente.

Deve essere ora.

No, non ancora.

Sì, ora.

La bomba, lei esplode.

(Il terrorista, lui guarda)

Noi e loro

Ma quale è il tratto distintivo dell’Odio, quello che lo porta a rivestire un ruolo predominante nei rapporti umani? E’ decisivo rispondere a tale questione, se si vuole coltivare qualche speranza di trovare un antidoto ad esso e quindi generare “mondi vitali” felici, conviviali. Szymborska ci viene in aiuto anche in questo caso: l’Odio è così centrale nella storia della società umana perché è il “maestro del contrasto”. Ed il nostro tempo è più che mai segnato dal Contrasto: sempre meno ricchi sempre più ricchi  e sempre più poveri sempre più poveri, Nord e Sud, Paesi (pochi) con accesso alle nuove tecnologie e Continenti (interi) cui mancano le strutture fondamentali alla sopravvivenza, opposti fanatismi, scontro delle civiltà, sviluppo scientifico che entra in rotta di collisione con la riflessione etica. E tutto questo alle nostre latitudini viene enfatizzato dalla eterna difesa egoistica del proprio particulare a scapito dell’interesse generale:  manipoli di taxisti che tengono in ostaggio intere città, abitanti di una valle che impediscono lo sviluppo economico di una intera Nazione, lavoratori ipergarantiti contro masse crescenti di giovani precari e ultraquarantenni espulsi dal mercato del lavoro…   

Us, and them

And after all we’re only ordinary men.

Me, and you.

God only knows it’s not what we would choose to do.

Black and blue

And who knows which is which and who is who.

Up and down.

But in the end it’s only round and round.

Down and out

It can’t be helped but there’s a lot of it about.

With, without.

And who’ll deny it’s what the fighting’s all about?

(Pink Floyd, Us and Them, in The dark side of the moon, 1973)

Io e te, noi e loro, avere e non avere:  conseguenze di un approccio dicotomico che è centrale nella costruzione e nel consolidamento del concetto di modernità,  tempo della separazione per eccellenza, poiché sorge dalle divisioni innestate dalla scienza nel ‘500 e riconosce nella meditazione cartesiana il riferimento non solo simbolico. Sembra di conseguenza morire anche la com-passione, la capacità di patire insieme, di avere cura del prossimo, di farsi carico  dei suoi affanni, ovvero quel “tacito trapassare dall’io al noi”, “quel forte senso degli altri”, che anche  secondo Pietro Marchesani caratterizza la sensibilità di Szymborska:

 

CHIUNQUE sappia dove sia finita

la compassione (l’immaginazione del cuore)

si faccia avanti! si faccia avanti!

RIPRISTINO l’amore.

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Scrivere a: Sogno.

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negli ospizi. Si prega

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Conferma Bauman: “In uno dei popolarissimi manuali di «autopprendimento» tra i più famosi (ha venduto oltre 5 milioni di copie sin dalla sua pubblicazione nel 1987), Melody Beattie ammonisce/consiglia i suoi lettori: «Il modo più sicuro per impazzire è farsi coinvolgere negli affari altrui, e il modo più sicuro per essere sani e felici e farsi gli affari propri». Il libro deve il suo successo al titolo (E liberati dagli altri), che ben ne riassume la tesi di fondo”.

Moderno e postmoderno

E’ vero che, sotto il peso eccessivo del Contrasto, la modernità, dopo il disastro del secondo conflitto mondiale,  ha ceduto il passo a nuove forme di economia, di cultura, di convivenza centrate su creatività ed estetica. Fattori di mutamento come il progresso tecnologico (elettronica, informatica, nuove energie, nuovi materiali, laser, biotecnologie, farmacologia), lo sviluppo organizzativo, la globalizzazione, i mass media, la scolarizzazione di massa hanno determinato conseguenze socio-economiche rilevanti, fra cui: l’allungamento della vita media degli individui, la destrutturazione del tempo e dello spazio, l’emergere di nuovi valori, di nuovi soggetti sociali, di nuovi lussi. Se però la postmodernità, da una parte, è il venir meno della forza ordinatrice della modernità, dall’altra si configura come un modello di riferimento alternativo che, almeno in parte, non ha realizzato pienamente le sue promesse o, quantomeno, ha messo in luce delle contraddizioni. Ne stiamo esplorando alcune valenze insieme alla nostra Alice Postmoderna. Tuttavia occorre riconoscere che l’idea che la creatività, l’estetica e l’etica possano diventare dominanti si è dimostrata inconciliabile con elementi quali il prevalere dell’economia sulla politica, della finanza sull’economia, della globalizzazione sull’identità: fino a determinare quelle vere e proprie “patologie sociali”, denunciate da fenomeni come ad esempio, negli Stati Uniti, la crescente mobilità verso mansioni sempre più dequalificate e il raddoppio della popolazione carceraria in poco più di vent’anni. Mentre la globalizzazione ottiene un effetto omologante, le società e i loro immaginari collettivi si frammentano in sottogruppi. La massificazione gareggia con la soggettività. Il Contrasto, cacciato dalla porta, rientra dalla classica finestra.

Nel mondo imprenditoriale  il Contrasto si è realizzato nell’affermazione di un modello fordista basato sull’opposizione fra controllori e controllati, nonché fra pianificazione e controllo, su comando ed esecuzione, sulla divisione del lavoro fra funzioni, unità organizzative e singole “risorse” umane, sulla competitività esasperata all’interno dell’impresa e sul mercato fra le imprese stesse, sull’omologazione imposta all’unicità creativa. Appare evidente la stridente inadeguatezza di un tale procedere al cospetto di  un mondo complesso nonché in rapido e continuo mutamento nel tempo e nello spazio. E vero che, come  scrive Bauman, si sta per certi versi verificando “la «rivoluzione manageriale, fase due», surrettiziamente condotta all’insegna del ‘neoliberalismo’: i dirigenti sono passati dalla ‘regolazione normativa’ alla ‘seduzione’, dal controllo quotidiano alle pubbliche relazioni, dall’imperturbabile, iperregolato e routinario modello di potere panoptico, al dominio esercitato attraverso l’incertezza diffusa e sfocata, attraverso la precarietà e uno sconvolgimento incessante e scombinato della routine”. Ma il problema è che  “la fase due” della rivoluzione manageriale convive con la “fase uno” in maniera schizofrenica, contradditoria, irrazionale. Contrastante, appunto. Entrambe le rivoluzioni poi portano alla scomparsa delle distinzioni, dunque delle diversità: l’una perché fondata sulla one best way, l’altra perché fa dell’incertezza generale una notte in cui tutte le vacche sono nere. In nessun caso insomma si arriva a valorizzare le differenze, a rendere dialogiche le singolarità, a ricondurre le diversità ad una superiore, armonica, molteplice unità.

A meno che non si debba accettare la morale che la stessa Szymborska, trae al termine di un articolo intitolato Cacciatori di Ossa. Si narra qui  la “vera storia” dell’irriducibile competizione fra i due paleontologi Cope e Marsh che, sotto certi aspetti, richiama la famosa parabola dei due Teologi borgesiani. “All’inizio, la rivalità paleontologica fra i due trovò sfogo nelle pubblicazioni scientifiche, ben presto però invase come un fiume in piena le pagine dei quotidiani. Questi due gentiluomini si scambiarono pubbliche accuse di bracconaggio paleontologico e di spionaggio paleontologico, per non parlare poi del plagio paleontologico frutto di avventurismo paleontologico condito di ignoranza paleontologica non esente da una notevole dose di turbe paleontologiche. Questa mandibola è mia – ruggiva Cope. Questa coda è la mia coda – grugniva Marsh….Nel conflitto di competenze e di diritti relativi ai sauri riportati alla luce vennero coinvolte organizzazioni scientifiche, tribunali, istituzioni sociali e, da ultimo, il Senato degli Stati Uniti…(Alla loro morte) risultò che avevano lasciato un patrimonio immenso, tanto in chilogrammi quanto in risultati fecondi per il progresso della scienza. L’interrogativo “avrebbero fatto ancora di più, se avessero lavorato di comune accordo?” è destinato a rimanere senza risposta….Sono quindi obbligata a prendere atto, malvolentieri e con una stretta al cuore, dell’unica cosa che mi sia dato sapere: che Edward Drinker Cope e Othniel Charles Marsh si odiarono con grande profitto”.

 

La foto di Fabiana Cutrano è tratta da Nulla due volte. Il management attraverso la poesia di Wislawa Szymborska.

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