Collavorare: un nuovo verbo nello spirito dello Humanistic Management


Lavorare o CollaborareDue   ragioni   per   leggere un libro 

Dal 3 ottobre sarà disponibile in libreria il volume di    Nicola Palmarini Lavorare o Collaborare?   (edizioni EGEA),   un testo che mi sento di consigliare ai frequentatori di questo spazio per almeno un paio di ragioni, segnalate peraltro anche nell’incipit     della sua ottima introduzione da Emilio Bartezzaghi. Una riguarda il contenuto, l’altra la forma.

La prima è che il centro tematico del libro rispecchia quello    di questo blog, rifrangendosi in un caleidoscopico rincorrersi di mille riflessi della cui ricchezza è impossibile dare anche solo parzialmente conto qui (ammesso dunque  e non concesso che di “centro” si possa parlare nel caso di specie – semmai di un centro che sta metafisicamente ovunque e in nessun luogo). “La questione – scrive Bartezzaghi – è se l’utilizzo dei social media possa rappresentare l’occasione per realizzare una svolta radicale, una discontinuità nel percorso evolutivo delle   organizzazioni. In altri termini, si tratta di capire se e come i social media – che in modo molto più rapido ed esteso rispetto alle precedenti ondate tecnologiche si sono già affermati nella vita quotidiana di milioni di cittadini e consumatori – possano contribuire a creare le condizioni per cambiare radicalmente le organizzazioni e il lavoro, cioè per passare da modelli centrati sulla gerarchia, la frammentazione delle attività e il controllo, a modelli basati sulla collaborazione, l’elevato contributo delle persone e la partecipazione”. In sintesi, se sia possibile il passaggio dal paradigma tradizionale dello Scientific Management ai nuovi modelli imprenditoriali (ma prima ancora, cognitivi e culturali), che di volta in volta abbiamo chiamato Social Organization, Corporate Social Identity, Wikinomics o Social Economy, Social Business, Collaborative Organization, Management 2.0. Per usare il neologismo di     Palmarini, la sfida è quella di “cambiare verbo”: dal “lavorare” al “collavorare”. Un verbo che non esprime più un dogma unilateralmente imposto e neppure la rivelazione di un nuovo messianico “business credo”, ma una verità collettiva emergente (o affiorante, come preferisce il Nostro).

Sotto il profilo della forma, ci troviamo davanti ad   un   testo che trova un ottimo equilibrio fra il saggio manageriale, il pensiero filosofico, la cronaca, la ricerca sociologica, l’approfondimento letterario: come risulta anche scorrendo la Bibliografia, Palmarini sviluppa le sue idee trascorrendo con eleganza da Platone alla McKinsey, da Shakespeare alla Gartner, da Riccardo Luna a Lewis Carroll. Un approccio metadisciplinare simile a quello che caratterizza il volume Nulla    due   volte. Il management attraverso la poesia di Wislawa Szymborska. Similitudine    rafforzata dalla metodologia collaborativa che ha presieduto alla stesura di Lavorare o Collaborare?, intimamente    coerente con il senso complessivo dell’operazione e che sarà apprezzata anche dai lettori del romanzo collettivo che ha dato vita a questo blog. Palmarini infatti ha realizzato una serie di interviste filmate tra marzo e giugno    2012 con “imprenditori, professionisti, manager di imprese grandi e piccole, italiane e straniere, orientali e occidentali, pubbliche e private, scelti per la loro cultura umana e personale ancor prima che professionale”, traendone contributi che sono andati ad incastonarsi come perle di saggezza contemporanea nel filo dei suoi ragionamenti.

“Parte di queste interviste sono inoltre raccolte in forma di clip e disponibili nel corredo digitale del volume, che integra, oltre che gli spunti da un monitoraggio costante e ragionato di newsgroup, headlines, blog e gruppi di discussione, anche una serie di commenti raccolti a seguito di un thread lanciato nel mese di maggio su LinkedIn all’interno del gruppo gestito da «Startegy – Strategie competitive e modelli di business»”. Ne scaturisce un’opera liquida, impermanente     come le nuvole di Amleto (“un libro che parli di social media nelle organizzazioni nel 2012 sembrerebbe avere la stessa prospettiva di vita di una farfalla”, scrive l’Autore), o se si preferisce perennemente in versione beta, che ci racconta di come l’innovazione organizzativa oggi passa da quel principio di apertura posto alla base della convergenza fra cultura umanistica e tecnologia, matrice comune dell’esperienza storica di Olivetti e di quella contemporanea della Apple.  Insomma un’opera della stessa natura dei sogni espressi in questi ultimi vent’anni dallo Humanistic Management 2.0 (anche se Palmarini non apprezzerebbe l’uso del suffisso “2.0”: poi ne parliamo): non per   caso il volume è stato curato dall’eccellente Alessia Uslenghi già editor de L’Impresa shakespeariana. Personaggi reali e virtuali sul palcoscenico d’impresa e del Manifesto dello Humanistic Management.

Due ragioni per discutere con l’Autore dello stesso libro

Tutto bello, tutto giusto, tutto condivisibile? Nessun     dubbio, perplessità, divergenza? Ovviamente no: e se non fosse così, ne risulterebbe svilita l’essenza stessa del lavoro di Palmarini, che trae linfa    dal dialogo, dalla discussione di punti di vista diversi, dall’incontro delle differenze, dall’apertura razionale alla molteplicità e non dalla chiusura razionalizzante e riduzionistica ad un’unica formula, principio o algoritmo che sia (Morin e il suo pensiero sulla complessità, pienamente condiviso da Palmarini, docet).

Mi limito ad un paio di esempi, anche se gli stimoli del libro sono innumerevoli. Chissà se in futuro avremo l’occasione di discuterli qui con Palmarini stesso. Comunque. La prima questione è terminologica, ma credo (considerato anche che la Bibliografia si apre con la Trilogia di New York di Paul Auster) che Palmarini condivida l’assunto morettiano (e ancor prima biblico, platonico e shakespeariano) secondo cui “le parole sono importanti”. Il Nostro Autore non si stanca di sottolineare quanto sia anacronistica la «duepuntozerizzazione» di qualsiasi cosa, con particolare riferimento a termini come Enterprise o Management. Ad esempio a pagina 9 scrive: “parlare di «enterprise 2.0» è già un anacronismo buono per mettere un titolo e dare lustro al consulente di turno: associare l’impresa alla release 2.0 lascia giusto il tempo necessario per passare alla release successiva e ne dà, tra le righe, una connotazione distorta, prettamente tecnologica, come se l’evoluzione delle organizzazioni fosse nelle mani di un qualunque strumento di collaboration anziché delle    persone”. Affermazione supportata dalla seguente citazione: “La dittatura del nuovo continua a dettare legge, ed è l’eco dell’era dot-com a far apparire il Web 2.0 così antiquato anche se è molto recente”, tratta da Geert Lovink, Zero Comments: Blogging and Critical internet Culture, New York, Routledge 2007 (tr. it., Zero comments, Milano, Pearson Paravia Bruno Mondadori, 2008).

Salvo poi utilizzare come fonte a sostegno delle proprie argomentazioni “il sempre illuminante Osservatorio del Politecnico di Milano”, dimenticando (?) che la denominazione completa è “Osservatorio Enterprise 2.0 della School of Management del Politecnico di Milano”, Full Professor della quale è anche il già citato introduttore Emilio Bartezzaghi. Cosa voglio dire? Questo: l’Autore ha tutto il mio appoggio nel sostenere che il problema del cambiamento organizzativo (im)posto alle imprese dalla rivoluzione social è “molto poco tecnologico” e che lo stesso Andrew McAfee (inventore del termine Enterprise 2.0) converrebbe che “ha davvero poco senso continuare a definire questo fenomeno nella striminzita parentesi dell’enterprise 2.0”, intesa almeno nel senso “butta dentro una delle piattaforme collaborative disponibili sul mercato (un esempio a caso: IBM Connections) e d’incanto otterrai una social organization”. La mistica tecnologica non funziona affatto e lo abbiamo ribadito mille volte in questo blog.

Tuttavia Palmarini (ed è veramente strano, dato che fra le altre cose è fondatore e direttore europeo dell’IBM Human Centric Solutions Center) trascura di menzionare il contributo essenziale datato 2005 di Tim O’Reilly, che definisce il Web 2.0 come piattaforma human-centric. Coincidenza (ma le coincidenze non sono mai casuali)  vuole che sia stato recentemente proprio Andrew McAfee a sottolinearlo: “He (Tim O’Reilly) thinks more of this clever human-centric work will go on, and I agree with him (Tim O’Reilly on Putting Labor Back Into the Economy, ANDREW MCAFEE, 14 marzo 2012). Non sarà inutile allora ricordare che secondo 0’Reilly il passaggio dal concetto di Web 1.0,  inteso come modo per visualizzare documenti ipertestuali statici, creati con l’uso del linguaggio HTML (1989, Tim Berners-Lee), nel contesto del quale l’utente resta un semplice “lettore”, a quello di Web 2.0 determina una vera e propria rivoluzione copernicana che mette al centro il singolo essere umano con la sua rete di relazioni.

Con Web 2.0 egli indica una piattaforma partecipativa che trasforma il Web da una estensione del sistema dei massmedia basato sul broadcasting dei contenuti a uno spazio basato su un nuovo ruolo della persona: dalla semplice lettura alla possibilità di contribuire popolando il Web non solo alimentandolo con propri contenuti, ma anche riaggregando in maniera personale i contributi immessi da altri. Bennato a questo proposito definisce il Web 2.0 come “architettura della partecipazione e intelligenza collettiva, ovvero “quel comportamento collettivo di tipo cognitivo che prende forma attraverso le tecnologie che consentono l’aggregazione dell’intelligenza distribuita in diversi individui e gruppi sociali” (Sociologia dei media digitali, 2011, p. 60).

“2.0” è dunque innanzitutto un comportamento: quello che mette in relazione le persone secondo le logiche dell’emersione dell’intelligenza collettiva. Cioè proprio le logiche che permettono di attualizzare, per usare le parole di Palmarini, “tutto il potenziale positivo generato da una origine caotica, ovvero sistemi di relazioni prima impensabili”. Prima di cosa? Palmarini non lo dice, ma la risposta è ovvia: prima del Web 2.0. Insomma, il Nostro, nel suo scagliarsi lancia in resta contro i “radical.it” che infestano il mondo, certo per il desiderio apprezzabilissimo di dare priorità alla cultura invece che alla tecnologia (“più che di 2.0 sarebbe il caso di iniziare a parlare di Persone e di Relazioni; le release lasciamole a chi crede ancora che anche il concetto di tempo sia rimasto lo stesso di qualche stagione fa”, è una sua tipica affermazione) insiste in un vezzo iconoclasta tipicamente da radical.it che, a mio parere, gli fa fare un clamoroso autogol.

Accenno infine solo ad un secondo motivo di possibile approfondimento delle tesi contenute in Lavorare o Collaborare? Il riferimento è al tema centrale della leadership. Scrive Palmarini, parlando di logistica: “La sfida che le organizzazioni devono affrontare è quella di considerare lo spazio ufficio alla stregua di una piattaforma social o, se preferite stare con i piedi per terra e non tra un bit a l’altro, un palcoscenico dove si riproduce quotidianamente il role play della contaminazione e dello scambio. Qualsiasi trucco di scena capace di stimolare questo atteggiamento è benvenuto. Non per lo sfizio di vedere l’effetto che fa mettere gli uni con gli altri esseri umani dalle esperienze diverse, ma per la stessa ragione che ha decretato forse il principale output del social business, ovvero la gestione della conoscenza all’interno di un’impresa. Un valore che ha avuto il potere di risvegliare dal torpore i CEO sempre troppo concentrati sugli asset tangibili del proprio giocattolo. Del resto è una storia antica come il mondo (del avoro): qualsiasi imprenditore, manager, responsabile fin su ai celesti CEO girovagando tra scrivanie o reparti di produzione ha pensato almeno una volta: «chissà dove saremmo se mai fossimo in grado tutti di sapere quello che sappiamo». Il valore è avere la conoscenza delle proprie persone a disposizione. E il sapere che è un valore che è indipendente dal settore di business e pertanto trasversale e universale. Il tema è quindi scegliere come mettere in scena questa rappresentazione e come stimolare lo show. A monte di qualsiasi open, shared, pop-up space ch sia, risiede una forma mentale, un metabolismo dell’organizzazione e quindi dei suoi decision maker (pp. 82-83)”.

Sottoscrivo tutto, dalla metafora shakespeariana dell’impresa come palcoscenico, al concetto che il cambiamento cui sono chiamati i CEO è prima di tutto mentale, poi strategico, quindi operativo e solo in ultimissima istanza tecnologico. Però c’è un però. In tutto il suo magnifico lavoro, Palmarini non è stato in grado di coinvolgere un solo CEO di una azienda veramente importante a livello nazionale. Dove sono gli AD di Eni, Edison, Telecom, Banca Intesa, Unicredit, Fiat, Benetton, Assicurazioni Generali, tanto per fare nomi e cognomi (ma potete serenamente aggiungere tutti quelli delle prime 500 aziende italiane per fatturato)? E, a parte la brava Alessandra Teruggi che ha presentato a suo tempo il caso Vodafone anche qui da noi, dove sono i manager, soprattutto gli HR Manager, di queste organizzazioni, ovvero quelle in cui si giocano veramente i destini del nostro futuro, con tutto l’amore per i CEO di Dallara o H-Farm (che hanno offerto il loro contributo all’opera di Palmarini) e i giovani (o meno giovani) startuppisti celebrati nei suoi entusiastici epicinii da Riccardo Luna?

Caro Palmarini, mancano tutti all’appello. E certamente non per una Sua incapacità, ma, io temo, perché sono lontanissimi da quella leadership convocativamagistralmente descritta dal decano dei firmatari del Manifesto dello Humanistic Management Piero Trupia, giustamente anche da Lei indicata come la strada maestra per i nuovi leader 2.0 (2.0 è ovviamente una mia aggiunta!). Potremo mai convertirli al nuovo verbo del “collavorare”? Perché non basta dire: “andate e collavorate tutti, la messa del taylorismo è finita”. Occorre che i Santi in Paradiso, “i celesti CEO”, si diano una mossa. Ma il tempo stringe, l’economia e la società vanno a rotoli, il potenziale da 1300 miliardi dell’economia social calcolato da McKinsey resta inutilizzato, i giovani che sarebbero i più adatti ad attualizzarlo restano disoccupati (ancora per la serie: le coincidenze non sono mai casuali). Alla faccia dell’engagement!

Che fare allora per “convocare” i vertici della nostra classe dirigente, adesso e non in un indistinto prossimo futuro, non solo sul piano intellettuale ma su quello
concretissimo del cambiamento organizzativo (certo la prima azione è propedeutica alla seconda).  Non sono riuscito a trovare nel Suo libro (mi auguro solo per mia incapacità) una risposta a questa domanda, senza la quale purtroppo resterebbe un bell’esercizio di scrittura (e di piacevolissima lettura), o una Utopia, per quanto necessaria (la conclusione stessa del Manifesto dello Humanistic Management recita: “Swift era convinto che l’uomo, pur non essendo un animale razionale, era tuttavia “capace di ragione.” In base a tale convinzione minimale, egli portava avanti il suo discorso e, alla fine, riscattava il suo pessimismo. Non ascoltare i filosofi di Lagado avrebbe avuto come unico risultato lasciare il mondo com’era”). Ma se per caso Lei o qualche altra giovane o vecchia talpa del Web ha delle idee, batta un colpo!

  • Marco.Minghetti |

    Condivido completamente il punto di vista espresso da Nicola nella sua replica, tanto che negli ultimi
    anni ho deciso di giocarmi il mio futuro professionale sulla
    sfida della trasformazione delle aziende tradizionali in social o se si
    preferisce collaborative organization (questione lessicale sulla
    “duepuntozerizzazione” del mondo a parte, anche perchè il primo
    ottobre ho accettato l’incarico offertomi da GSO, società come saprà
    leader nella consulenza strategica alla Direzione Risorse Umane, di
    Direttore Scientifico per il Management 2.0 !).
    Sono peraltro convinto che i tempi siano maturi, nonostante le
    resistenze opposte dalla gran parte del management nostrano. Tanto per
    fare un esempio, ero a pranzo qualche tempo fa con David Bevilacqua
    (CEO per l’Italia e il Sud Europa di CISCO), il quale mi confermava
    che oggi l’interlocutore per la sua organizzazione non è più tanto
    l’ICT manager quanto il Direttore HR, perchè senza una profonda
    rivisitazione del modello culturale delle aziende non c’è piattaforma
    collaborativa che possa funzionare.Si sta insomma diffondendo la
    percezione che non siamo davanti ad un problema tecnico, ma ad un
    problema culturale, strategico e, perchè no, politico (il riferimento di Alessandro alla necessità del ricambio della classe dirigente è un tema non a caso caldissimo della discussione politica, ma anche manageriale). Il recente
    rapporto McKinsey sul potenziale della Social Economy e la fotografia
    fatta a settembre del Magic Quadrant di Gartner, che evidenzia come
    anche fornitori tradizionalmente “1.0” come SAP e Oracle stanno
    proponendo al mercato piattaforme collaborative, sono tutti segnali
    che il mondo sta andando nella direzione che entrambi auspichiamo.
    In questo quadro credo che sia il momento di passare dalla pars
    destruens della critica allo Scientific Management alla pars
    costruens, ovvero l’edificazione di una cultura collaborativa nelle
    aziende italiane.Piaccia o meno per farlo occorre portare a bordo i CEO non in quanto singole persone più o meno illuminate, ma in quanto responsabili di realtà economiche fondamentali per il futuro del Paese.
    D’altro canto, io credo che il passo da fare forse non è così grande: ad esempio Fossa sul Corriere Economia di ieri dichiarava che ciò di cui hanno bisogno le imprese italiane e “innovazione” e “nuova capacità di relazionarsi con gli stakeholder interni ed esterni”: non so se ne è consapevole ma sta parlando della trasformazione delle aziende in social organization! Ecco, io credo che si debba lavorare su questo: trasformare una forse oggi solo vaga consapevolezza della direzione da prendere, in una comprensione che la soluzione ai problemi di produttività, redditività e competitività passa attraverso i nuovi modelli del lavoro collaborativo; e che questo non è un problema tecnico da delegare agli ICT manager, ma è un problema strategico: direi “il problema” strategico di cui i CEO oggi devono farsi carico.

  • Alessandro Santambrogio |

    I Social Network, nelle loro varie forme, possono sicuramente rappresentare una svolta nella gestione delle organizzazioni. Ma restano, per l’appunto, strumenti che, senza un movimento culturale che li incanali e li utilizzi restano inerti.
    Nella mia pratica quotidiana vedo interi settori merceologici che non sono nemmeno all’1.7. E questo in ambiti come la comunicazione esterna, molto meno sensibili, in termini di centri di potere e di liturgie aziendali, di ambiti come l’organizzazione aziendale e la condivisione di strategie, decisioni, conoscenze.
    Credo che, perché questi principi possano venire applicati, sia necessario un ricambio generazionale. E non solo nelle aziende.

  • Nicola Palmarini |

    Caro Minghetti,
    anzitutto come non ringraziarla della recensione approfondita, attenta, ma soprattutto della ricchezza che aggiunge alla discussione. Io ho messo le mani avanti nella premessa: il vaso di pandora che sta sotto ai temi trattati nel mio libro avrebbe bisogno, per essere circoscritto, di una saldatura marina piuttosto che di un semplice coperchio appoggiato lì. Anche solo il più piccolo spiraglio corre il rischio di lasciar fuoriuscire un tornado. Che ha bisogno di più mani, più menti e più forze per poter essere interpretato: non solo le mie. E quindi rinnovo il ringraziamento per essersi preso la briga di gestire il dibattito e, per rispondere al suo invito, dico subito fin d’ora che io ci sono, io ci sto e non potrebbe essere altrimenti.
    Detto questo tengo a ribadire un punto che forse scivola via nella sua recensione, dandolo giornalisticamente (e in parte giustamente) per scontato, ma che per me resta centrale e che è bene ripetere alla noia: siamo dentro una nuova stagione sociale che ci riguarda tutti. Non che prima non fossimo coinvolti, ma che ci fregava? Stavamo “tutti bene”. Oggi la frattura vita civile-politica che ogni giorno ci sorprende (sorprende?) con le classiche nove colonne sta disegnando, a mio avviso definitivamente, uno scenario in cui viene sempre meno il concetto di rappresentanza. Da un lato si continua a ragionare per rendite di posizione (è di questa mattina la precisazione non petita per il sillogismo “Cota e Zaia non rischiano” ovvero siamo arrivati a dare per scontato che la politica sia diventata, almeno in questo Paese, una partitina di domino tra attori che collaborano solo e soltanto per la suddetta partita). In altre parole, ad un certo punto noi si esce dal teatro quando ancora la rappresentazione, imperterrita che ci sia un pubblico pagante o meno in sala, va avanti. Noi usciamo perché abbiamo altro da fare. E quell’altro “da fare”, vista la totale latitanza della politica, è proprio in mano alle organizzazioni (pubbliche e private) vestite di responsabilità cruciali in quanto soggetti intitolati da una parte a gestire direttamente le persone/collaboratori e dall’altra a trainare il Paese nella sfida competitiva sui mercati. Non lo fa nessun altro, tocca a loro. Quindi le organizzazioni sono quell’imbuto che ha in mano il cerino intitolato a gestire il front-end di cambi generazionali, pensionistici, occupazione, innovazione, competizione, sviluppo, tagli, investimenti, eccetera. In cruda sintesi si potrebbe anche dire: a licenziare o assumere qualcuno e quindi a decidere in parte della dignità di un uomo e di una donna, della felicità di una famiglia, del futuro di un popolo come ho avuto modo di ribadire su un post pubblicato su LINKIESTA.
    Ci sono poi alcune questioni in cui mi chiama in causa e alle quali è un piacere rispondere.
    Sulla “duepuntorizzazione” salvifica release per i consulenti del momento (ma potrei dire lo stesso della parola “innovazione”):
    ma come, io finalmente me la levo dalle scatole e lei mi ci torna sopra così tenacemente? La mia paura era e resta quella di trovarci noi due (e come noi altre migliaia di attori) seduti a qualche bel tavolo del prossimo SMAU 2025, magari organizzato proprio dal Politecnico, in cui faremo la stessa discussione questa volta sul 4.0. Naturalmente io verrò rigorosamente vestito da radical.it.
    Sulle survey.
    Credo di aver detto chiaramente come la penso sulla generalizzata inutilità delle survey, quella del Polimi ha il pregio di illuminare e sostenere sì una mia tesi, ma quella del “paradosso della survey”: da un lato gli intervistati declamano che investiranno massicciamente in tecnologie social salvo poi scoprire che la spesa reale a valle di quelle ammissioni non è nemmeno lontanamente confermata. Un “voglio, ma non posso”? Un “devo, ma non credo”? Ma anche: a cosa servono le survey?
    Sui CEO mi associo al commento del lettore Massimo, ma del resto proprio nel libro tratto il tema della mancanza di visionari e di decisori. Se anche avessi scelto di intervistare qualche “top” probabilmente avrebbe noiosamente celebrato ancora una volta Steve Jobs che è come un blazer blu, dimenticando, per citare alcuni pezzi facili, Olivetti o Mario Tchou e la loro/nostra capacità di essere forwarder anziché follower.
    Cosa che invece non si sono dimenticati di fare alcuni CEO o HR manager intervistati da me e che mi sono sembrati ben consapevoli di avere un ruolo da giocare e anche di provare giocarlo davvero. Forse il punto è proprio qui, la vecchia storia tra autorità e autorevolezza o – come preferisco dire io – carisma di una classe dirigente. Esiste una via italiana al “pensiero sociale e globale” come dice Massimo? Io sono convinto di sì. Forse su questo dovremmo provare a confrontarci, ma senza ri-finire nello sterile elenco delle best practice. Dobbiamo salire di almeno un livello rispetto a quell’elenco.
    E la sua domanda delle cento pistole, che faccio mia anche in quanto talpa-boomer: che fare per “convocare” questa classe dirigente in modo pratico. Io credo di avere dato, nel mio piccolissimo, qualche stimolo pratico: anzitutto scrivendoci un libro, poi provando a ridefinire la misura di successo, suggerendo una attitudine all’instabilità (eresia in questo establishment e nella “nostra” cultura manageriale), a fidarsi meno della statistica, a non comprare il 2.0 in scatola, ma anzi, a far uscire il lato umano dalle scatole che già si possiedono e soprattutto a imparare a dire di sì. Come diceva Edgar Hoover: “il potere di ostacolare non costringe mai ad avere conti da rendere, mentre invece il potere di fare ha bisogno di giustificarsi in permanenza”.
    Chiudo infine riportandole una curiosa citazione: in un consiglio di lettura al mio libro fatto da Michael Page il breve pezzo finisce così:
    “Fantascienza o prossima realtà che sia, voi siete pronti a collavorare?”.
    Minghetti qui parlano di fantascienza. Come se io, lei e i suoi lettori fossimo a bordo di Curiosity a caccia della vita su Marte. Addirittura?
    Mi sa che forse siamo ancora tra l’1.7 e l’1.8 altro che il “duezero”.

  • Massimo |

    Prima che me lo facciate notare “estinzione” ovviamente…

  • Massimo |

    L’assenza dei grandi CEO italiani dal libro di Palmarini non mi sembra una grave perdita, e comunque tale assenza non diminuisce il valore del libro. A mio parere infatti anche questi “grandi” CEO di queste “grandi” aziende italiane sono inevitabilmente dei followers e non dei leader di alcun cambiamento. L’Italia è il luogo per eccellenza delle rendite di posizione che però – quasi per definizione o per la legge del caos – ad un certo punto inevitabilmente crollano d’improvviso. L’economia ed il lavoro sono ormai fenomeni globali e come tali rispondo a logiche meno provinciali che a quelle determinate da un’intervista a questo a quel CEO italiano. Non crede? Non crede anche che se pur ci fossero stati questi illustri esempi di aziende italiane non sarebbe poi stato accusato di essere tremendamente nazionalista e ci saremmo potuti domandare “dove sono gli esempi di google, di Apple o di Facebook?”. Penso che lei abbia toccato un punto centrale ma non abbia colto il fatto che difficilmente avrebbe potuto trovare esempi italiani. Fino a quando – d’improvviso – sarà normale pensare in modo sociale e globale anche per taluni dinosauri. Pena l’estinsione.

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