Continuiamo la nostra lettura del testo di Morgan The Collaborative Organization, che ci consente anche di procedere nella redazione di una sintetica guida strategica allo sviluppo di nuovi modelli di Management 2.0. Dopo avere chiarito cosa intendiamo con il termine Collaborazione Emergente (parte prima) ed avere posizionato la nostra azienda su una mappa ideale per individuare il punto di partenza e quello di arrivo rispetto ai processi organizzativi su cui si intende operare la trasformazione (parte seconda), è necessario adesso esaminare i rischi che ci si assume avviando il percorso di cambiamento. Per l’esattezza, ci sono due categorie di rischi che dobbiamo prendere in considerazione: i rischi legati alla decisione di NON investire in strategie e strumenti collaborativi e i rischi che corre invece chi decide di abbracciare la filosofia della Collaborative Organization.
Cosa rischia chi NON investe nella Collaborazione Emergente
Il primo problema che deve affrontare chi mantiene un impianto organizzativo tradizionale consiste nella crescente perdita di produttività. Come abbiamo visto nella seconda parte, oggi lo strumento fondamentale di lavoro collaborativo è l’email, ma questa situazione non è sostenibile nel lungo periodo. I dipendenti perdono troppo tempo nel rispondere alle email e nel ricercare le informazioni in esse contenute, a discapito della loro efficacia ed efficienza. Ad esempio il Butler Group, che opera nel settore IT, ha scoperto che i dipendenti spendono il 25% del loro tempo alla ricerca delle informazioni necessarie per lo svolgimento delle attività e che oltre il 50% dei costi delle staff sono legati al tempo speso nella condivisione ed elaborazione di queste informazioni.
Il secondo rischio che stanno seriamente correndo le imprese tradizionali è di diventare sempre meno competitive. In un’epoca di cambiamenti velocissimi come l’attuale, l’innovazione è cruciale per qualsiasi organizzazione e lo è tanto più quanto più il settore di business in cui opera è ad alta intensità di conoscenza. Sviluppare modalità di lavoro incentrate sulla collaborazione emergente fra un numero elevato di persone (mass collaboration) significa portare alla luce nuove idee per lo sviluppo dei prodotti e nuovi modelli di business, ma anche abbattere i costi. Non investire sulla Collaborative (o Social) Organization oggi significa perdere progressivamente quote di mercato domani (Cfr. I dieci processi da sviluppare in chiave social secondo McKinsey).
Terzo. Le generazioni che stanno entrando oggi sul mercato del lavoro sono abituate ad utilizzare normalmente i social media. Le aziende che non sono organizzate sul modello della Collaborative Organization, ovvero su processi di lavoro fondati su community online che lavorano collettivamente attraverso social media, sono destinate ad essere percepite come “vecchie”, ostili all’innovazione, non adeguate alle modalità relazionali e comunicazionali cui le giovani generazioni sono abituate: in sintesi, poco eccitanti, per non dire noiose e deprimenti. Tutto questo si tradurrà in una sempre maggiore difficoltà ad acquisire e trattenere nuovi talenti, specialmente se i competitor stanno invece investendo in questa direzione.
Quarto rischio: la morte dell’”Effetto Serendipity”, che anche gli esperti di Hackaton pongono come uno dei 12 principi fondativi il Management 2.0. Ricordo che la Serendipity essenzialmente si riferisce alla capacità di scoprire qualcosa senza cercarla o comunque inaspettatamente o mentre si va alla ricerca di qualcos’altro (come Colombo che ha scoperto l’America mentre cercava le Indie). Molti esperti, da Gary Hamel al nostro Morgan, sostengono che le più grandi opportunità scaturenti da una Collaborative Organization derivano da questo tipo di capacità. Non è possibile prevedere quando l’idea di un dipendente si trasformerà in una effettiva nuova opportunità di business, in termini di nuovi guadagni o di taglio di costi. Tuttavia la costruzione di un ambiente favorevole allo scambio di feedback e alla condivisione della conoscenza aumenta sicuramente le possibilità che queste opportunità emergano, mentre per la loro stessa natura le prassi orientate al “Comando e Controllo” le distruggono alla radice.
Vi è poi il grande tema dell’Engagement, sui cui si siamo ampiamente soffermati nel post Di cosa parliamo quando parliamo di #Engagement. In sintesi: i dipendenti sono il più importante asset di qualunque organizzazione, ma tutta una serie di indagini svolte a livello internazionale rivelano come il tasso di soddisfazione sul lavoro sia in picchiata ovunque. Le persone si sentono sempre più ingabbiate in Istituzioni Totali che non consentono loro di svolgere il proprio lavoro nella maniera più efficace e semplice possibile. Ma soprattutto le persone vogliono sentirsi parte importante e significativa dei processi aziendali, vogliono essere protagoniste dei successi aziendali: ma tutto questo è possibile solo dotandosi di strumenti collaborativi, i quali a loro volta richiedono una cultura e dei processi manageriali diametralmente opposti a quelli utilizzati negli ultimi cento anni. Non investire in questi strumenti collaborativi e in questi nuovi modelli manageriali significa demotivare il personale e abbattere il morale dell’azienda. Sotto questo profilo un caso interessante è quello di Vodafone, che in un recente White Paper racconta proprio come gli investimenti in strumenti collaborativi realizzati negli ultimi tre anni siano nati proprio dall’esigenza di motivare e coinvolgere maggiormente i dipendenti.
Ancora, un tema di cui le organizzazioni tradizionali stanno prendendo progressivamente consapevolezza è la mancanza di sicurezza. La facilità di utilizzo dei nuovi tool 2.0 è tale che un dipendente o un gruppo di impiegati può tranquillamente scaricarne e utilizzarne uno a fini aziendali senza che il management se ne accorga. E quando, prima o poi, la cosa viene a conoscenza di chi sta appollaiato ai vertici delle piramidi aziendali, la frittata è fatta: informazioni riservate sono state divulgate, social media esterni sono stati utilizzati in maniera impropria se non illegale, danni alla reputation e al brand dovuti alla carenza di una social media policy sono ormai irreversibili. E a questo punto intervenire con processi sommari, azioni punitive o esemplari (della serie colpirne uno per educarne cento) è quanto di più deflagrante si possa fare in termini di clima aziendale. Ed è esattamente quello che sempre più frequentemente sta succedendo. Al contrario investire in questi tool e accompagnare le persone nel loro corretto utilizzo consente se non altro all’organizzazione di gestire la situazione in maniera anticipatoria e non conflittuale. Vale insomma il vecchio adagio: se non li puoi battere, unisciti a loro!
Questo genere di problema è legato al fatto che la progressiva cancellazione dei confini fra vita privata e vita professionale, nonché fra vita digitale e vita offline, è un fenomeno inarrestabile. Le persone sentono ormai l’esigenza di potere utilizzare in azienda gli stessi strumenti che usano a casa per leggere i giornali, organizzare un viaggio, entrare in contatto con amici e conoscenti, e via dicendo: tutte attività che ormai quote sempre più rilevanti di popolazione svolgono attraverso social media di semplicissimo utilizzo, come Twitter, Tripadvisor o Facebook, e che consentono conversazioni fra moltissime persone che abitano ovunque nel globo. Ogni giorno che passa diventa sempre più improponibile offrire a queste stesse persone un contesto professionale ancorato a logiche e strumenti ottocenteschi.
Ma la questione più urgente che si pone a chi è ostile alla Social Organization è che questa ostilità rende impossibile catturare, mantenere e trasferire la conoscenza. La produttività di molte organizzazioni oggi è minata proprio dalla progressiva “scomparsa della conoscenza”, ovvero dalla impossibilità per le persone di condividerla, discuterla, valorizzarla, accrescerla. Non a caso McKinsey sostiene che è proprio questa l’area in cui risiede gran parte di quei famosi 1.300 miliardi di dollari che entreranno nelle casse delle aziende che si convertiranno ai principi della Social Economy.
Cosa rischia chi investe nella Collaborazione Emergente
Se quelli sopra esposti sono i rischi che corrono le organizzazioni tradizionali, prima di imbarcarsi in un processo di change management che traghetti l’azienda verso il nuovo mondo della Collaborazione Emergente, è bene cercare di rispondere alle domande che più frequentemente sono poste da chi vede la bottiglia della Social Organization mezza vuota, e non mezza piena.
Obiezione n. 1: In una Collaborative Organization, cosa potrebbe trattenere un dipendente dal rendere pubblica una informazione riservata? E cosa fare se un dipendente diffonde all’interno informazioni che è semplicemente inopportuno vengano alla conoscenza di tutti?
Risposta: Il punto qui è che se un impiegato vuole rendere pubblica una informazione di qualsiasi genere ormai lo può fare comunque. La lezione della famigerata concione del Direttore Marketing di Telecom in cui invitata i suoi manager a “fare come Napoleone a Waterloo” e che ha fatto il giro del mondo su YouTube in tempo reale è un esempio da cui dovrebbero trarre insegnamento tutti. Se invece si accetta la filosofia manageriale del 2.0, ecco che una delle prime cose da mettere in agenda è proprio la redazione di una social media policy che indichi con chiarezza come e quando utilizzare i social media aziendali, nonché la implementazione di strumenti che consentano di controllare le interazioni sviluppate dai dipendenti su di essi.
Sotto questo punto di vista, l’utilizzo di piattaforme collaborative aumenta considerevolmente la possibilità di verificare le informazioni che vengono diffuse all’interno e all’esterno. Mentre è quasi impossibile gestire le innumerevoli forme di “radio scarpa” e di controinformazione che si creano in una organizzazione repressiva (Cfr. il post Convention vecchie e nuove in tre atti, ed in particolare la descrizione del popolare gioco di società, da svolgersi durante una autoreferenziale e noiosissima convention aziendale tradizionale, denominato “il bingo delle cazzate”). Per non parlare delle informazioni sbagliate che si possono diffondere via email senza possibilità di correggerle.
Una cultura aziendale improntata al lavoro collaborativo riduce la possibilità che informazioni inappropriate vengano messe in circolazione. Certo, in cambio, bisogna abituarsi ad accettare (anzi a sollecitare) feedback, critiche, suggerimenti migliorativi… Questo può ledere la suscettibilità di qualche manager che ritiene di non avere più nulla da imparare, spesso semplicemente perché non ne ha più la voglia o la capacità. Ma è meglio sbarazzarsi dell’arroganza ignorante di pochi soggetti che vivono nel passato o investire sull’intelligenza individuale e collettiva di tutti gli altri, la sola che può portare ai futuri successi aziendali?
Obiezione n. 2: Che fare se qualcuno comincia a sparare a zero sull’organizzazione o su qualche altro dipendente?
Risposta: Questo genere di problemi sono molto ridotti nel momento in cui non si ammette l’anonimato e tutti sono costretti ad assumersi la responsabilità delle conversazioni condotte in rete. Certo nelle discussioni all’interno delle community si può arrivare a trascendere (esattamente come può succedere nelle discussioni fra colleghi offline). In questi casi il community manager deve sapersi muovere con tempestività per prevenire o reprimere questi comportamenti (Cfr. La social organization – parte quinta), meglio se appellandosi ad una chiara Netiquette che regolamenta le interazioni online (Cfr. La conversazione in Rete: fra Regole, Netiquette, Policy ed Emoticon).
Obiezione n. 3: Ho provato ad inserire in azienda una piattaforma collaborativa (magari scaricando la versione gratuita di Yammer) ma le persone non la usano.
Risposta: Questo è esattamente quello che succede quando si cade nell’illusione tecnologica: butta dentro un po’ di social software e la gente lo userà. Era la filosofia in base alla quale Andrew McAfee ha coniato il termine Enterprise 2.0 nel 2006 (Cfr. Verso la Corporate Social Identity: come ripensare strategia e modelli organizzativi per vincere la sfida del Management 2.0) è che si è dimostrata ingenua. Nella prima parte di questa serie di post abbiamo ribadito che senza una adeguata cultura aziendale la tecnologia non serve a nulla. Per questo nel modello di change management che sto proponendo a molte aziende è essenziale il ruolo della funzione HR come regia tecnica del cambiamento. In questo quadro, la prima cosa da fare è la messa a punto di una social media strategy per le risorse umane che lavori su tutta la filiera che va dall’Employer Branding e al Recruiting, passando per Comunicazione Interna, Training e Knowledge Management.
Obiezione n. 4: Con l’introduzione di piattaforme collaborative perdiamo il controllo sui contenuti che vengono creati e diffusi.
Risposta: L’abbandono del modello Comando e Controllo, già evocato sopra, è il vero fantasma che impaurisce molti Top e HR Manager. A questa obiezione si possono dare almeno due risposte, apparentemente contrastanti. Da una parte, non bisogna essere Gary Hamel per capire che la rivoluzione social ha reso il Controllo Totale una inutile illusione. Ciò di cui c’è bisogno oggi non è il controllo tayloristico ma la capacità di abilitare le persone a lavorare in maniera più rapida, efficace ed efficiente utilizzando le enormi potenzialità del lavoro collaborativo in rete. D’altra parte, prendendo confidenza con i nuovi tool, ci si rende conto che in realtà il controllo sulla quantità e sulla qualità delle relazioni fra le persone all’interno e verso l’esterno dell’organizzazione da parte del management può addirittura aumentare (vedi quanto scritto a proposito nel post relativo ad un settore di business in cui il controllo dei contenuti è particolarmente rilevante, i servizi finanziari: Banche e Assicurazioni 2.0: creare valore attraverso la social economy nei servizi finanziari secondo McKinsey).
Ciò che in realtà perde il management (ed in particolare la funzione HR) a favore di una maggiore trasparenza e chiarezza è il potere discrezionale, spesso utilizzato in maniera discutibile, per ragioni di potere personale o di cordata e comunque non sempre al servizio dei risultati di business. Dal punto di vista dell’imprenditore o degli azionisti questo passaggio ad una maggiore trasparenza dovrebbe essere guardato con grande favore. Lo stesso vale per i dipendenti che possono lavorare in un clima di maggiore fiducia, elemento essenziale per l’aumento del loro coinvolgimento, responsabilizzazione e proattività (in una parola: engagement).
Obiezione n. 5: L’aver abbracciato la filosofia della social organization e l’adozione di una piattaforma collaborativa hanno prodotto la germinazione di migliaia di community e di blog personali, che fanno perdere tempo e non producono alcun valore aziendale.
Risposta: Questo in effetti è quello che sta succedendo in alcune grandi organizzazioni che hanno trascurato di lavorare su una delle tre gambe essenziali previste dal modello della Social Organization: la value proposition, ovvero l’obiettivo per raggiungere il quale si convoca una community e si sceglie uno specifico social media per lavorare. A differenza di quanto accade nel mondo esterno (dove ognuno può creare gruppi, forum, wiki, ecc. su temi di suo personale interesse), è essenziale che la creazione e lo sviluppo di community aziendali siano strettamente legati a specifici obiettivi (di breve, medio o lungo periodo, come abbiamo visto nella seconda parte di questa serie di post), misurabili e verificabili (salvo un certo margine di libertà per consentire quella serendipity di cui parlavamo prima).
Tuttavia, poiché, a differenza delle tradizionali unità organizzative, non si possono costituire delle community con un Ordine di Servizio, il vero problema è di saper definire delle value proposition tali da attirare la spontanea adesione delle persone che desideriamo partecipino al lavoro collaborativo e che nello stesso tempo consentano di definire chiari parametri di misurazione dei risultati raggiunti dalla community. Tutto questo deve poi essere supportato da una politica retributiva che premi tutti coloro che si impegnano concretamente nel lavoro collaborativo e il cui valore è definito non da una gerarchia angelica di capi, capetti e capoccioni, spesso lontanissimi dalla effettiva operatività quotidiana, ma dal gradimento da parte degli altri colleghi e dal concreto utilizzo che viene fatto dei loro contributi.
Il processo di change management: il terzo step
Generalmente una discussione a livello di top manager sui rischi assunti da una organizzazione che decide di investire sul lavoro collaborativo rafforza la decisione di passare dai modelli organizzativi tradizionali alla Social Organization. Comunque questi rischi ci sono ed è necessario prenderli in considerazione nella fase di assessment che necessariamente costituisce la base della trasformazione aziendale. In particolare è utile discutere i seguenti punti:
Quali sono i rischi connessi ad un mancato investimento in una piattaforma collaborativa per la nostra particolare azienda, in questo particolare momento storico? Oltre a quelli che abbiamo visto in questo post, ve ne sono altri?
Uno dei principali problemi derivanti dal promuovere un processo di trasformazione verso modelli di Collaborative Organization è che bisogna essere pronti ad applicarne i principi su sé stessi. In particolare, una funzione HR che si proponga come regia tecnica del cambiamento 2.0 deve essere pronta a rivedere profondamente i propri modelli mentali e gli strumenti operativi. Siete veramente pronti ad accettare la sfida di un cambiamento che toccherà profondamente competenze, certezze, status acquisiti magari in anni o decenni di lavoro?
Ogni azienda ha una sua storia, una sua cultura aziendale, una sua composizione socio-anagrafica. Prima di partire con il processo di cambiamento,avete valutato con attenzione l’impatto che i nuovi modi di lavorare avranno sulle singole persone, sulle diverse fasce di età, sulle differenti culture professionali interne?
The Collaborative Organization. 3. Continua
Vedi anche:
The Collaborative Organization.Parte Prima: Cultura e Tecnologia
The Collaborative Organization. Parte seconda: La forza dei legami deboli
Quale Team per il Cambiamento Strategico? – The Collaborative Organization, Parte Quarta
Quale strumento per il lavoro collaborativo? – The Collaborative Organization, Parte Quinta