Proprio come in Wonderland, quella in cui viviamo è dunque (cfr. La conversazione in Rete:fra Regole, Netiquette, Policy, Emoticon – Alice annotata 19a e La Buona Educazione nell’era del Societing – Alice annotata 19b) una società della conversazione (oltre che dell’immagine: sul mondo come immagini e conversazioni vedi la serie di post dedicati al primo capitolo di Alice in Wonderland, da Immagini e Conversazioni – Alice annotata 1 a La quintessenza dello humanistic management – Alice annotata 12). Questo fenomeno lo possiamo verificare sia nei suoi aspetti più liquidi (i mercati nell’accezione di Anderson sono luoghi di conversazione per aziende e clienti, così come lo sono i social network attraverso i quali sempre di più passano le relazioni pubbliche e private fra i singoli individui), sia in quelli solidi (vedi i talk show o i reality show, che sono sostanzialmente fondati su conversazioni falsamente spontanee, pre-definite a tavolino dagli Autori del Programma: cfr la conclusione del post Il disorientamento contemporaneo (Alice annotata 13).
Eppure non mancano coloro che, come titolava il Corriere della Sera qualche tempo fa, provano Nostalgia della conversazione[i]: “Che fine ha fatto, nel mondo occidentale, la conversazione? Che fine hanno fatto le deliziose chiacchiere che, all’inizio della Ricerca del tempo perduto, accendono la curiosità delle vecchie zie (sorelle della nonna del narratore), nel giardinetto di Combray, quando arriva Swann? Che fine hanno fatto le conversazioni meravigliose in cui si parlava di tutto (dai più atroci pettegolezzi al caso Dreyfus), come accadeva nei Guermantes, nei ricevimenti tipo quello in casa della marchesa di Villeparisis, lunghi oltre cento pagine, dominati dallo sguardo implacabile della duchessa di Guermantes, prima dell’entrata in scena del signor di Charlus? Che fine hanno fatto i colloqui trepidanti sull’arte e sulla vita che riempiono la notte parigina, come li leggiamo nella Musa tragica, il romanzo meno conosciuto di Henry James? Che fine hanno fatto gli spietati colloqui apparentemente sul nulla, in realtà sui segreti più profondi dell’esistenza, con i quali sono costruiti i romanzi di Ivy Compton-Burnett, la signora più cattiva della letteratura inglese?”, si domandava Giorgio Montefoschi.
E’ semplice: quelle conversazioni non si svolgono più nelle elitarie riunioni degli aristocratici o nei salotti esclusivi, ma si svolgono in pubblico, su Facebook, su Twitter, su i tanti social network verticali od orizzontali ma che hanno la caratteristica di essere aperti a tutti. Per coincidenza (ma le coincidenze non sono mai causali) l’articolo sopra citato era pubblicato a fianco di un intervento di Cesare Segre che lamentava il declino della letteratura imputando questo fenomeno alla perdita di prestigio dei Critici Letterari. In realtà è di questo che i “nostalgici” hanno paura: l’estinzione degli Esperti (ovvero di loro stessi), di quegli Humpty Dumpty unici deputati ed in grado di commentare “non solo tutte le opere già pubblicate ma anche gran parte di quelle che non lo sono ancora”[ii].
Le conversazioni di cui Montefoschi sente la nostalgia hanno avuto il loro apice nella Francia degli Illuministi che hanno forgiato il modello enciclopedico, per cui un certo numero di Esperti categorizzano e definiscono per tutti gli altri il mondo che ci circonda. Un modello che è stato fatto proprio dal taylorismo (cfr. Wislawa Szymborska: dalla prosa del taylorismo alla nuova poesia manageriale) e contro il quale si è rivoltata la Rete con una delle prime grandi affermazioni di costruzione collettiva del significato, Wikipedia. Le conversazioni di cui sente la mancanza Montefoschi sono proprio l’oggetto della satira di Carroll, che ci mostra continuamente come la definizione di un Senso Unico coincida con la produzione di Non Senso. Citati mostra bene questo aspetto analizzando il dialogo surreale che avviene attorno alla pozza delle lacrime di Alice: “Il Topo sta raccontando la sua storia “secca” (dry) in modo che tutti si asciughino, dopo il bagno nella pozza delle lacrime: “Ugh”, disse il Lorichetto con un brivido. “Chiedo scusa”, disse il Topo aggrottando le sopracciglia ma educatamente: “Ha parlato?” “No di certo”, disse il Lorichetto in tutta fretta. “Mi sembrava”, disse il Topo”. Il topo e l’anatra hanno una discussione sul pronome “it” (oggetto linguistico imprecisato); il topo dice: “Lei sa naturalmente cosa vuol dire”… In questa conversazione da salotto circolano solo sonorità vuote”[iii].
Il passaggio dal solido al liquido in termini di Senso è esemplificato dal passaggio dall’oggetto libro alle nuove tecnologie di comunicazione digitale, che mette in evidenza il problema del trascorrere dal Senso-Unico-in-realtà-Senza-Senso del taylorismo al Non-Senso-in-realtà-fin-troppo-pieno-di-significati della contemporanietà 2.0. Per questo è divenuta sempre più centrale l’attenzione sui processi di sensemaking (cfr. i post che vanno da Hard Boiled Alice – Alice annotata 15a fino a Il Malinteso necessario per intendersi – Alice annotata 18b) e storytelling. A questo proposito è da segnalare un recente articolo sulla produzione di senso attraverso la narrazione di storie e le sue relazioni con il processo di acquisto di Heidi Cohen. L’autrice propone una interessante matrice che incrocia le informazioni di cui i clienti hanno bisogno con le tipologie di contenuti da sviluppare (storie).
In termini di formazione, questo passaggio apre la strada a modelli di Education 2.0 che attualizzano proprio il modello conversazionale di cui ha nostalgia Montefoschi. Alice Postmoderna ne costituisce un esempio. Come ricordo nella presentazione del progetto, l’idea è di utilizzare “le possibilità del web 2.0, sottoporre stimoli di riflessione su temi chiave della contemporaneità ai membri di una community multidisciplinare. È già stato raccolto molto materiale in una prima redazione. Grazie ai contributi della community, l’obiettivo è di procedere ad una seconda stesura molto più ricca di quella iniziale, nella convinzione che l’intelligenza collettiva è infinitamente più potente e creativa di quelle delle singole intelligenze che le danno vita. Il tutto darà vita ad una pubblicazione vera e propria, anche multimediale. Per inciso, questo metodo è già stato usato dallo stesso Carroll: fra il 1880 e il 1885 pubblicò periodicamente una serie di “nodi” matematici. Carroll invitava il suo pubblico di lettrici a scrivergli per dare le loro risposte ai nodi e, al termine della puntata successiva, pubblicava una sintesi delle loro risposte con i suoi commenti e la risposta esatta. Alla fine pubblicò in volume tutti questi materiali”.
Più in generale, la questione è stata ben sintetizzata da Cristina Marelli: “La smaterializzazione digitale elimina gli ostacoli concreti alla fluidificazione delle informazioni in entrambe le dimensioni di spazio e tempo, e allenta i freni al rinnovamento dei canoni. Laddove sussiste, l’autorità del canone, e ancor più ogni autorità politica e culturale, deve rinnovare a sua volta le basi e i motivi della sua autorità in termini di autorevolezza, avendo sempre meno strumenti coercitivi per farlo”. Bye bye, O Esperto di qualsivoglia genere e tipo: è il web 2.0, bellezza!
Che, come stiamo vedendo, non è un taumaturgico toccasana, ma pone dei problemi. Ancora Marelli osserva: “Tra stampa e digitalizzazione resta comunque la vocazione alla stabilità, alla permanenza e alla concentrazione dell’una e alla mobilità alla variabilità e alla permutazione dell’altra. Il libro converge e contiene; il digitale è estroverso: reperisce, ispeziona e connette il testo all’esterno con altri testi con la stessa vocazione alla rapidità e all’impermanenza. Tuttavia anche nella digitalizzazione i nodi della rete hanno una varietà di usi che utilizzano spazio e tempo secondo convenienza. I siti, dedicati e no, i blog, i motori di ricerca, le e-mail, i database, i social network, presentano una gamma di tempi e modi di gestire i loro contenuti che produce testi, utenti, atteggiamenti e linguaggi ancora da studiare e comprendere meglio”.
Alice annotata 20. Continua.
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[i] Corriere della Sera 10 agosto 2011.
[ii] Cfr. J.B. Priestley, A note on Humpty Dumpty, 1971.
[iii] Citati, p. 80 sgg.