The Collaborative Organization. Parte Prima: Cultura e Tecnologia


Collaborative organization Una  guida  strategica  alla  trasformazione organizzativa 2.0

The Collaborative       Organization, scritto da Jacob Morgan,  è il titolo di un libro pubblicato poche settimane fa negli USA, molto    interessante per chi si occupa della trasformazione delle organizzazioni nell’ottica dei nuovi modelli di Management 2.0: “una guida strategica per affrontare le sfide del cambiamento derivanti dall’utilizzo di Tecnologie Sociali e processi di collaborazione emergente dal basso”. Il volume, arricchito da contributi di autorevoli esperti (da Dan Tapscott ad Andrew McAfee), si segnala per chiarezza espositiva e concretezza.

Ho deciso quindi di rileggerne alcuni capitoli alla luce dei principi dello Humanistic Management 2.0, con lo stesso approccio seguito per The social economy (McKinsey), The social organization (Gartner), Social Media Strategy for Human Resources (Radian6), The Science of Engagement (Weber Shandwick), eccetera.

La   collaborazione   emergente

Innanzitutto, Morgan fa una scelta precisa: rispetto alla terminologia utilizzata da esperti e analisti in maniera spesso confusa (Enterprise 2.0, social business, social CRM: vedi su questo il post Verso la Corporate Social Identity: come ripensare strategia e modelli organizzativi per vincere la sfida del Management 2.0), decide di focalizzarsi su due concetti chiave.

Il primo è  “emergente” (emergent), intendendo con emergente “ciò che diventa visibile o comincia ad essere notato” (nei termini che ci sono familiari almeno a partire dalla pubblicazione del romanzo collettivo che dà il nome a questo blog, “l’invisibile che diventa visibile”). Il secondo è “collaborazione” (collaboration) nel senso di “lavorare con qualcuno per creare qualcosa o raggiungere un obiettivo”. La sintesi “collaborazione emergente” indica in maniera precisa la direzione di sviluppo delle organizzazioni imprenditoriali contemporanee: quella che guarda ai nuovi modi con cui le persone lavorano insieme per creare prodotti o servizi e risolvere problemi. Siamo dunque molto vicini al concetto di co-creazione di valore e collaborazione di massacuore pulsante della social organization e dello Humanistic Management 2.0.

La mossa seguente di Morgan (fondatore del Chess Media Group), anche questa largamente condivisibile, è di legare a due fattori fondamentali, entrambi imprescindibili, la possibilità di evolvere verso la collaborazione emergente: la cultura e la tecnologia.

La Cultura: i nuovi comportamenti

Per uno come Morgan (che compie quest’anno 28 anni) è strano pensare che, fino a poco tempo fa, Tecnologie Sociali di uso comune e quotidiano non esistevano. Come facevamo, si domanda, senza Facebook, Twitter, Wikipedia a ritrovarci, a comunicare, a condividere informazioni?

In effetti è successo tutto in cinque-sette anni. Oggi Facebook ci consente di condividere hobby e interessi. Twitter, informazioni, pensieri e idee. Flickr e YouTube aggiungono il potere delle immagini e piattaforme come Foursquare consentono agli utilizzatori di condividere luoghi fisici. In un mondo sempre più trasparente, il confine fra le nostre vite private e professionali è ogni giorno più labile. Sta diventando normale per le persone lavorare da casa o svolgere attività professionali mentre viaggia. La sensazione è di essere perpetuamente connessi con il mondo digitale. Se fino a poco tempo fa dovevamo fare uno sforzo per connetterci, oggi dobbiamo impegnarci a dis-connetterci.

Bossless Company

Agli occhi di chi ha più di cinquantacinque-sessant’anni tutto questo pone problemi importanti, soprattutto per l’incapacità (e volontà) di entrare nelle nuove logiche e dinamiche relazionali che ne mettono in discussione status, stile di leadership, abitudini acquisite, tanto più  quando occupa posizioni di comando. La collaborative organization tende infatti a coincidere con quella bossless company (su cui ci siamo soffermati in La social organization – parte quarta) descritta in un recente  articolo del Wall Street Journal, ripreso proprio oggi da Federico Rampini su Repubblica, ma anche in precedenza sullo stesso quotidiano ad esempio nell’articolo Il manager guida ma non comanda, dove fra le altre cose, leggiamo: “Forse in pochi conoscono la Semco, gruppo industriale brasiliano premiato dal World economic forum come “Global leader of tomorrow” e trasformato dal suo proprietario, Ricardo Semler, nel più famoso caso al mondo di “management partecipativo”.

In sostanza: niente organigrammi, niente piani strategici quinquennali, orario autogestito dai dipendenti, partecipazione di tutti alle pianificazioni aziendali, abolito il dress code e le regole scritte. Risultato: un fatturato che da 4 milioni di dollari è arrivato a 240; oltre 3mila collaboratori rispetto ai 90 dipendenti del 1982 e un turnover del personale inferiore all’1%. Quello della Semco è un caso eccellente di management partecipativo, che ormai è più che diffuso sia tra i grandi colossi internazionali come Amazon e Google, che nelle aziende più piccole. E proprio il presidente di Google, Eric Schmidt, ha confermato in una recente intervista che «le gerarchie in azienda uccidono la creatività». La conseguenza è un nuovo stile di comando per i manager, non più basato sulle gerarchie, ma fondato sulla cooperazione e sulla condivisione delle scelte”.

Uno stile che tuttavia è visto con orrore, specie in Italia, dalla gerontocrazia tecnocratica di stampo tayloristico che imperversa a tutti i livelli (cfr. quanto da tempo andiamo dicendo in questo blog: almeno da La nuova era della Wikinomics fino a  Il mondo del non profit e il web 2.0: un rapporto difficile da costruire senza ricambio manageriale, ma anche l’affermazione di un novantunenne atipico come Edgar Morin, il grande filosofo della complessità, che oggi   su La Lettura del Corriere della Sera in una intervista afferma: “i destini del mondo sono in mano ai tecnocrati, che hanno paralizzato il pensiero politico”).

Gap generazionale

Ma questa ottusa e pervicace chiusura al cambiamento è destinata inevitabilmente, prima o poi, ad essere sconfitta dalla visione del mondo dei venti-trentenni come Morgan, che costituiscono la linfa vitale e il futuro prossimo del management di qualsiasi organizzazione: quella di chi non riesce neppure a concepire un mondo professionale ancorato a strumenti, processi e logiche di potere lontani anni luce da quelli con cui è cresciuto, che fanno parte integrale del suo naturale modo di vivere.

Quelli che veleggiano intorno ai quarant’anni (almeno quelli con la passione per la creatività e l’innovazione) sono coloro che hanno saputo forse meglio di tutti fare propri questi strumenti, affermandosi come opinion leader nel mondo digitale (pensiamo ai Luca De Biase, classe 1956, Riccardo Luna, 1965, Luca Sofri, 1964) o startupper di successo (Alberto D’Ottavi, fondatore di Blomming, 1965, Gionata Mettifogo, fondatore di Paperlit, 1975): quasi sempre quindi in contesti esterni alle aziende tradizionali. Un gruppo in cui io stesso, classe 1963, mi ritrovo: già responsabile della Comunicazione Corporate ENI, per cui, fra le altre cose, ho disegnato il Portale Intranet, premiato anche dall’Osservatorio Enterprise 2.0 del Politecnico di Milano, Fondatore del social media ideaTRE60, ideatore della piattaforma di Social Education Alice Postmoderna, oggi supporto le aziende nella loro trasformazione in social organization, mentre scrivo per NOVA100 e insegno Humanistic Management 2.0 alla facoltà di Scienze della Comunicazione di Pavia.

Infine, mano a mano (crisi permettendo) che le giovani generazioni, i Nativi Digitali (o I Barbari per usare l’espressione di Alessandro Baricco) entrano nel mondo del lavoro, il gap fra capacità, competenze, modelli mentali “2.0” e il mondo professionale “0.0”, in cui si trovano ingabbiati, diviene un ostacolo insormontabile non per il miglioramento, ma per la sopravvivenza stessa dei processi produttivi. E si tratta di un ostacolo che non si creerà fra qualche mese o qualche anno: sta già crescendo a velocità supersonica. Chi non si sta attrezzando per abbatterlo ne paga seriamente il prezzo (ricordiamo il potenziale “social” di 1.300 miliardi di dollari ad oggi trascurato dalle aziende, secondo il rapporto McKinsey The Social Economy: il che significa che la crisi economica mondiale è in parte connessa all’incapacità di attingere a questo potenziale. E questo fa il paio con il mancato assorbimento nel mondo del lavoro delle giovani
generazioni, il cui tasso di disoccupazione è come è noto a livelli spaventosi, mentre sarebbero gli interpreti ideali della social economy).

Dunque la grande sfida per le organizzazioni oggi è come usare anche internamente le Tecnologie Sociali che fanno parte integrale della vita quotidiana dei loro clienti e in generale dei loro stakeholder (a partire dai dipendenti stessi). Fortunatamente (ma anche inevitabilmente) le organizzazioni più attente e più vicine, per ragioni di business, al mondo social (a partire dell’ICT e dalle Telecom), si stanno ponendo il problema. Ma il tempo stringe  per tutti (vedi ad esempio il post relativo ad uno dei settori più arretrati sotto questo profilo, quello dei servizi finanziari, Banche e Assicurazioni 2.0: creare valore attraverso la social economy nei servizi finanziari secondo McKinsey).

La  Tecnologia   Sociale:   una crescita inarrestabile

Negli ultimi anni, e ancor di più negli ultimi 12-24 mesi, il mondo del business è stato attraversato da grandissime mutazioni. Qualche esempio a caso. Lo sviluppo di Social Network come Facebook e LinkedIn ha conosciuto una incredibile accelerazione, anche nell’utilizzo da parte delle aziende. Nascono come funghi software house specializzate nello scandagliare il Web per catturare ogni tipo di conversazione online relativamente a brand, prodotti, competitor, servizi  e nel consegnare ai clienti questi dati in forme chiare, semplici e dettagliate, come base per la gestione ottimale della Reputation aziendale. Società di consulenza si specializzano nell’aiutare le organizzazioni ad avviare e coltivare community in cui interagiscono e collaborano clienti e impiegati. Cominciamo a vedere lo sviluppo di sistemi che integrano i dati raccolti con il classico CRM e con nuovi strumenti “social”. Il modo in cui si comunica e si condividono le informazioni con e fra clienti e impiegati sta cambiando radicalmente. Startup nate da pochi mesi stanno mettendo in crisi aziende con culture anche secolari, grazie ad approcci e modelli di business completamente alternativi a quelli tradizionali (vedi i casi Paypal, Wonga, Movenbank ancora in Banche e Assicurazioni 2.0: creare valore attraverso la social economy nei servizi finanziari secondo McKinsey). Le Tecnologie Sociali e Collaborative sono il motore di tutti questi cambiamenti.

Collaborazione Emergente non è sinonimo di Social Media

E’ dunque il complesso di questa evoluzione al tempo stesso tecnologica e culturale che sta spingendo il nostro mondo verso un livello di esistenza più connesso e collaborativo. Ed è in questo nuovo mondo che le imprese devono imparare a muoversi.

Tuttavia è bene non dimenticare che, quando si utilizzano Tecnologie Sociali e Collaborative a fini di business, entrano in gioco dinamiche che per alcuni importanti aspetti sono diverse da quelle che ne regolano l’utilizzo privato. In primo luogo, è bene tenere sempre presente che se, in generale, ciascuno è libero di usare i social media nel modo che preferisce, questo non è più vero sul posto di lavoro. Sarà banale, ma occorre sempre ricordare che il raggiungimento dei fini aziendali è l’obiettivo di chiunque utilizzi piattaforme collaborative, social media, applicazioni 2.0 per ragioni connesse all’attività professionale. Per questo uno dei cardini di qualsiasi social media strategy aziendale è la definizione accurata di una social media policy (che ovviamente non esclude, anzi definisce con attenzione, spazi e modi per l’autosviluppo e la “serendipity” anche stimolata da una navigazione creativa del Web). Per la stessa ragione è fondamentale che la value proposition di ogni social community sia chiaramente legata a specifici obiettivi aziendali (cfr.  La social organization – parte seconda).

Secondo. La maggior parte delle imprese è affollata da una pletora di soluzioni tecnologiche e fonti di dati che devono essere integrate per essere fruibili dagli impiegati. E’ un problema che non ci preoccupa in quanto singoli utilizzatori di social media, ma evidentemente è una sfida centrale per le organizzazioni odierne, tanto più che molte delle soluzioni tecnologiche attive sono ormai obsolete. Esempio delle possibili risposte a questa sfida è l’approccio BYOD (bring-your-own-device), al centro delle proposte dei migliori player sul mercato. E’ interessante che Wikipedia, dopo aver definito l’approccio BYOD in questo modo: “a business policy of employees bringing personally owned mobile devices to their place of work and using those devices to access privileged company resources such as email, file servers and databases as well as their  personal applications and data”, prosegue osservando che “some prefer the terms bring your own technology (BYOT) or bring your own behaviour (BYOB), because they express a broader phenomenon, which not only covers the hardware device(s), but also the software used on the device (e.g. web browser, media player, antivirus, word processor)”. Ancora una volta tecnologia e comportamenti (quindi cultura) derivanti dall’uso social software vanno di pari passo.

Terzo. In una social (o collaborative) organization è centrale il concetto di team, di community. Questo significa che il lavoro individuale assume sempre meno importanza rispetto al lavoro collaborativo, con tutte le conseguenze che ne seguono a partire dall’assegnazione degli obiettivi, misurazione dei risultati, valutazione delle performance e politiche retributive. Ad esempio in “Bossless”, le aziende senza manager funzionano meglio. Flessibilità e collaborazione le carte vincenti, leggiamo: “Morning Star è specializzata nella lavorazione dei pomodori: ha raggiunto un giro d’affari da 700 milioni di dollari e di recente ha ottenuto un premio per l’innovazione dalla Harvard Business Review e da McKinsey. Da circa quarant’anni ha abolito i manager. I dipendenti organizzano la loro attività attraverso un documento, il Clou (“Colleague letter of understanding”), dove spiegano la loro “missione commerciale personale”. Che viene valutata dai colleghi, può essere aggiornata quotidianamente ed è visibile a chiunque attraverso un social network interno… i compensi sono stabiliti da commissioni interne sulla base della valutazione dei risultati”.

In Al lavoro senza capi viene invece proposto “il caso Valve, azienda americana più produttiva di Google”: “Senza un boss, senza un capo, liberi dall’oppressione di una gerarchia aziendale, si possono anche fare profitti. E’ il caso di Valve, l’azienda americana sviluppatrice di videogiochi che ha una produttività maggiore di Google. La società di Bellevue (Washington) funziona attraverso un’organizzazione del lavoro totalmente orizzontale… Ogni decisione importante viene presa di comune accordo, democraticamente. Così come il compenso di ogni singolo impiegato: viene stabilita una graduatoria, un ranking dove inserire il profilo professionale: ognuno esprime un voto sulle competenze  e il tasso di valore aggiunto che ogni singolo porta in azienda. Non si vota per se stessi, più alto è il grado di fiducia e autorevolezza, più alto è lo stipendio”.

Quarto. Il pilastro etico su cui si fonda il lavoro collaborativo é la Fiducia reciproca, base essenziale di qualsiasi forma di Engagement. Purtroppo questo è uno dei punti maggiormente critici, direi forse quello in assoluto più critico, anche perchè riassume in sè il senso di tutto quello che abbiamo detto fin qui. Le organizzazioni tradizionali, in quanto Istituzioni Totali, sono fondate su un rapporto conflittuale fra impresa e singoli individui, fra funzione e funzione, fra un team di lavoro e un altro, fra individuo e individuo. Non la Cura o l’Apertura, ma la Paura e l’Odio sono i carburanti che attivano il motore dell’azione collettiva e individuale nelle imprese attuali. E’ la naturale conseguenza della divisione tayloristica del lavoro. Costruire una organizzazione (veramente e non solo in termini retorici) “occamista”, ovvero basata sull’integrazione e non sulla separazione, sul dialogo e non sulla competizione, sulla metadisciplinarietà e non sul trionfalismo funzionale (in una parola: sulla Fiducia reciproca, appunto), significa in moltissimi casi rivedere completamente strutture e processi organizzativi, stili di leadership, modelli mentali, portafoglio di competenze, politiche gestionali, forme di training e comunicazione interna. In tutti i casi cioè di aziende che subiscono ancora l’imprinting dello Scientific Management e che frequentemente coincidono con quelle operanti nei settori di business più maturi. Ad esempio secondo McKinsey non casualmente le aziende energetiche, a partire da quelle petrolifere, sono in assoluto le più arretrate rispetto ai parametri della Social Economy.

Un primo passo verso la trasformazione

Questi sono solo alcuni degli elementi chiave del cambiamento in atto, tuttavia ben esemplificativi delle due gambe su cui sta correndo: tecnologia e cultura. In termini di Change Management tutto ciò suggerisce un punto di partenza su cui avviare la riflessione manageriale nel processo di trasformazione verso la social organization. Potrebbe essere costituito da un set di domande quali: quanto è cambiata l’azienda negli ultimi anni attraverso l’adozione di Tecnologie Sociali (trasversali a tutta l’impresa o con riferimento a singole funzioni come Marketing, HR, Sviluppo Prodotti, Customer Care, eccetera)? Se l’azienda è ferma ancora a cinque anni fa, sempre in termini di adozione di Tecnologie Sociali, c’è da domandarsi: come è potuto succedere? Quali conseguenze ne stanno derivando (in termini di engagement degli impiegati soprattutto più giovani, percezione dei consumatori, tasso di innovazione e competitività, eccetera)? E’ stata una scelta consapevole o subita? Se invece qualche passo è stato fatto, perchè queste Tecnologie sono state adottate magari in alcune aree o funzioni ed in altre no? Con quali risultati/conseguenze? Sono scelte guidate consapevolmente dal Top Management  o si tratta in qualche modo di opzioni legate alla volontà di qualche singolo dirigente o quadro?

The Collaborative Organization. 1. Continua

Vedi anche:

The Collaborative Organization. Parte Seconda: La forza dei legami deboli

The Collaborative Organization.Parte Terza: i rischi della Collaborazione Emergente

Quale Team per il Cambiamento Strategico? – The Collaborative Organization, Parte Quarta

Quale strumento per il lavoro collaborativo? – The Collaborative Organization, Parte Quinta

  • Monica Pini |

    Grazie per la risposta, cercherò i testi e li leggerò. Il problema purtroppo è l’applicazione: il contesto sanitario dovrebbe essere elettivo per definizione, ma tra il dire e il fare l’assetto gerarchico-burocratico, al di là dell'”aziendalizzazione” attuata legislativamente, prevale o “prevarica” 😉
    grazie ancora …. il suo sito è tra i miei preferiti ormai…. buon lavoro

  • Marco.Minghetti |

    @Monica cara Monica, non ho avuto l’opportunità di seguire personalmente un caso applicativo nel contesto sanitario, ma non c’è dubbio che si tratta di un ambito “social” per definizione quindi potenzialmente adattissimo al Management 2.0. Morgan nel suo libro propone ad esempio la case history di American Hospital Association mentre McKinsey nel suo report The social economy individua in enti che vanno dagli ospedali alla Croce Rossa organizzazioni con un potenziale economico enorme da utilizzare in chiave 2.0.

  • Monica Pini |

    Gent.mo Marco, lavoro in un'”azienda” sanitaria italiana. Condivido molto (forse troppo) i principi del management 2.0 e vorrei chiederle se lei ha esperienze, in tale ambito, da riportare o in altervativa qual’è il suo punto di vista sull’impatto (punti di forza e punti di debolezza) applicativo di tale cultura e metodologia nelle azienda sanitarie italiane.
    Grazie Monica

  • Marco.Minghetti |

    @Raffaele e Mirko Grazie per i ringraziamenti ma mi chiamo Marco, non Michele (che peraltro è il bellissimo nome di uno dei miei figli). Per quanto riguarda il tema sollevato in particolare da Raffaele, i vincoli normativi: ci sono, ovviamente, ma non devono essere un alibi. Come scrivo nel post dedicato a Banche e Assicurazioni ad esempio ricordo come i Social Media complicano il problema della conformità (compliance). Banche e assicurazioni devono documentare il modo in cui rispettano le norme di legge, ad esempio rispetto all’informativa obbligatoria circa i propri prodotti, che è strettamente regolamentata e spesso richiede una prolissa documentazione sui rischi di investimento. Come risultato, le questioni regolamentari costituiscono un ostacolo rilevante all’adozione delle Tecnologie Sociali. Secondo un recente sondaggio  (Social media: Catching up with the banks, MHP Communications survey, London, 2011), circa il 50 per cento delle banche globali intervistate cita gli ostacoli normativi come uno dei maggiori deterrenti nel passaggio alle Tecnologie Sociali.
    I player in questo mercato avranno dunque bisogno di investire in soluzioni tecnologiche e processi che consentano loro di utilizzare le Tecnologie Sociali nel rispetto della normativa di riferimento
    E’ evidente poi che soprattutto in questo caso è essenziale la redazione e la diffusione di una adeguata social media policy (vedi anche in questo caso il post relativo)
    Che tuttavia per Banche e Assicurazioni la trasformazione in social organization sia possibile lo dimostra il caso di Farmers Insurance Group, la cui attività si basa su agenti indipendenti incaricati di vendere prodotti, altamente regolamentati, in particolare attraverso severe restrizioni su come al venditore è consentito promuovere le offerte. Gli agenti hanno subito capito che avrebbero potuto usare Social Network come Facebook e altri per costruire relazioni di business, garantendo al tempo stesso la qualità e la conformità con i requisiti normativi. Per affrontare questa sfida, è stato implementato a livello aziendale uno strumento di social networking che permette di monitorare le attività sui Social Media degli agenti e avere un database di tutte comunicazioni effettuate in rete, come le linee guida normative richiedono.
    La società forma gli agenti al corretto utilizzo dei social media e all’esecuzione delle migliori pratiche di conformità anche attraverso un’area di contenuti online, che vanno dagli articoli specializzati ai video aziendali.
    Farmers Insurance è riuscita a fornire a 4.000 agenti una presenza su Facebook nelle prime quattro settimane dall’avvio della piattaforma. Ha quindi utilizzato le reti dei suoi agenti come base per una promozione importante sul sito del gioco FarmVille, con la conseguente acquisizione di oltre due milioni di fan su Facebook in meno di 12 ore.
    Dunque non nascondiamoci dietro a facili alibi, il punto veramente critico per banche e assicurazioni (ed in generale per le grandi imprese) sta nella scarsa propensione ad abbattere le barriere organizzative che impediscono l’uso produttivo delle Tecnologie Sociali. Data la loro dimensione e le loro strutture complesse, i grandi operatori globali non sono in grado di passare rapidamente a nuovi modelli operativi che consentono loro di sfruttare i vantaggi di produttività offerti dalle Tecnologie Sociali. Fino ad ora, la maggior parte di queste istituzioni ha limitato gli investimenti in tecnologia sociale alle funzioni di marketing e non ha tentato di implementare applicazioni collaborative o di comunicazione interna su piattaforme di Enterprise 2.0 su larga scala. Per definizione, le imprese bancarie e assicurative hanno una cultura della riservatezza e discrezione che è essenziale per la natura stessa del business. Tuttavia, start-up innovative come Movenbank e Zopa dimostrano che anche le più grandi istituzioni  possono lavorare in modalità 2.0 su tutti i processi organizzativi, se accettano la sfida del cambiamento culturale e organizzativo.

  • raffaele ricciuti |

    buongiorno michele, proprio in questi giorni ho incontrato sia luna che de biase perché pur essendo l’amministratore di una società pubblica e cinquantasettenne ho intenzione di provare a farne un “impresa” 2.0 unboss. sono fortemente determinato, la mia unica preoccupazione è la reazione dei collaboratori che in un processo di questo tipo sono chiamati ad una grande assunzione di responsabilità ed alla legislazione del lavoro che purtroppo ci penalizza con regole desuete e che non lasciano spazio alla creatività, all’innovazione ed agli esperimenti. Leggerò il libro, ma mi piacerebbe, se possibile, ricevere altre sollecitazioni e suggerimenti.
    grazie
    raffaele

  Post Precedente
Post Successivo