Famiglie

Pino Varchetta: Pranzo di ferragosto (regia di G. Di Gregorio)

Il minimalismo è una cifra poetica che, nata dalle straordinarie pagine di Raymond Carver nella prima metà degli anni ottanta, si è diffusa in quasi tutti gli artefatti artistici, influenzando anche il cinema. Basti pensare alla poetica di Rohmer: un nome per tutti. Quello di Di Gregorio – autore esordiente nella regia e straordinario collaboratore come sceneggiatore dei film di Garrone – può essere classificato come un film minimalista, purché tale nota non venga fraintesa come l’essere solo di fronte a un racconto di grazia, di poco spazio, centrato sulla storiella intorno alla quale girano i protagonisti.

L’opera prima di Di Gregorio è questo, ma è anche altro, il tutto tenuto insieme e proposto da un linguaggio cinematografico che nell’apparente semplicità rivela uno sguardo del tutto nuovo, capace di seguire i diversi protagonisti, insieme empatico e distaccato, costruendo appunto un’opera su più livelli, un’operazione di complessità espressiva. In un ambiente piccolo borghese romano, gettato nel centro della Roma storica tra il Ghetto, Campo de’ Fiori e il rombante Corso Vittorio Emanuele, un borghese, maschio, vicino all’avvio della vecchiaia, si occupa della madre anziana in un regime economico a dir poco stentato. Senza rendersene perfettamente conto – perennemente assonnato com’è e perennemente preso da un’ebbrezza alcolica – viene lentamente, forse dolcemente, ma inesorabilmente, trasformato nel tenutario di una pensione di accoglienza e cura di ultrasettantenni, tre anziane signore, che si affiancano alla madre anziana, tutte appartenenti alla piccola borghesia romana, capaci di testimoniare una peculiare unicità nutrita di bisogni, di manie, di generosità, di invidie, di soprusi, di accondiscendenze. Non si rende conto il protagonista di quanto gli sta accadendo, ma ci marcia, conscio, a poco a poco, di aver trovato così casualmente un modo per tirare avanti, per non affrontare i problemi che non sono poi enormi ma che sono indubbiamente fastidiosi, e che potrebbero distoglierlo da quel suo girovagare, da quelle sue chiacchiere, da quel suo eterno bere vino bianco fresco, dal non trovare mai qualcuno che gli dica in fondo di no. E allora, nel racconto di Di Gregorio – intessuto da lunghi piani sequenza, magistralmente girati in interno, in quell’appartamento piccolo borghese dove tutto è polvere, disordine e testimonianza di un antico decoro che ormai si è dissolto – cura, tenerezza, empatia si mischiano a un cinismo diluito ma pervasivo, a un vivere di verità mai dette fino in fondo, insieme ad aggressività mai espresse. Esemplare, lungo queste tracce di riflessione, è l’episodio della visita medica del tutto inattesa per il protagonista, condotta da Marcellino, medico e suo grande amico. I due si incontrano nel buio ingresso dell’appartamento: la mdp li prende e li accompagna abbracciati l’uno all’altro fotografandoli di spalle e li accompagna in una camera da letto, dove avviene una frettolosa visita medica, durante la quale viene esclusa un’ernia inguinale, ma viene diagnosticato un rialzo pressorio con la minima a 110 e sicuri sintomi di un’angina pectoris, sintomi che vengono subito banalizzati, o per lo meno indicati come essere sotto controllo, con un rinvio a una visita più accurata in ambiente ospedaliero dopo ferragosto. Battute, queste ultime, rassicuranti il paziente tenutario della casa d’accoglienza, e obbligato così ad accogliere come ospite la mamma del medico Marcellino, che compare come per incanto come apparirebbe in un ospedale un’assistente infermiera a raccogliere il referto di un medico. E così, tra verità non dette fino in fondo e abbracci fraterni, i vecchi valori della vecchia borghesia romana si diluiscono di fronte allo scempio della famiglia patriarcale, dentro la realtà fragile di famiglie obbligatoriamente nucleari, che in qualche modo devono pur sopravvivere.