Il tagging come produzione collettiva di senso- Alice annotata 21b

tag aliceChe fare dunque, ci chiedevamo la volta scorsa, per evitare la morsa che ci stringe fra memorie di stock e memoria di flusso? La via di uscita dal paradosso è la produzione collettiva di senso (sensemaking) che passa per la narrazione (storytelling). Per fare questo occorre un narratore, anzi una comunità di narratori: Orazio dà l’eternità ad Amleto raccontandone le vicende e offrendo la possibilità ai suoi ascoltatori di esplorarne le molteplici verità possibili, commentandole e discutendo questi commenti (proprio come su Facebook).  Un ruolo analogo  svolge Marco Polo per il Kublai Kan de Le Città Invisibili (e il nostro Sam Deckard per l’Amministratore Delegato Bill H. Fordgates de Le Aziende InVisibili).

Dunque è il dialogo (inventato da Socrate/Platone per sfuggire alla fissità delle memorie di stock contenute nei testi scritti, come  è spiegato nel Fedro piuttosto paradossalmente –poiché nel momento stesso in cui lo si stende in forma scritta anche il dialogo diventa immodificabile… a meno che non ci si avvalga di un wiki),  la strada che consente di selezionare le memorie di stock e vivificarle inserendole nel contesto della memoria di flusso delle conversazioni, che oggi (come abbiamo visto nei post

La conversazione in Rete: fra Regole, Netiquette, Policy, Emoticon -Alice annotata 19a,

La Buona Educazione nell’era del Societing – Alice annotata 19b,

La società della conversazione – Alice annotata 20)

si svolgono soprattutto online.

La convivialità (proprio nell’accezione del Convivio platonico) diventa così parola chiave nella proposta anti-tayloristica dello humanistic management 2.0. Come ha scritto ieri Bartezzaghi su La Repubblica “nell’oscillazione oramai continua fra oralità e scrittura, la Rete, gli sms, i tweet, i post sembravano aver spostato il baricentro verso la scrittura” ma parallelamente sono in aumento fenomeni come le letture pubbliche, i reading via radio o televisione,  la diffusione non di testi scritti ma di lezioni sul modello TED, gli audiolibri. Elemento chiave dei quali è “la condivisione della lettura, che ha un chiaro impatto affettivo e politico. Stare insieme per (qui Bartezzaghi inconsapevolmente usa una espressione tipica dello Humanistic Management), sentire, capire, assumere parole; dare alla cultura e alla conoscenza la possibilità di essere condivise magari anche senza mediazioni, convivialmente”. E se è vero che l’homo sapiens è anche homo ludens (Huizinga docet) non sorprende che poche pagine prima sullo stesso giornale si celebrasse la morte della console a favore dei social games, ovvero il passaggio dai videogiochi solitari alle esperienze videoludiche di gruppo online. Chiunque abbia un figlio intorno ai 15 anni sa che la funzione aggregante e socializzante, che i ragazzi esperivano in cortile o all’oratorio fino ad un paio di generazioni fa, oggi si è trasferita in Rete.

Tuttavia, la costruzione di percorsi di senso in Rete sembra porre tutti noi in una situazione non dissimile da quella di Alice nel momento in cui si addentra nel bosco in cui le cose non hanno nome (Looking Glass, cap. terzo). Quando digito la parola “amore” su Google, ottengo 212  milioni di ricorrenze: risultato che sembra sancire l’impossibilità di darne una definizione in qualche modo utilizzabile. Il sentimento più universale del mondo (fatto salvo, forse, l’odio) ha smarrito il suo Nome? A ben vedere non è così. La Rete non è il luogo in cui le cose non hanno più, in assoluto, il Nome: non hanno più il Nome deciso dal Padrone del Linguaggio, ma, come nel Jabberwocky, ogni cosa assume due o più significati contemporaneamente, e non necessariamente quelli indicati da Humpty Dumpty.

Per quanto concerne i libri di Carroll, lo ha spiegato bene Elizabeth Sewell nel suo saggio The balance of brilling. Uno degli aggettivi usati come esempio di parola portmanteau da  Humpty Dumpty é frumious. Carroll nella Prefazione allo Snark spiega che è una combinazione di  ‘fuming’ and ‘furious’, ma, osserva Sewell, questa teoria è del tutto insoddisfacente. Frumious non è una parola che presenta due significati “impacchettati” in essa: è un gruppo di lettere in sé per sé senza senso, ma che hanno la potenzialità di attrarre la mente verso alcune parole, di cui due possibili sono certamente fuming e furious, ma non sono le uniche due possibilità. Ciascun lettore può associare a frumious molti altri e diversi significati. Quando ciascuno mette in comune le proprie associazioni con quelle di altri,  il risultato non è la perdita di senso ma la generazione di nuovi significati collettivi.

Che è esattamente quello che succede in Rete ad esempio attraverso la tecnica del mash up, che rimescola i pezzetti delle memorie di stock  ricomponendoli in un nuovo flusso, dando quindi loro una nuova vita, ovvero un nuovo significato (non a caso il Progetto Alice Postmoderna  è divenuto anche un mash up contest). Questo era già lo spirito de Le Aziende InVisibili. Qui sono partito dall’idea di realizzare una nuova modalità di scrittura mutante che andasse oltre le barriere e le divisioni classiche del sapere (metadisciplinarietà). Ora, il modo più ovvio e radicale di riprodurre la poliedrica virtualità dei punti di vista con cui si può leggere il reale è fare scrivere insieme un numero il più possibile elevato di persone, provenienti da campi disciplinari diversi e da esperienze eterogenee, facendole interagire come se fossero i neuroni di uno stesso cervello, creando sinapsi creative al servizio di una opera finale collettiva, interconnessa e condivisa, dall’identità molteplice, certo, ma al tempo stesso unica e coerente. Si trattava dunque di affrontare il tema cruciale della narrazione collettiva in modo radicalmente innovativo, in linea con le pratiche collaborative di produzione open source e wiki che in tutti i campi stanno segnando le nuove frontiere della conoscenza e dell’innovazione. Come ha ben messo in luce il libro Wikinomics [1], il concetto di “mashup”, di contaminazione, trasformazione e trasferimento fra conoscenze, discipline e prodotti artistici o di altro tipo, è essenziale per lo sviluppo della conoscenza e della innovazione nella nostra epoca neo-alessandrina. Sotto questo aspetto assai significativa è la presenza di 190 immagini di Luigi Serafini (il grande artista italiano scoperto proprio da Calvino) che commentano il testo, divenuto un “romanzo a colori”.

Ma, ai fini del nostro ragionamento attuale, è forse ancora più utile riflettere sulla metodologia dei tag. L’attività di tagging (dall’inglese “tag”, contrassegno; in italiano taggare) in origine consisteva nell’attribuzione di una o più parole chiave, dette tag, che individuano l’argomento di cui si sta trattando, a documenti o, più in generale, file su internet. Ma questa attività  ha assunto una importanza sempre maggiore su tutti i siti per catalogarli meglio e proporre altre informazioni correlate agli utenti. Fino a che i singoli utenti hanno cominciato ad usare il tagging per contrassegnare le proprie risorse digitali. Succede così che abbinando ad un certo contenuto un numero potenzialmente infinito di tag o parole chiave, di fatto io ridefinisco quell’oggetto mettendolo in connessione con l’esperienza e l’interpretazione che di quella cosa danno tutte le persone taggate.

Come nel mondo di Alice, le risorse così non hanno più un Nome, ma una molteplicità di Nomi (significati) in continua evoluzione e trasformazione. Siamo tutti come Adamo ed Eva nell’Eden. Lo spiega bene anche Carofiglio nel suo saggio su La manomissione delle parole: dare il nome alle cose equivale a crearle. E ci consente di sfuggire all’ideologia strumentale del Pensiero Unico che, come insegna Orwell, può arrivare a spacciare la Guerra per la Pace, l’Amore per l’Odio e via dicendo (sul rapporto Alice-1984 vedi: King, Murakami, Carroll: una oscura ghirlanda postmoderna). Come diceva Nietzsche, la ragione è dei forti: ma se è più forte la community di Internet del singolo Padrone del Linguaggio, quella che emerge è una ragione collettiva, anzi connettiva (cfr. L’individuo-valigetta – Alice Annotata 9d).

E’ questa la forza della mass collaboration (cfr. la serie di post dedicati alla social organization). Un processo però che richiede quel perfetto “equilibrio mentale” che lo stesso Carroll indica come indispensabile per non scadere dalla generazione di nuovi significati alla anarchia insignificante.

Le incredibili potenzialità del tagging le ha ben capite il fondatore di Facebook che, il 17 maggio 2011, ha brevettato il sistema. In contemporanea è stata annunciata l’introduzione del tag anche per marchi, prodotti e personaggi famosi, in modo da aumentare la visibilità di una risorsa digitale, rendendola più esperibile e ricercabile nel cyberspazio. Si può scegliere una risorsa digitale (post, commento, foto, video, tutto ciò che può essere UGC, User generated content, e non) e, dopo aver scelto la regione di riferimento, collegarla a una persona o a un’entità e inviare una notifica. Alla notifica si può associare anche la pubblicità. Si potrà così ottenere un’analisi semiologica continua sui bisogni, paure, desideri, trend, gusti, preferenze che le parole più popolari (compresi i brand) e usate, veicolano.

Le implicazioni economiche sono tali che le quotazioni di Facebook si sono gonfiate a dismura dopo quell’annuncio. Tuttavia a noi soprattutto interessa sottolineare come il tema del tagging consente di ripensare al tema della generazione di significato in un’ottica del tutto nuova, o meglio vecchia quanto Alice. Gli individui, secondo Weick,  costruiscono ambienti adeguati alle loro aspettative e si integrano ad essi. Le azioni che le persone compiono sono connesse alle interpretazioni che esse hanno della realtà: in tal modo creano il proprio ambiente attribuendovi significati diversi di volta in volta. L’enactment, così Weick definisce il processo, non è altro che una focalizzazione di esperienze, mediata dagli schemi mentali dell’individuo. Ecco allora che l’enactment, l’istituzione di ambienti sociali, in Rete diviene interattività.

Qui, come nelle avventure di Alice,  la produzione di significato è collettiva (ricordate i fiori parlanti del giardino al di là dello Specchio che “pensavano collettivamente?”) e passa principalmente attraverso immagini e conversazioni (cfr. le Note 1-12), come dimostra il fenomeno del photo-sharing le cui dimensioni “sono impressionanti: secondo i calcoli di Pixable, una delle fotoapplicazioni più popolari tra gli utenti di Facebook, visto che ogni titolare di account ha una media di 345 amici, e ciascuno di essi mette online in media 282 fotografie, ogni utente medio ha accesso libero a 97 mila fotografie altrui, più di quante ne riuscirà mai a sfogliare, centinaia di volte più di quante i nostri nonni potevano vedere nel corso di una vita intera. E la quantità cambia la sostanza, come sempre. Le proporzioni della nuova condivisione stanno stravolgendo la concezione tradizionale della fotografia familiare, la sua funzione antropologica. Guardare assieme, commentandole, le foto delle vacanze, o del matrimonio, in certe interminabili ma ineluttabili serate di proiezione di diapositive, era un rito sociale che nutriva concrete relazioni interpersonali. Caricare le stesse foto sul proprio profilo Facebook non è solo un modo per condividerle più velocemente e a distanza, è disperderle nel vento. Come palloncini che scompaiono all’ orizzonte, saranno raccolte da persone in molti casi ignote, che le guarderanno all’ insaputa del titolare, che magari le scaricheranno, modificandole e ridistribuendole… Le foto  non servono a conservare l’immagine del proprio passato ma a fabbricare l’immagine del proprio presente, da esibire, da tenere continuamente aggiornata: i nostri “amici” sfogliano solo le ultime foto, caricate e “taggate” e automaticamente “notificate” ai destinatari… la fotografia all’ era di Facebook non è più un’opera da ammirare, è una performance da recitare. Non è più un contenuto, è un canale”[2] .

Attraverso il tagging, le memorie di stock (le foto) tornano a vivere nel flusso impermanente delle conversazioni in Rete, di fatto rompendo anche la gabbia potenzialmente neo-orwelliana costituita dal frame di Facebook, soprattutto se la conversazione, come appunto nel caso del nostro Progetto Alice Postmoderna  si evolve su più piattaforme, in una logica multicanale.

Va infine aggiunto che “social media hanno abbassato la barriera che separa il “pubblico” dal “privato”, soprattutto in termini geografici: anche quando siamo a casa nostra, ciò che condividiamo sul social web può essere visto da molti. Esistono le tecnologie per scegliere accuratamente chi vedrà un nostro contenuto (ad esempio creare una lista su Facebook o una cerchia su Google+), ma il loro utilizzo non è automatico, a seconda del contesto in cui ci troviamo.  Flickr ha lanciato una nuova soluzione che sfrutta la geolocalizzazione per stabilire se un contenuto pubblicato sia visibile solo a un numero ristretto di amici e persone vicine a noi o a un pubblico più allargato. Questa soluzione si chiama Geofencing, perché si tratta di “recinti” creati grazie alla geolocalizzazione. Quando scattiamo una foto geolocalizzata nel nostro salotto e la pubblichiamo su Flickr, il social network sa – in base alle nostre impostazioni – chi la può vedere e gestisce correttamente le impostazioni di privacy. L’applicazione su Flickr potrà diffondersi lentamente, ma il trend che inaugura è molto interessante: la possibilità di personalizzare automaticamente la privacy dei contenuti che produciamo  in base al contesto in cui ci troviamo”[3].

Come volevasi dimostrare.

Alice annotata   21b. Continua.

Se vuoi partecipare al Progetto Alice Postmoderna iscriviti alla pagina Facebook dedicata.


[1] Tapscott, D – Williams,  A. D. (2008) WIKINOMICS 2.0. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, ETAS, Milano.

[2] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/08/10/facebook-il-mega-album-con-100-miliardi-di.html

[3] http://wearesocial.it/blog/2011/09/geofencing-recinti-social-limportanza-del-contesto/