La Rimini di Fellini fra passato e futuro. Una Conversazione con Stefania Parmeggiani.

Durante questa caldissima estate si è verificata una curiosa coincidenza: è uscito Fellini, Rimini e il sogno (Zolfo Edizioni), “reportage impossibile”  della Rimini  “distrutta dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale” evocata da Amarcord (ma che di fatto non è mai esistita, se non nella “memoria proustiana” di Fellini), realizzato dalla nota e apprezzata giornalista di La repubblica, Stefania Parmeggiani; mentre il mio inedito Ariminum Circus Stagione 1, scritto con lo pseudonimo Federico D. Fellini in collaborazione con l’animation designer Marcello Minghetti, è stato inserito dalla Giuria della Trentaseiesima edizione del Premio Calvino nella lista dei “30 gloriosi” del 2023, “per l’impeccabile scrittura intessuta di infiniti echi culturali che mira a comporre, con l’accompagnamento di splendide illustrazioni, un vorticoso manuale di letteratura futuribile”.

Una valutazione che integra la Menzione assegnata nel 2022  a una precedente versione dell’opera (comprensiva di tutte le cinque Stagioni di Ariminum Circus, ma senza illustrazioni) dalla Giuria del Trentacinquesimo Premio Calvino “per la costruzione audacemente sperimentale di un romanzo ibrido, insieme lisergico e filosofico, volto a restituire la deflagrazione della contemporaneità”.

Ecco, dunque, emergere sincronicamente (per usare un avverbio di sapore junghiano che il Maestro approverebbe, credo) due visioni di Rimini e del suo figlio più geniale – il quale, nel logo di Fellini100 creato in occasione delle celebrazioni ufficiali, “appare di profilo, camicia bianca, pantaloni e cravatta nera. È stato disegnato da Paolo Virzì con un frustino in mano” scrive Stefania. Che conclude: “come nella foto scattata da Tazio Secchiaroli sul set di 8 1⁄2, sembra un domatore del circo, ma anche di personaggi, storie e ossessioni”.

Una visione che guarda al passato attraverso il prisma deformante e vivificante della reminiscenza (“ricordi, bugie e immaginazioni” è il perfetto sottotitolo del libro di Stefania); l’altra che vaga in cerca delle vestigia di un possibile futuro (potrei tranquillamente fare mio il motto che apre la Prefazione di Fellini, Rimini e il sogno: “Nulla si sa, tutto si immagina”): entrambe trascorrendo intorno ai “topoi” evocati dal grande regista – luoghi fisici e/o sognati («sono un realista onirico», diceva di se stesso Fellini), ma anche narrativi, di una storia cittadina «la cui unica data certa è il 268 a.C. quando Rimini divenne colonia romana e punto di partenza della via Emilia», come certifica il pontificante avvocato di Amarcord  citato con autoironia anche da Stefania, “ricevendo in risposta una sonora pernacchia”.

Una coincidenza, dicevamo: ma le coincidenze, si sa, non sono mai casuali. Stefania aveva recensito ormai dieci anni fa il mio Racconti invernali da spiaggia, progetto multimediale che, da molti punti di vista, rappresenta una sorta di “Ur-Ariminum Circus”: ho pensato quindi che questa fosse l’occasione perfetta per riannodare i fili di una conversazione avviata allora, alla luce dei percorsi mentali che ciascuno di noi ha seguito individualmente nell’ultimo decennio. Lei ha accettato con entusiasmo, l’invito. Quella che segue è la conversazione risultante dal confronto fra noi.

MM: Il primo capitolo del tuo libro s’intitola “La Palata”, che in dialetto indica l’ultimo tratto del Molo di Levante. Un luogo simbolo della città “rinata dalle macerie come un gigantesco set di cartapesta su cui proiettare sogni e desideri”. E così, “ecco quel pazzo di Scurèza ad Corpolò sfrecciare in moto. Ecco il profilo del transatlantico Rex, che non importa se costeggiò la Riviera Romagnola solo una volta, e a luci spente, durante la Seconda guerra mondiale. Nel punto esatto dove la terra finisce e le onde s’infrangono contro gli scogli, là dove i vitelloni sognano avventure e fughe d’amore, inizia la Rimini di Fellini, la città immaginaria, provinciale e bigotta ma anche vitale e godereccia, la dimensione di una memoria dichiaratamente inventata, adulterata, manomessa”.

Anche io, nel capitolo di Ariminum Circus che apre la narrazione vera e propria (Episodio 2, Il Roc), descrivo una sera ad Ariminum attraverso “i passi della gente (che) strusciavano verso il porto per assistere alla partenza dell’Asso di Cuori, il mitico transatlantico dalle linee eleganti, dinamiche, positive di un Vorticismo slanciato verso un orizzonte di sorti magnifiche e progressive, benché probabilmente illusorie. Era diretto verso la fine del mondo, alle dimore ultraterrene del jet set internazionale – affascinante e irraggiungibile – che aveva trascorso un periodo di villeggiatura nelle quarantadue stanze esclusive del Grand Hotel, arredate con autentici pezzi veneziani del diciottesimo secolo, al riparo della facciata liberty rosa fenicottero”, concludendola con la mia reinterpretazione di Scurèza: “Calata ormai la notte, il molo – la Palata – si svuotava, lasciando spazio a Crepitu, il motociclista che correva su e giù rombando e peteggiando”.

Vuoi provare a spiegarci in sintesi perché la Palata è così importante dal punto di vista storico, ma anche perché “anche oggi, a guardare il mare dalla palata, l’orizzonte si riempie di figure” che fondono in se stesse verità e finzione?

S.P.: La Palata è il punto ultimo. Da lì in avanti solo il mare, che, come diceva Tonino Guerra, è l’infinito di noi romagnoli.

I marinai, che s’imbarcavano nei trabaccoli da trasporto per girare il mondo, qui si lasciavano alle spalle la miseria e qui tornavano per raccontare le meraviglie che avevano visto. Per molti anni è stato anche il punto ultimo da cui guardare un altro mondo.

L’Adriatico è sempre stato un mare dall’importanza cruciale: via di penetrazione verso il nord Europa delle merci del sud negli anni dell’impero veneziano, ponte tra Oriente e Occidente nei secoli della colonizzazione greca dell’Italia, poi nello scontro di Bisanzio con Roma e con l’impero germanico, e poi tra cristianità e mondo musulmano…

Dal mare arrivavano a Rimini genti straniere, merci e anche nemici come la corazzata Sankt Georg che il 24 maggio 1915, poche ore dopo l’entrata in guerra dell’Italia, si ferma a due chilometri dalla costa  e bombarda Rimini per 24 minuti. Per non parlare della Guerra fredda quando l’Adriatico si trasformò in una linea di confine, una propaggine del muro di Berlino, Ovest ed Est.

Dalla Palata si guarda il mare e si ascoltano i venti della storia.

E poi i riminesi, da sempre, vengono qui a passeggiare per cullare qualche dolore, come fa Titta in Amarcord dopo la morte della madre o semplicemente per fantasticare. Lo faceva anche Fellini: per lui la Palata era l’inizio di un lungo sogno a occhi aperti, finiva la terra e cominciava l’altrove. Navigava a vista, guidato dalla curiosità per tutto ciò che sfugge alla ragione, guardava l’Adriatico e vi proiettava sogni, inquietudini, aspirazioni.

Mi chiedi perché l’orizzonte si riempie di figure? Penso che valgano le cose appena dette: i venti della storia e quelli della fantasia. Se dai le spalle alla città puoi dimenticarti tutto – la Rimini storica, quella romana, il covo di anarchici e socialisti, la città da cartolina, quella delle estati italiane, le notti di Pier Vittorio Tondelli e l’industria del divertimento… Se dimentichi tutto resta questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare come diceva Fellini. Ed ecco che diventa facilissimo, un gioco da bambini, riempirlo con ciò che si vuole.

M.M.: Il luogo del mito felliniano per eccellenza è sicuramente quel Grand Hotel che, ricordi nel libro, viene inaugurato “il primo luglio 1908 da una intelligente campagna pubblicitaria che dipinge Rimini come «L’Ostenda d’Italia»”.

In Ariminum Circus, rielaborando una celebre descrizione fatta da Fellini stesso, vi introduco uno dei protagonisti del romanzo: “Jay s’immerse in un ambiente che nemmeno gli effetti speciali di Avatar potrebbero eguagliare. I muri più immacolati dei ponti di una nave da crociera; i mobili francesi stile Impero color tabacco, eleganti come le banchine in palissandro dello Yacht Club; le cache-pots con pesci di Galileo Chini; i divani beige, barche immobili fra i gli atolli dei Flower Tables nella calma piatta dell’immensa hall, su cui calavano le migliaia di boe sferiche in cristallo di Burano del monumentale velario; la guida fiammeggiante che saliva curvando di bolina stretta sulla gradinata di marmo verso i fari sfolgoranti delle vetrate policrome; le finestre circolari, disegnate da Henry Holiday, oblò Art Nouveau che aprivano scorci di Cielo fra gli alberi sempreverdi del parco…” – Episodio 3 (Amarcord) Jay e Daisy. Alla fine del capitolo Jay e Daisy balleranno sulla scalinata del grande albergo, proprio come avviene in Amarcord.

Cosa rende dunque questo luogo così magico, perché è centrale nelle fantasie di Fellini?

S.P.: Lo aveva colpito da ragazzino, negli anni Trenta, quando Rimini era un susseguirsi di danze, spettacoli e fuochi d’artificio.

Lui, Titta e il resto della banda giravano attorno al Grand Hotel inseguendo la musica portata dal vento, sbirciavano dalla siepe quello che accadeva sulla maestosa terrazza: donne con la schiena nuda che danzavano abbracciate a uomini in frac, elegantissimi camerieri e cuochi indaffarati. Per loro, ragazzotti di provincia, era il simbolo di una vita raffinata, seducente e proibita.

Una favola, dunque, che diventa luogo dell’anima. Quando il regista gira Amarcord vi ambienta i sogni più sfrenati come la danza delle odalische o la genesi del soprannome Gradisca. Diceva di evocarlo per alimentare l’immaginazione: “Come certi scalcinati teatrini che usano sempre gli stessi scenari”.

E quando lo scalcinato teatrino regala a lui il quarto Oscar e a noi il mito, il cavalier Arpesella, patron dell’hotel, gli riserva a vita la suite 315. Quella stanza, che prima di lui era già stata una finestra sul mare per nobili e artisti, diventa il suo ultimo domicilio, l’ultima casa per i suoi sogni e disegni. Lì dentro però non lasciava entrare nessuno perché, come ha scritto Gabriele Romagnoli, “gli uomini bramano di poter entrare nel luogo dei desideri poi, quando riescono, ci si chiudono dentro”.

MM: Non si può parlare di Fellini, senza parlare delle donne felliniane: la Gradisca, che hai appena evocato, ma anche la Saraghina, la Volpina… Senza trascurare il film centrato sul tema, La città delle donne, che suscitò furibonde polemiche all’epoca, con tanto di accuse al regista di misoginia e antifemminismo.

In Ariminum Circus rielaboro una scena chiave di Amarcord in questo modo: “Non appena l’Aurora, ancora scarmigliata, dischiudeva le porte del talamo olimpico affinché Apollo, sfibrato dalle prove notturne, uscisse a prendere aria, bande di ragazzini s’insinuavano fra gli ombrelloni ben distanziati gli uni dagli altri in attesa del primo turno di vacanzieri. Procedevano avanzando circospetti sui gomiti fino agli spogliatoi dello stabilimento Le Allegre Comari per non farsi individuare dalle telecamere di sorveglianza, commando di granitici Ramboidi con un obiettivo specifico: contemplare, attraverso le tavole sconnesse delle cabine, Veneri callipigie e formose pavoncelle, cassiere con occhi da lupa e dai seni portentosi, burrose professoresse di chimica e biscottate hostess danesi, belle culone americane o di Viserbella. Le donne si spogliavano nel ribollire di curve, di sfere, di rotondità del bucato quando tira vento – sognando concorsi di bellezza, sfilate, spot, fotoromanzi, matrimoni con divi hollywoodiani, profili Instagram da tonnellate di followers”.

Tu, da donna, cosa pensi delle polemiche su questo aspetto centrale dell’immaginario felliniano, in un epoca segnata, nel bene e nel male, da MeToo e affini?

S.P.: Ho riletto recentemente una sequenza di battute felliniane pubblicate da una storica rivista femminista dopo l’uscita di Amarcord. Frasi come: “Gradisca, signor Principe” o “Mi ha concesso l’intimità posteriore”.

Devo ammettere che messe una dopo l’altra mi hanno fatto impressione. Ma si può giudicare un film dalle sole parole? Privandolo delle immagini, delle musiche, delle espressioni, in una parola della poesia?

Non credo, e infatti Amarcord pure essendo pieno di quelle forme burrose e seni portentosi che anche tu citi e rielabori, finisce con il raccontare, attraverso l’ironia, l’educazione sentimentale di una generazione di uomini nati nel 1920 e divenuti adulti nella provincia italiana, fascista, cattolica e anche un po’ bigotta.

Invece, rivedendo oggi La città delle donne, io non vi leggo tanto una satira feroce nei confronti del movimento femminista (donne spiritate, selvagge, crudeli, caricature di sé stesse) ma anche e forse in misura maggiore una critica del maschilismo italiano.

L’ideologia femminista è infatti vista attraverso gli occhi di Marcello Snàporaz (interpretato da Mastroianni), una parodia del maschio felliniano, un erotomane spaventato dal potere delle donne, che si accompagna a un personaggio ancora più ridicolo, Cazzone, il ricco asserragliato in una specie di santuario fallico. Più che una critica al femminismo, quel film mi sembra una lettura tragicomica dei rapporti tra i sessi.

M.M.: Un altro luogo mitico della Rimini felliniana è il cinema Fulgor, cui doverosamente tu dedichi un capitolo. Nella mia Ariminum diventa “l’Ospedale Psichiatrico Fulgor: buen retiro di derelitti, subnormali, mongoloidi dalla testa grossa, deformi, con la bocca aperta, bavosa e la cui nettezza era visibilmente compromessa da residui di cibo e succhi gastrici. Costretti in camicie Posey e legati a poltroncine con pinze per tenere spalancate le palpebre, stavano ammassati in un dormitorio ribollente di voci, sudori, popcorn, gazzose e stringhe di liquirizia a fare da cannucce; con le infermiere, i brodini caldi, la pipì degli incontinenti”, in una fusione tutta personale con l’Arancia Meccanica di Kubrick.

Per te invece cosa rappresenta?

S.P: Un buen ritiro sicuramente, ma dalle angosce e dai dolori terreni.

Il Fulgor ai tempi di Fellini non era un cinema, ma il Cinema, vale a dire la calda cloaca di ogni vizio. Sulle sue pancacce di legno il grande regista ebbe il primo incontro con la macchina dei sogni e anche con un certo tipo di femminilità.

Il primo film che vide, infatti, seduto sulle ginocchia del padre, era un tormentone storico – Maciste all’Inferno – con in scena Elena Sangro, diva del cinema muto, rappresentata semi nuda, con gli occhi bistrati, le forme generose fino all’indecenza.

E quel cinema, oggi rinato grazie agli allestimenti del premio Oscar Dante Ferretti, mantiene intatto il suo fascino: niente pancacce di legno o sale fumose, ma stucchi dorati e porpore rosse, un tripudio di decorazioni in stile romagnol-hollywodiano che è uno stile che non esiste ma che ci riporta all’epoca doro del cinema, quando entrare in una sala buia significa lasciare fuori le preoccupazioni e immergersi in un sogno.

M.M.: Ma la rievocazione del luogo apre anche a possibili riflessioni sul cinema in quanto mezzo espressivo: come lo intendeva Fellini e come lo vediamo noi oggi. Descrivendo il Grand Hotel nel mio romanzo volutamente accenno agli effetti speciali di Avatar, mentre sappiamo che il Maestro era un grandissimo artigiano dell’illusione, ma operava con un talento ispirato più dalla meccanica che dall’elettronica.

Secondo te, cosa penserebbe del cinema attuale, tutto effetti speciali e spesso assai povero di contenuti? E di quel Fellini Forward, cortometraggio realizzato con l’ausilio di una Intelligenza Artificiale? Tema peraltro attualissimo: nel finale del mio Ariminum Circus lascio intendere che non solo quelli indicati esplicitamente come tali, ma tutti i protagonisti del romanzo siano in realtà robot. E nel Bonus Track trapela la possibilità che non solo il finto-recensore del volume, ma addirittura il suo Autore non siano che emanazioni di un’Intelligenza Artificiale denominata Milton…

S.P: Era un uomo voracemente curioso, capace di lasciarsi affascinare dalla modernità anche se dopo un attimo di sgomento.

Un giorno, tornando a Rimini, si accorse che il buio e la notte erano spariti, inghiottiti da luci sfolgoranti, negozi, ristoranti, alberghi e musica. Niente più contadine ma giovani colorati ed eccentrici che sbucavano da ogni angolo. All’inizio provò un turbamento simile a quello vissuto dopo la guerra quando tornò a Rimini e trovò solo un mare di macerie: il mondo che conosceva non esisteva più.

Ma dopo, osservando meglio quei giovani, ne rimase affascinato: avevano qualcosa che lui non aveva conosciuto nella sua giovinezza, vissuta sotto la tutela della Chiesa, del fascismo, del padre e della madre, erano un simbolo di libertà.

Credo che di fronte agli effetti speciali, agli avatar e alle realtà virtuali proverebbe qualcosa di simile. All’inizio sgomento, poi una sorta di invidia: chissà che mondi potrebbe creare se solo facesse cinema oggi? Ma certo, vedendo come questo nuovo universo di possibilità viene soffocato dalle necessità del commercio, intrappolato in plot ripetitivi fino alla noia, forse cambierebbe quel suo vecchio slogan contro la pubblicità: “Non s’interrompe un’emozione” potrebbe diventare “Non si uccide un’emozione”.

M.M. Vorrei concludere questa rapida carrellata di topoi felliniani (rimando alla lettura del tuo libro per scoprirne molti altri), con una riflessione sui “luoghi dello spirito” e sulla dimensione religiosa di Fellini, anche questa oggetto da sempre di furiose polemiche.

Ad esempio, tu scrivi: “Al Capitol di Milano avevano proiettato in prima nazionale La Dolce Vita ed era scoppiato il putiferio: c’è la disapprovazione del Vaticano, ma non quella dei gesuiti che anzi lo sostengono attraverso padre Angelo Arpa, non solo sacerdote ma anche instancabile critico cinematografico e amico del regista. Il settimanale L’Espresso e il mondo della sinistra ap- plaudono, L’Osservatore Romano s’indigna. Fischi, sputi e insulti a Fellini e Mastroianni da parte di alcuni, baci e complimenti da parte di altri”.

S.P.: La spiritualità di Fellini è qualcosa di così profondo e complesso che non si esaurisce nella descrizione del suo rapporto con la religione cattolica, nella quale è stato educato dalla madre, ma abbraccia temi come lo spiritismo, la fascinazione per maghi, veggenti e astrologi, lo studio di Carl Jung, il rapporto con lo psicoanalista Ernst Bernhard e persino l’esperienza con Lsd.

Per questo nel mio libro, il primo luogo dello spirito che cito, non è la chiesa dei Paolotti o quella dei Servi, dove era parroco don Baravelli, insegnante di religione al Liceo classico.

E neppure la Chiesa Nuova dei salesiani che torna in , bensì il Tempio Malatestiano, che è il principale luogo di culto cattolico a Rimini, ma è anche la cattedrale del sogno interrotto di Sigismondo Malatesta, antico signore della città, un monumento alla fides publica e, secondo alcune romantiche letture, anche all’amore. È un luogo pieno di simboli neoplatonici che ancora oggi seducono i massoni italiani e danno adito a tante, fantasiose, letture esoteriche.

Tutti questi luoghi ci raccontano più che la religiosità di Fellini il suo bisogno di credere: “un bisogno né vivo né maturo, per la verità, un bisogno infantile di sentirmi protetto, di essere giudicato benevolmente, capito, e possibilmente perdonato”.

 

Il disegno di copertina è tratto da Ariminum Circus Stagione 1: Mondrian e Mirò discutono passeggiando sulla Spiaggia Iperurania, di Marcello Minghetti