In un recente documentario dedicato al più conclamato postmodernista fra gli scrittori contemporanei, Philip K. Dick, The Owl in daylight, Philip K. Dick is here!, visto in anteprima al festival della letteratura di Mantova, Jonathan Lethem commenta un passaggio del romanzo Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1965), in cui appare, accanto al divano di uno dei personaggi, “una familiare valigetta, quella del suo psichiatra: il dottor Smile… Il meccanismo era l’estensione portatile del dottor Smile, collegata per mezzo di micro-rel al computer vero e proprio, situato nei sotterranei del Renown 33”. Ebbene, osserva Lethem, anche in questo caso Dick mostra la sua straordinaria capacità di visione del futuro. Non siamo oggi tutti come il dr Smile, individui collegati ciascuno alla valigetta del proprio computer? Non siamo dunque tutti, come potrebbe affermare il simulacro di Charles Dodgson, Lewis Carroll, individui-valigetta, individui-portmanteau (cfr. Alice la Hacker – Alice annotata 9a)?
Alla questione ha indirettamente dato una risposta affermativa Stefano Bartezzaghi, in un articolo scritto subito dopo l’uscita dell’iPad: “Per stupire le bambine vittoriane che incontrava per strada o sulla linea ferroviaria Oxford-Londra (ai maschietti badava meno), Lewis Carroll teneva nella borsa che portava sempre con sé alcuni mirabilia: illusioni ottiche, piccoli automi, scatole magiche, specchi sorprendenti, come quello che «non inverte» la destra e la sinistra. Oggi la borsa del vecchio e ingegnoso illusionista di Alice nel Paese delle meraviglie sarebbe ben più leggera ma anche più fornita di giochi, trucchi e illusioni. Gli basterebbe un iPad: ma non sarebbe più l’unico ad averlo. L’illusionismo si è democratizzato, o almeno è arrivato sul mercato. La prima volta che qualcuno ci mostra un iPad quasi invariabilmente cerca di stupirci mostrandoci proprio l’edizione iPad del classico Alice. Che in versione e-book è diventato un’opera multisensoriale. Ma la metamorfosi riguarderà tutti i volumi digitali prossimi venturi. Arricchiti da fotografie, mappe, grafici, filmati, con la simulazione di gravità per cui nelle illustrazioni del testo un orologio oscilla appeso a una sua catena e gli oggetti si spostano seguendo le scosse che diamo effettivamente alla tavoletta elettronica.[i] Ooooh!”[ii]
Stiamo parlando dunque di quello che è il centro tematico anche dell’ultimo libro di Maurizio Ferraris, significativamente intitolato Anima e iPad, dove troviamo osservazioni come questa: “quando è spento l’iPad è uno specchio, riflette, proprio come nella foto in cui Steve Jobs, presentando un suo computer ultraleggero, lascia che il suo volto si specchi nello schermo spento. Ora, questa è stata a lungo una delle caratterizzazioni dell’anima”. E quest’altra: “l’anima assomiglia ad un libro, in cui si accumulano iscrizioni, memorie, immagini. Un libro animato, insomma, un animated book, un a-book, potremmo dire. Ma tanto vale allora dire iPad”.[iii] Anche Ferraris dunque sembra dirci che il viaggio di Alice attraverso lo Specchio non è differente dal viaggio in Rete che ciascuno di noi fa ogni giorno attraverso iPad, pc, smartphone: un viaggio che coincide con la costruzione di quella che Ferraris chiama genericamente “anima” e noi abbiamo sostenuto essere la nostra identità molteplice (Note: L’Identità Molteplice, Parte prima – Alice annotata 8a; L’Identità Molteplice, Parte seconda – Alice annotata 8b).
A conclusioni analoghe sono pervenuti, nei loro commenti alla Nota 9a, Andréj Volkonskij e Barbara Berri, discutendo le tesi di Sherry Turkle. La cyber-antropologa nel 1997 temeva che l’io potesse spezzettarsi in identità frammentarie, tante quante le finestre aperte contemporaneamente sui nostri pc. Andreèj osservava che quindici anni dopo questi timori sembrano essere ingiustificati: “come esiste quella metacompetenza che ci permette di usare competenze specifiche a seconda della specificità dell’ambito in cui siamo chiamati di volta in volta ad agire, forse esiste anche una metaidentità: quella che ci consente di non perdere mai il contatto col nostro io, nonostante le identità che esso assume di volta in volta.
Alice in fondo sa di essere Alice, nonostante compia un percorso massicciamente sperimentale e frammentante”, mentre Barbara Berri rimarcava l’importanza del riferimento al corpo “reale” per mantenere vivo il contatto con la propria “singolarità”. Io condivido queste opinioni, salvo non dimenticare mai che la “faccia oscura” di queste nostre identità-portmanteau, in cui si fondono naturalità e tecnologia, rimane e rischia di rompere l’equilibrio necessario ad evitarne il dissolvimento “alla moda di Zelig” (che Alice sperimenta pesantemente quando in Attraverso lo Specchio entra nella Foresta delle Cose Senza Nome).
Su questo è stata Claudia Consolini a ricordare in un suo Commento la bella intervista sulla Stampa a Derrick de Kerckhove, durante la sua partecipazione agli Stati Generali della Cultura popolare: “C’è il rischio di impigrirci, delegando le nostre decisioni a strumenti sempre più complessi, che usiamo senza sapere come siano fatti. Oggetti come l’iPad a molti appaiono magici. Presi nel vortice di computer e social media, noi siamo dei Pinocchio 2.0, in senso antropologico: Pinocchio è il superamento dell’uomo sulla macchina, nasce come risultato della meccanizzazione del gesto umano, è la macchina che mente sulla nostra condizione e alla fine chiede di tornare umana. Ai tempi di Carlo Collodi, molti lasciavano la Toscana per andare a lavorare nelle fabbriche del Nord Italia. Lì si disumanizzavano e quando tornavano a casa (Pinocchio che entra nel ventre della balena, grande madre metaforica) non sapevano più chi erano. Ma Pinocchio lì dentro smette di essere macchina e ne esce uomo in carne ed ossa. Nel mondo digitale cosiddetto 2.0 di oggi, dove il nostro Sé esiste solo in connessione a tutti gli altri, la problematica di Pinocchio si è moltiplicata”.[iv]
Giovanna Guarriello ha integrato il pezzo de La Stampa con un prezioso “out of records”: “Io e Giorgio Fontana eravamo presenti e riporto a mia volta la spiegazione ulteriore che Derrick ci ha dato della Metafora di Pinocchio, mentre beveva il suo primo Marrocchino ( una bevanda tipica di Torino fatta di caffè’ cioccolata e panna) al bar di Palazzo Reale.La particolarità della metafora sta nel suo messaggio: il burattino ( noi oggi) deve tornare bambino, con la sua fantasia, la sua creatività, e soprattutto originalità in un mondo di comunicazione ripetuta. Essere ingoiato dalla balena è il necessario passaggio di questa trasformazione, ed essere sputato fuori nelle acque del mare è il tempo stesso della trasformazione in essere umano. Derrick parla del web come della TERZA ORALITA’ a cui siamo soggetti, e forse anticipa il tempo di una ulteriore trasformazione”.
Alice, Pinocchio… solo favole? Quand’anche non condividessimo l’opinione di Wislawa Szymborska che in una sua poesia sostiene di preferire “le favole dei fratelli Grimm alle prime pagine dei giornali”[v], un articoletto pubblicato da Wired il 26 settembre 2011 ci porta ad una realtà che sembra aver già superato ogni immaginazione.
Riprendendo una notizia pubblicata dal New Nork Times, Wired ci informa che una società dell’Illinois, la Narrative Science, ha messo a punto un software in grado di raccogliere ed elaborare dati trasformandoli in articoli e contenuti editoriali. L’idea, degna di P.K. Dick, è di sostituire i giornalisti in carne ed ossa con “simulacri” robotizzati. E questa è solo la punta di un iceberg costituito da numerosi software che vanno molto oltre i tradizionali aggregatori tipo Google News o Paper.li. Provate, suggerisce il redattore di Wired, a testare il generatore di saggi sul postmodernismo o l’ancora più sorprendente SCigen, che grazie all’opera di tre ricercatori del MIT riesce a creare review scientifiche con tanto di diagrammi assurdi e bibliografie accuratissime, e vi renderete conto. Ma soprattutto curiosa, curiosissima, è la conclusione dell’articolista di Wired, che potrebbe essere quella di Alice davanti ad una delle “illogiche” argomentazioni o bizzarri comportamenti delle creature di Wonderland e del Paese dello Specchio: “qualcuno c’è cascato nonostante si tratti di testi del tutto nonsense…”. Che l’articolo sia stato scritto con un sistema robotizzato di scrittura carrolliana? E non è che anche queste note sul postmodernismo di Alice… Meglio non andare oltre. Non vorrei finire come il Deckard di Blade Runner (versione Director’s Cut), il cacciatore di replicanti che scopre alla fine di essere replicante lui stesso!
(Ma tanto non ho scampo, poiché, almeno stando a Ferraris, l’individuo non è che un autonoma: “Le più elevate funzioni artistiche, spirituali, istituzionali, possono essere perfettamente rese con l’automatismo. C’è forse qualche differenza tra il direttore d’orchestra, il sacerdote che celebra la messa, il Presidente degli Stati Uniti che fa il discorso inaugurale al Congresso? Il direttore d’orchestra e il sacerdote seguono un testo già scritto, il presidente finge d’improvvisare ma il testo glielo ha scritto un ghost writer[vi]. E pensare che c’è ancora chi crede che P.K. Dick, con i suoi individui-valigetta, replicanti e simulacri, sia un autore di fantascienza…)
Alice annotata 9d. Continua
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[i] http://www.youtube.com/watch?v=gew68Qj5kxw&feature=player_embedded#!
[ii] I lettori del futuro
[iii] Ferraris, Maurizio, Anima e iPad, Guanda, 2011, p. 20 e 38.
[iv] http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/422235/
[v] Possibilità, in Nulla due volte, cit., p. 23.
[vi] Cit. p. 76