Punto di avvio del Manifesto del Pop Management sarà una rinnovata riflessione sulla leadership, di cui si avverte da molto tempo una tragica mancanza, a tutti i livelli. Un tema che è al centro delle riflessioni dello Humanistic Management fin dalle sue scaturigini nell’Impresa shakespeariana. Volume realizzato in occasione del Congresso europeo dell’EAPM (European Association of Personnel Management) del 2003, è una rielaborazione degli Editoriali pubblicati nel corso di sette anni su Hamlet, la rivista che ho fondato nel 1997, insieme alle copertine disegnate da Milo Manara per illustrarli.
Allora cercare in Shakespeare una chiave di lettura per temi manageriali poteva sembrare un’eresia: il tentativo poi di analizzare la realtà imprenditoriale con strumenti e apporti provenienti da filoni culturali eterogenei e anche all’apparenza lontanissimi dalle questioni quotidianamente affrontate nelle imprese (dalla letteratura al cinema, dall’arte figurativa alla metafisica, dalla filosofia politica alla fantascienza), poteva apparire come una vera e propria follia. Il metodo nascosto dietro quella follia ha però dato frutti interessanti e concreti.
In primo luogo, si è anticipata una tendenza poi affermatasi a livello internazionale: la sistematica rilettura di Shakespeare in chiave manageriale (o la lettura shakespeariana dell’impresa). La strada che collega il Grande Bardo al management è stata ripresa a livello internazionale da Kenneth Adelman, autore, insieme all’ex Ceo Loockheed Norman R. Augustine, del libro Shakespeare in Charge[1] (edito nel 1999, ovvero due anni dopo la prima uscita di Hamlet). Successivamente una vera e propria Shakespeare-mania ha cominciato a pervadere il mondo manageriale anglosassone: sono usciti titoli come Power Plays: Shakespeare’s Lessons in Leadership and Management di John O. Whitney[2], o Shakespeare on Management di Paul Corrigan.[3]
Tuttavia, ben diverso appare il caso di Hamlet, che pur avendo effettivamente anticipato i tempi, sviluppando nell’arco di quasi sette anni un cammino di riflessione manageriale integralmente “shakespeariano”, fin dall’inizio intendeva andare oltre l’approccio proposto dagli esperti anglosassoni. Essi, infatti, dal genio della drammaturgia inglese traggono essenzialmente degli insegnamenti ancora attuali sulla questione della leadership. Ma è significativo che nessuno degli studiosi sopra ricordati, che pure analizzano, spesso in maniera brillante, Riccardo III, Giulio Cesare, Macbeth, Re Lear, Enrico V (l’unico leader di successo di tutto il corpus shakespeariano), trascurino quasi del tutto l’Amleto, da cui invece ritengo si possano trarre indicazioni altrettanto significative, ma che è meno agevole da trattare in termini di “leadership lessons”, immediatamente comprensibili e traducibili in pratica dai top manager[4].
Procedendo su questa strada è stato possibile avviare una riflessione sulla natura mutante di chi si trova oggi a esplicare la leadership attraverso modalità completamente differenti dal passato, in contesti dove sempre più le gerarchie sono naturali, non prescritte. Mi riferisco alle community che costituiscono il fulcro delle nuove organizzazioni basate sulla collaborazione emergente (Social Organization), dove ci sono alcuni individui che ottengono più rispetto e attenzione di altri e di conseguenza hanno più influenza. Questi individui, tuttavia, non sono stati nominati da un qualche ente superiore. Invece, il loro peso riflette l’approvazione liberamente data dai loro collaboratori. Un leader che è dunque autorevole, non autoritario. Per inciso, il Riccardo II narra proprio la storia della caduta di un leader che fonda il suo potere unicamente sul conferimento per diritto divino del titolo regale, senza avere le caratteristiche personali necessarie per esercitare adeguatamente quel ruolo.
Stiamo qui riferendoci alla convocazione come componente essenziale della nuova leadership. Ovvero al “potere di convocazione” concettualizzato da Piero Trupia, che così viene definito nella Nona Variazione Impermanente del Manifesto dello Humanistic Management: “La convocazione è invito attivo; è suscitamento dell’iniziativa discorsiva dell’altro, a partire dal riconoscimento di principio della sua autorevolezza in quanto altro. È lo sviluppo di relazioni dialogiche, che si prendano carico non solo di usare utilmente un rapporto dato, ma di costruirne/ricostruirne le premesse. La cognitivizzazione del lavoro organizzato, definitivamente sancita dall’avvento di Internet, rende ancora più plausibile questo modo di intendere l’organizzazione. Nel simposio aziendale del XXI secolo, il modello generale di creazione e diffusione della conoscenza è la relazione a rete, in cui gli attori si legano, tramite strumenti condivisi, in network specifici di comunicazione.
Tutto ciò però non deve lasciare in secondo piano la rilevanza del faccia a faccia. Poiché il lavoro cognitivo non si concentra in luoghi fisici designati, tendenzialmente separati dalla società, è difficile immaginare che, in quanto tale, possa agire come nucleo di processi di aggregazione sociale. È significativo che la possibilità della teleconferenza non abbia determinato la fine dei viaggi d’affari. C’è un rapporto funzionale stretto tra comunità virtuale e cenacolo fattuale. Quelle virtuali non sono comunità ma semplici collegamenti – non di rado maniacali – se non generano o se non sono complementari al contatto diretto, al lavoro gomito a gomito”.
Una riflessione che precede di decenni l’attuale dibattito sul lavoro ibrido, così come gli studi sul telelavoro di Domenico De Masi hanno precorso con abbacinante lungimiranza quelli attuali sullo smart working.
E prefigura anche le considerazioni di Pete Davis che nel suo libro Dedicated: The Case for Commitment in an Age of Infinite Browsing[5], illustra i pericoli di quella che chiama «modalità di navigazione infinita», intesa come una modalità di vita per cui siamo alla costante ricerca di qualcosa di nuovo evitando di prendere qualsiasi decisione che potrebbe escluderci da una scelta che pensiamo possa essere ancora migliore. Per Davis oggi «scorriamo infiniti profili di incontri senza impegnarci con un singolo partner, saltiamo da un posto all’altro alla ricerca della prossima grande cosa, e ci rifiutiamo di prendere qualsiasi decisione che potrebbe escluderci da una scelta ancora migliore che immaginiamo sia proprio dietro l’angolo. Questa cultura dell’inquietudine e dell’indecisione sta causando tensione nella [nostra] vita [perché] vogliamo tenere aperte le nostre opzioni, eppure desideriamo ardentemente lo scopo, la comunità e la profondità che possono venire solo dal prendere impegni profondi».
Questa situazione, ha ricordato Jacopo Perfetti, porta a quello che «Barry Schwartz chiamava “il paradosso della scelta“ e ai due lati oscuri di avere troppa libertà: 1) Troppa libertà produce paralisi. Quando abbiamo troppe scelte, alla fine non riusciamo a scegliere. 2) Troppa libertà ci rende costantemente insoddisfatti e delusi. Continuiamo a chiederci se abbiamo fatto la scelta giusta e ci concentriamo sui lati negativi della scelta che abbiamo fatto. Abbiamo troppe aspettative e questo ci rende delusi, in primis di noi stessi, pensiamo che sia colpa nostra, pensiamo che non siamo stati in grado di fare la scelta giusta. Scorriamo infiniti profili di incontri senza impegnarci con un singolo partner, saltiamo da un posto all’altro alla ricerca della prossima grande cosa, e ci rifiutiamo di prendere qualsiasi decisione che potrebbe escluderci da una scelta ancora migliore che immaginiamo sia proprio dietro l’angolo».[6]
Come lo Scrittore di Ariminum Circus Stagione 1 che, incalzato dall’Ombra su mille possibilità di incipit diverse capisce che «doveva stopparla, altrimenti avrebbe prodotto un elenco di opzioni, fra cui non avrebbe saputo scegliere. La sua ambizione letteraria avrebbe fatto la fine miserevole dell’asino di Buridano. Se non quella, più spaventosa, ci ragguaglia Calvino, “dell’inestricabile Ts’ui Pen che, di fronte alle diverse alternative poste da un labirinto, si decide – simultaneamente – per tutte”».
Il caso dell’Enrico V shakespeariano, la cui leadership convocativa si afferma con forza nel discorso prima della battaglia di Azincourt, reinterpretato in versione sportiva da Al Pacino in una famosa scena di Ogni maledetta domenica, è una perfetta esemplificazione di quanto teorizzato da Trupia. L’allenatore di football, come avviene agli influencer sui social media, ma anche ai manager convocativi nelle community aziendali, ottiene attenzione e ha influenza sugli altri membri della squadra non perché riesce a persuaderli, ma perché sa suscitare la loro iniziativa discorsiva tradotta in like, retweet, commenti e risposte a quanto da lui “postato” in qualità di thought leader riconosciuto per competenza, capacità di ascolto, trasparenza e affidabilità.
Torneremo su tutto questo. Basti per ora ribadire che chi vuole avere dei “followers” che siano veramente coinvolti (engaged) sugli obiettivi d’impresa deve cioè essere più simile a un influencer di TikTok o Instagram che a un capitano d’industria tradizionalmente concepito: un Top Manager Pop in quanto espressione di uno stile manageriale aperto, fondato sulla condivisione di informazioni, opinioni ed esperienze con tutti gli stakeholder – clienti, partner, dipendenti, fornitori, comunità locali, associazioni, fondazioni (Total Experience).
5 – continua
Copertina di Marcello Minghetti (Mosaico per Ariminum Circus Stagione 1)
[1] Kenneth Adelman, Norman Augustine, Shakespeare in Charge: The Bard’s Guide to Leading and Succeeding on the Business Stage. Hyperion Books, New York, 1999.
[2] John Whitney Sr., Tina Packer, Power Plays: Shakespeare’s Lessons in Leadership and Management. Macmillan, London, 2000.
[3] Paul Corrigan, Shakespeare on Management. Leadership lessons for today’s managers. Kogan Page, London, 1999.
[4] Ho trattato il tema nell’Editoriale dell’undicesimo numero di Hamlet, “Filosofi o Guerrieri?”, novembre 1998, poi nell’Impresa shakespeariana, cit., pp. 36 e sgg.
[5] Deckle Edge, May 4, 2021
[6] https://jacopoperfetti.substack.com/p/corrente-101-modalita-di-navigazione